Il dito… quel dito!
Charles Bukowski & Massimiliano Gobbo«Allora, lo scrivi o no, questo cazzo di racconto?»
«Non lo so.»
«Non lo sai? Ma dico, ti sei bevuto il cervello? Quando ci ricapita un’occasione come questa?»
Ben aveva questa cazzo di voce che dava ai nervi anche se non li avevi. E quando parlava al telefono (come allora), era anche peggio. Una cazzo di voce che ti mandava fuori di testa.
«Cristo! Chinaschi, si può sapere che ti succede? Sembri ancora più stronzo del solito» mi strillò dritto in un orecchio, e io a momenti ci restavo sordo. «Non ti sarai rimesso a bere come una vecchia spugna, vero?»
Dio, se aveva ragione! Era più di un’ora che me ne stavo a letto a bermi tutto quel vino della malora. A me il vino non piaceva per niente, ma poi Sarah, mia moglie, mi aveva obbligato a lasciar perdere gin e vodka – quelli sì che mi piacevano – e allora avanti con il vino. Detto tra noi, quello che comprava Sarah era di qualità scadente. Ma, quando devi bere, va bene pure quello.
«Sono sobrio, o quasi» e buttai giù un sorso, che mi gorgogliò stranamente per la gola.
«Sì, come no» fece una pausa. Faceva sempre così quando ti voleva fregare. «Ma, almeno, ce l’hai un’idea?»
«No, non ce l’ho questa cazzo d’idea! E allora?»
«Allora cosa?» si stava incazzando di brutto. A me piace un casino far incazzare la gente. Li trovo buffi quelli che s’incazzano al telefono. Voglio dire, possono strillare come matti, bestemmiare o mandarti al diavolo. E poi? Si fottano, loro e le loro inutili telefonate di merda.
«Ma dico, ti sei dimenticato che sono il tuo agente?» sbuffò. E io già m’immaginavo, come l’avessi avuto davanti, il suo faccione rosso e grasso come un vecchio culo inflaccidito. «Che figura ci faccio con Rodriguez? Quello vuole che gli scrivi un racconto, lo vuole e basta.»
«Che cerca da me quel finocchio?»
«Come sarebbe a dire? Lui è un editore e tu sei uno scrittore, mi sembra.» Altra pausa. «Almeno un tempo lo eri, uno scrittore.»
E bravo il vecchio Ben, lui sì che sapeva prendere le persone per il verso giusto. Ma non si sbagliava per niente. Un tempo ero uno forte, uno di quelli che scrivono cose che la gente non dimentica. Adesso, però, dopo una petroliera di superalcolici, nessuno si ricorda più di me, figuriamoci di quel che avevo scritto.
«Te l’ha chiesto lui? Voglio dire, personalmente?»
«Certo che me l’ha chiesto lui: l’altra sera, al Continental. Te lo ricordi il Continental, vero?»
Il Continental… Certo che me lo ricordavo, quel covo di puttane e ruffiani. Posti come quello vanno alla grande dalle parti di Sunset Boulevard, ci vanno le star, certe volte. Io ci andavo sempre, mi sedevo a un tavolo e mi guardavo intorno per vedere se c’era qualche star. E se poi non c’era, chi se ne fregava? Non ordinavo niente da mangiare, solo da bere. Bevevo tutto il tempo in quel posto. Poi, quando ero sbronzo fino alle orecchie, montavo qualche casino. Cristo, quante ne ho combinate al Continental!
«Allora, senti com’è andata: lui, Rodriguez, era un po’ alticcio e stava con una bionda che non ti dico, dieci a uno che non era la moglie. Mi si avvicina e comincia a chiedermi di te. Cavolo, s’è letto tutti i tuoi libri!»
«Davvero? Non lo sapevo.»
«Nemmeno io. Insomma, attacca a farmi domande su quello che stai scrivendo e roba del genere.»
«E tu che gli hai detto?»
«Che stavi lavorando a un nuovo romanzo; sì, insomma, le solite cose che si dicono in questi casi. E sai che mi dice?»
«Che ti dice?»
«Vuole che scrivi un racconto per lui. Ma ti rendi conto? Rodriguez è un vero pezzo da novanta, e se ti chiede un racconto vuol dire che te lo pubblica.»
«Te lo pubblica su una delle sue riviste del cazzo!» Buttai giù un altro bicchiere.
«Sì, ma quelle riviste del cazzo, come le chiami tu, si dà il caso che paghino bene, e noi abbiamo bisogno di soldi, ricordi?»
Sempre uguale il vecchio Ben: se si trattava di lavorare parlava al singolare, quando si passava all’incasso usava il plurale… Figlio di puttana!
«Se poi il racconto gli piace davvero… Sai come vanno queste cose.»
«Dimmelo tu, come vanno?»
«Cristo, Chinaschi, non fare lo stupido! Quello ti chiede un romanzo, cos’altro vuoi?»
Mi rigirai nel mio lettone ad acqua, che oscillò come una barca alla deriva. Le mutande mi tiravano il cavallo, le odio quando fanno così. Mi guardai distrattamente i piedi. Avevo un solo calzino che spuntava dalle lenzuola. Poggiai un gomito sul cuscino e mi sollevai un poco. Avevo una gran sete e il vino era finito. Queste cazzo di bottiglie durano niente, non fai in tempo ad aprirle e sono già vuote. Io dico che lo fanno apposta quelli che le producono, vogliono far uscire di testa la gente.
«Io non scrivo niente per quel finocchio di messicano!»
«Guarda che Rodriguez non è omosessuale» precisò Ben. Cazzo, quanto gli piaceva precisare a quello.
«Ho detto che è finocchio, non omosessuale. E, poi, tu che ne sai? Ci vai a letto assieme o cosa?»
«Cristo, Chinaschi, falla finita! Sei al verde e non puoi permetterti di fare il prezioso.»
Era la sacrosanta verità, non avevo un soldo, e, anche se mia moglie lavorava in quella specie di giornale di moda, ero troppo orgoglioso per chiederle altri soldi.
«Allora, glielo scrivi o no questo cazzo di racconto?» mi domandò Ben, sapendo che non avevo altra scelta che accettare.
«Fissa un incontro.»
«Già fatto.»
Carogna! Aveva previsto tutto. L’avrei licenziato, ma dopo avrei dovuto pagargli gli arretrati. Che mondo di merda! Non puoi fare nemmeno lo stronzo, se non hai i soldi.
«È per sabato sera» mi fece, tutto soddisfatto. «E sai dove?»
«Lasciami indovinare… al Continental?»
Cosa cazzo ci facevo lì per terra non sapevo proprio spiegarmelo. Mi ricordo solo che ero sceso dal letto e barcollavo come un fottuto marinaio sul ponte d’una fottuta barca nel corso d’una fottuta burrasca o qualcosa del genere. Quando si trattava di sbronzare qualcuno, quello schifo di rosso sapeva il fatto suo, non c’è che dire. Lentamente la nebbia si dissolse, come quando alle dieci del mattino se ne va per la sua strada e lascia la città sgombra, così all’improvviso, come era arrivata. Io la odio quella cazzo di nebbia che se ne va senza nemmeno avvisare.
Alla fine, mi ricordai. Dopo la telefonata ero uscito dalla camera da letto (sempre in mutande) e mi ero diretto in cucina, per prendere un’altra bottiglia di rosso. Il pavimento liscio – cazzo, lo ammazzerei chi s’è inventato il marmo in cucina – e la sbronza che avevo in groppa avevano fatto il resto.
«Come ti senti? Oddio, come sei conciato!» piagnucolò Sarah, guardandomi preoccupata.
Me ne stavo lì per terra, a fissare il soffitto con quello strano lampadario indiano – che cazzo ci faceva nella mia cucina non l’avevo mai capito.
Sopra di me c’erano la faccia deliziosamente angosciata di Sarah e quella dell’inquilino del piano di sotto, il dottor Fieldman, che mi fissava dietro i suoi occhialetti rotondi.
Mi trascinarono di nuovo sul mio letto ad acqua, che a quel punto mi fece venire il mal di mare. Ricordo che vomitai tre volte. La prima sul cuscino di Sarah, la seconda sul mio scendiletto di vacchetta e l’ultima (un po’ lo feci apposta) sulle scarpe di quel coglione di Fieldman. Così la prossima volta si fa i cazzi suoi, pensai.
Insomma, questo Fieldman, che, come ho detto, abita al piano di sotto, fa il medico, lo psicoanalista, mi sembra. Quando mi aveva trovato disteso sul quel pavimento del cavolo, Sarah si era precipitata a chiamarlo.
Quel che odio dei medici è che non si lasciano mai sfuggire l’occasione di farti la predica. E Fieldman quella mattina, spronato da Sarah, me ne fece una con i fiocchi. Per farla breve, avrei dovuto smettere di bere o avrei potuto restarci secco. Col cazzo!
Questo dottore non era però un cazzone, come credevo. Ero ancora sopra il letto, quando lui spedì mia moglie in farmacia a prendermi delle pillole o cose del genere.
Rimaniamo soli, io e Fieldman. E lui che fa? Si scusa per tutto. Mi dice che è suo dovere fare prediche e via dicendo, che mia moglie lo aveva pregato di farmene una, e lui per centosettanta dollari – tanto mi costava l’urgenza – l’aveva accontentata.
Figlio di puttana! Fu forse per vendicarmi dei centosettanta verdoni, o perché Fieldman e il suo culo secco (secco come quello d’un fachiro) m’ispiravano una certa fiducia, che decisi di raccontargli la mia visione.
«Quale visione?» mi domandò con la sua vocetta da finocchio; però lui finocchio non lo era, quelli li riconosco subito, solo la vocetta era da finocchio.
«Mentre ero svenuto, ho visto quella dannata bottiglia di vino che stavo per afferrare dal ripiano in cucina.»
«E allora?» mi fece, guardandomi incuriosito.
«Ci ho visto dentro il Nazareno.»
«Chi?»
«Sì, insomma, Gesù Cristo.»
«Ha visto Gesù nella bottiglia?»
«Certamente» gli risposi, seccato. Non mi piaceva la sua espressione scettica, e neanche il suo culo secco da scettico. «Che c’è ora, è vietato vedere Gesù Cristo nelle bottiglie di vino?»
«No. Ma nel suo caso si è trattato solo della conseguenza d’una lieve commozione cerebrale» mi spiegò, grattandosi uno dei suoi orecchi enormi. Fieldman aveva delle orecchie da primato. Due padelle.
«Sì, ma lei è uno strizzacervelli, e magari me lo sa dire che significa la mia visione.»
Per centosettanta dollari poteva pure farlo uno sforzo, lo stronzo.
«Non sono uno psicanalista, ma uno psichiatra, e poi non mi ritengo competente nel caso d’una visione come la sua.»
Lo fissai, interdetto.
«Sono ebreo. Io e Gesù Cristo non andiamo molto d’accordo.»
Eccomi qua, sbronzo da buttare via, con un gran bernoccolo in testa e uno psichiatra ebreo che non crede alle mie visioni cristologiche. E che cazzo!
«Comunque» riprese, con un mezzo sorriso da ebreo scettico che non crede ai cristi in bottiglia. «Cos’è che ha visto esattamente?»
«Ho visto Gesù. Gliel’ho detto.»
«D’accordo, ma che faceva? Voglio dire, sorrideva, pregava o cosa?»
Feci uno sforzo di memoria non da poco, per uno completamente sbronzo. «Non sorrideva, era impassibile. Mi guardava dritto negli occhi e indicava il cielo con l’indice della mano destra.»
«Un sogno da cristiano, insomma» concluse Fieldman, dondolando la testa.
«Ma io non vado mai a messa. Non sono credente» obiettai, cercando invano di mettermi a sedere, ma ricaddi subito indietro.
«Questo lo dice lei» proseguì Fieldman. «Lei è un ateo cosciente, ma anche un credente inconscio.»
«Non è vero!» protestai, «io non credo in niente.»
«Lo racconti a Freud» mi fece lui, sogghignando. «Poi, se proprio non si fida, provi a chiederlo direttamente al suo Gesù. C’è gente che ci parla, sa?»
«Ottimo lavoro, Chinaschi, sono davvero colpito!» disse Rodriguez, mostrando i suoi dentoni gialli da mangiatortillas. Ce ne stavamo tutti e tre, io, Ben e lui, ad un tavolo al Continental. Intorno a noi, immerso in una cortina fumogena che sapeva d’avana, c’era il più vasto campionario di dissolutezza di tutta la costa orientale: puttane, finocchi e alcolizzati, nelle più svariate combinazioni.
«È un capolavoro, questo racconto, un vero capolavoro!» continuò Rodriguez, buttando giù l’ennesimo drink. «Chinaschi, te l’hanno mai detto che sei un cazzo di genio?»
Un genio, figuriamoci! Che idiota questo Rodriguez. Gli bastavano un paio di drink e diventavo un genio.
«Che le avevo detto?» intervenne Ben, con un sorriso da ruffiano stampato sul suo muso di culo. «È in piena forma, il nostro Chinaschi.»
«Dico sul serio» riprese Rodriguez, accendendosi uno di quei puzzolentissimi sigari messicani. Cazzo, dovrebbero metterli fuori legge! «Un’idea geniale, quella di questo scrittore alcolizzato alle prese con la sceneggiatura. E poi c’è la storia dell’incidente in salotto.»
«In cucina» lo corressi, un po’ seccato.
«Be’, sì… in cucina, certo. Senza parlare dello strizzacervelli ebreo. Fenomenale! E il Cristo in bottiglia? Mi fa morire!»
Ben, da buon ruffiano, gli riempì di nuovo il bicchiere. «Sicuro, il nostro Chinaschi è sempre il migliore» disse tutto soddisfatto, come se avesse appena infilato le mani tra le tette di Peggy Lipton.
«Già» fece Rodriguez, sbuffandomi in faccia una folata del suo merdoso sigaro. «Vorrei solo sapere che ci fa Gesù con quel suo dito alzato. Indica il cielo, ammonisce o cosa? Significa forse che la via della redenzione passa per la rinuncia alla bottiglia?»
Me lo disse fissandomi con quei suoi occhietti da finocchio messicano. A quel punto, morivo dalla voglia di fare come il Cristo della visione: avrei voluto alzare pure io il mio dito, ma non l’indice. Certo.
Ma Rodriguez era un finocchio insistente. Mi fece un cenno spazientito, agitando il cazzo di sigaro: «Allora, che vuol dire quel dito alzato?».
Fu allora che mi scoppiò quella cosa nel cervello, fu come un lampo accecante, una specie d’illuminazione, credo. D’improvviso, per la prima volta, tutto mi apparve maledettamente chiaro.
«Davvero vuole saperlo?» gli domandai.
«Certo.»
«STAPPALA!»
(Titolo originale: The finger, 1974,
traduzione di Max Gobbo)