Dove banchetta il corvo
Gianpiero MattanzaOltre al liscio piano di un mare basso e infinito, in lontananza nulla: solo la linea curva della penisola, che continua il proprio cammino pomeridiano senza fretta, verso nordovest. 1984. La sabbia di Chowpatty Beach è calda, non più rovente come qualche ora prima; il sole, già rosso, non bivacca ancora stanco all’orizzonte, anche se la sua silenziosa discesa è già avanzata. Un uomo – avrà quasi settant’anni, portati, peso gravoso, piuttosto male su una schiena un po’ curva – gironzola con passo stanco, seguendo l’andirivieni dell’onda: sembra che l’intera spiaggia gli stia entrando nei sandali di pelle. Che fastidio! Dalle maniche corte di una camicia hawaiana spuntano due braccia per nulla abbronzate, con una fitta peluria. I pantaloni sono di lino bianco, leggerissimi, un po’ spiegazzati. Ma va bene, il lino va portato così. Almeno crede.
Un grosso corvo, nero e grigio, sta beccando qualcosa, forse una conchiglia, poco lontano: Bombay è piena di queste bestie volanti, come qualsiasi altra città marittima lo è di gabbiani. Curvo, si avvicina all’uccello – che non sembra spaventato e continua a beccare il suo frugale pasto salmastro – e, accovacciato, cerca di sfiorarlo. «Vieni qui, devo parlarti.» Non si preoccupa di sembrare ridicolo. «Guarda che non te lo ripeto!»
L’uccello, con pochi balzi stanchi, se ne va poco lontano, quasi annoiato.
«Nemmeno loro mi danno più retta» piagnucola. «Non sono un san Francesco d’accatto… vieni qui.» L’uomo indica i propri piedi, come si farebbe con un cane.
«Vieni qui, maledetto! Puttana tua madre!» Tentando di avvicinarsi, minaccioso, con il pugno destro alzato al cielo, inciampa in una piccola buca, perde l’equilibrio e cade di faccia sulla sabbia. La bestia si sposta appena, per nulla spaventata, forse incuriosita dall’atteggiamento dell’interlocutore.
«Sai che ti dico, corvo? Vaffanculo! Vado in quel posto, come vuole Linda.»
Tirandosi in piedi con movimenti stanchi, si accende una sigaretta, pulendosi con la mano libera i pantaloni bianchi dalla sabbia. Poco lontano, quattro ragazzini, indigeni seminudi ignari della propria miserabile condizione, ridono sprezzanti, prendendo in giro quell’essere alieno nella loro lingua primordiale.
Bestemmiando borbottii, il vecchio barcolla in direzione della strada litoranea, rutilante di automobili (in prevalenza piccoli mezzi di qualche marca indiana, ma anche – ogni tanto – pacchiani fuoristrada occidentali, del tutto fuori luogo).
«Cab! Cab!» grida l’uomo, tentando di sovrastare il rumore degli infiniti clacson. Un trabiccolo giallo e nero si avvicina al marciapiede, tagliando la strada a un’altra auto, che lancia una maledizione strombazzante per poi passare oltre.
«Hello, Sir. Dove deve andare?»
«Alla Torre del Silenzio. Vada piano, che voglio portare a casa la pellaccia. So bene come guidate, qui.»
«Yes, Sir. No problem» dice servile il tassista, muovendo la mano destra, come a scacciare un’invisibile zanzara.
«Che caldo, porcaccio.»
«Sì, Sir, molto caldo. Inglese?»
«Americano. Più o meno è lo stesso, credo.»
«Oh, America! Beautiful, Sir. Meglio America che Inghilterra!»
«Ah, per quanto mi riguarda… Attento!» L’auto sfiora una moto che sta superando, nell’altro senso, un carro trainato da due buoi dalle corna storte.
«Che vuoi fare, indiano, ammazzarmi? Porca puttana, stai attento!»
«No, Sir, niente paura.»
«Senti, dov’è questo posto? Arriviamoci in fretta.»
«In cima, Sir. Malabar Hill. La conosce?»
«Me ne hanno solo parlato. Un bel posto?»
L’uomo cerca di mantenere la calma, parlando forzatamente.
«Very bello, Sir. C’è un grande giardino, in cima.»
«Ah, sì, l’Hanging Garden, no? Una specie di paradiso terrestre, eccetera.»
«Bravo, Sir. Perché la Torre del Silenzio?»
«Intervistiamo, adesso?»
«No, Sir!» Ride. «Non sono un giornalista. Non so né leggere né scrivere!»
L’auto abbandona l’affollata strada marina per inerpicarsi su una via laterale, lungo il fianco di una collina con abitazioni a strapiombo sulla roccia e una fitta vegetazione.
«La mia ragazza: mi ha detto lei di andarci. Attento, cazzo!» Questa volta è un pedone a voler finire sotto le ruote del cab giallo e nero. Il tassista preme sul clacson con il pugno, ma quasi con rassegnazione, senza rabbia.
«Tu ce l’hai una moglie?» chiede l’americano.
«Oh, sì. Molto bella moglie. È dalit, come me.»
«Sai, anche io dovrò trovarmene una, prima o poi. Brutta storia, no? Not a good deal!» Entrambi ridono: il tassista, tutto denti su quella faccia scura, e l’altro, con una risata roca. Il cab si ferma in uno spiazzo, proprio davanti all’entrata dell’Hanging Garden, non senza un inquietante stridore di freni.
«Quanto ti devo?»
«Pipty Rupees! Pipty!» risponde il tassista, sventolando in aria la mano destra aperta, ad indicare fifty.
«Cosa? Cinquanta rupie? Non se ne parla.»
«Ma come, Sir! Cinquanta!» Assume un’espressione offesa, come ad allontanare in modo lagnoso un torto subito.
«Hey, sono americano» esclama, indicandosi il petto con l’indice destro. «Non trattarmi da inglese!» Lascia tre banconote da dieci sul sedile: il volto di un triplice Gandhi osserva divertito la scena.
Il vecchio si guarda intorno, osservando come il luogo, rispetto alla parte bassa della città, sia molto lussuoso. «Alla faccia, gli indiani della Torre se la passano bene!» dice ad alta voce, con stupore divertito. Poco oltre, un’insegna recita: “Hanging Garden”.
In realtà, il posto è molto inglese. Ci sono prati ben curati, siepi potate a formare strane sculture. Il vecchio cammina un po’ stupito, meravigliato da quella che può definire, in effetti, bellezza. Qua e là ci sono, ancora, dei corvi, che cercano qualcosa da beccare nell’erba. Poco lontano, delle panchine: due sono libere, su una terza è seduta un’anziana signora. L’americano si siede di peso su quella libera, proprio davanti alla donna, senza trattenere un grugnito di stanchezza. Un attimo di imbarazzo divide i due.
Con gran sorpresa dell’uomo, è la vecchia ad attaccare bottone: «Sa, da queste parti vivono i Parsi. Li conosce?».
«Mai sentiti nominare. Lei se ne intende?» risponde l’americano, per tentare di cogliere un eventuale spirito burlesco nella nonnina.
«Sa, voi americani siete molto buffi.»
«Come sa da dove vengo?»
«Be’, l’accento. Poi, quella camicia…» conclude l’anziana, con lo stesso gesto scaccia-zanzare del tassista e un sorriso divertito, che svela una tanto palese quanto impeccabile dentiera.
«Che ha la mia camicia?» risponde lui, guardandosi la pancia. «Comunque, chi sono questi Palsi?»
«Parsi.»
«Sì, insomma. Quelli.»
«Oh, un’antica comunità. Vengono dall’antica Persia. L’Iran, no?»
«Sì, so come si chiama oggi la Persia. Lei appartiene a questa comunità?»
«Sì, esatto. Qui ci sono solo Parsi.»
Ennesimo silenzio.
«Senta, posso farle una domanda? Perché qui a Bombay ci sono così tanti corvi?»
«Beh, sono sempre stati molti… ma qui alla Torre del Silenzio sono in numero maggiore. Sa, qui loro servono.»
Così, l’anziana spiega allo sconosciuto americano l’antico rituale delle Torri del Silenzio, in cui i cadaveri dei Parsi vengono lasciati all’aperto nella loro morta nudità, affinché gli uccelli saprofagi facciano il loro dovere.
I due colmano di pensieri il silenzio dei momenti successivi. Questa volta è l’uomo a cominciare: «Sa, è stata Linda, la mia donna, a dirmi di venire qui. “Così puoi pensare a ciò che vuoi davvero” diceva. Mi ha imposto un viaggio in India da solo, capisce? Macché pensare!»
«Pensare a cosa?»
«Se voglio sposarla.»
«Oh, e lei non vuole?»
Silenzio.
«Lei vuole finire in una di quelle Torri del Silenzio?» esordisce l’uomo.
«Ci finirò di sicuro… ma non saprei dirle se effettivamente voglio farlo.»
«Ecco, per me è la stessa cosa. Finirò per sposarla, ma non so se voglio. Del resto, mi guardi: ho sessantaquattro anni, faccio pena. Una di queste bestie, laggiù alla spiaggia, poco fa mi ha preso per il culo. Un corvo! Che senso ha tutto questo? Sa, non ci volevo venire, in India. Ma ora mi piace. Fa schifo, ma mi piace. E brava Linda, con le tue cazzate da fricchettona pacifista. Guardi, altri corvi!»
L’aria rosata della sera ha ormai quel sentore fresco e profumato della notte estiva. Quattro uccelli fendono l’aria sopra l’Hanging Garden, volando senza fretta in direzione della Torre del Silenzio: sanno che ce n’è per tutti. In effetti, non possono essere che corvi: ce ne sono a migliaia nei cieli di Bombay.