
Roma, ferragosto, esterno giorno. Due amici discutono in strada di un viaggio a Cracovia, alle loro spalle gli inconfondibili scaloni cilindrici delle case popolari di Via Giovanni Conti. Poco dopo i due passano per Via Luigi Petroselli, angolo Vico Jugario, da dove si intravedono il Teatro Marcello e il Foro Boario; all’incrocio ci sono tre hippie fuori tempo massimo che cercano fondi per la loro comune. Intanto, sulla salita di Via Garibaldi verso il Gianicolo, un ragazzo ingenuo incontra un’intraprendente turista spagnola.
Tufello, Lungotevere, Trastevere: in pochi minuti Carlo Verdone attraversa Roma e le sue strade, presenta la città e i personaggi che la abitano. Inizia Un sacco bello (1980), che sotto il magistero umano e produttivo di Sergio Leone permette al comico romano di portare su grande schermo la sua capacità mimetica e gestuale. Per farlo intreccia il racconto di tre caratteri tipicamente locali, nati dall’osservazione quotidiana di un reale che viene poi esaltato, trasfigurato, fatto cinema.
Cinque settimane di riprese, 560 milioni di budget e 2 miliardi e mezzo di incassi. Per il 1980, anno di uscita del film, sono numeri straordinari. Il cinema italiano arriva all’inizio del decennio spossato dalla lunga crisi degli anni Settanta. Nell’arco di una decade, dal 1975 al 1985, gli spettatori caleranno da 513 a 123 milioni, un crollo della domanda che però è solo un aspetto congiunturale di una più generale e irreversibile trasformazione sociologica e culturale, uno stravolgimento che investe pubblico, esercenti e produzione, legato alle nuove dinamiche del consumo, alla contrazione artistica delle ultime generazioni, alla liberalizzazione e diffusione nazionale della neo-televisione privata. Il quadro è complesso e non riassumibile in questa sede, ma per comprendere l’importanza del successo di Un sacco bello bisogna tenere presente lo stato precario del sistema audiovisivo del tempo, che proprio nel fenomeno dei “nuovi comici” – di cui Verdone è di diritto capofila – troverà un’insperata e salvifica boccata d’ossigeno. Saranno loro, autori-attori che devono l’esistenza e la piena legittimazione professionale al successo ottenuto con sketch e programmi televisivi, a impossessarsi del box-office di inizio decennio e contendersi l’ultimo pubblico di massa rimasto nelle sale del cinema italiano. Sono il gruppo dei Nuti, Troisi, Benigni, molti dei quali arrivano su grande schermo firmando non solo la regia, ma anche il soggetto e la sceneggiatura dei loro esordi. Al centro della scena, maschere e scenette riconoscibili e già collaudate in tv, con le quali rinverdire i moduli di una commedia cinematografica che rischiava di farsi acqua stagnante.
Nonostante l’immane successo di pubblico gli esiti sono diversi e discontinui. Il rischio di questi film è di limitare lo sguardo sull’attore comico protagonista della scena, travasando attorno a lui un’estetica tv che non crei alcun dialogo con le potenzialità visive e narrative del cinema. Questo rischio Un sacco bello lo evita accuratamente, svelando nel giovane comico romano un regista capace e consapevole, attento al valore visivo e all’identità della sua messa in scena. Basti pensare alla fenomenale introduzione del bullo, costruita su un brano per armonica e batteria che Ennio Morricone ha scritto basandosi su un pezzo simile dei Cream: è un incipit che da subito mostra un regista capace di usare macchina da presa e montaggio per valorizzare la narrazione e i caratteri psicologici dei suoi personaggi.
In innumerevoli occasioni Verdone ha ammesso il suo debito, umano e professionale, con le figure che gli hanno permesso di arrivare al cinema: Rossellini, che lo spinge a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia dopo aver visto i suoi tre cortometraggi; Enzo Trapani e Bruno Voglino, che lo scoprono con Tali e quali al teatro off Alberichino e lo chiamano al programma Non stop sulla Rai, dove Verdone mette a fuoco i suoi personaggi e diventa maschera comica a livello nazionale; Sergio Leone, che lo vede in tv e ne comprende il potenziale artistico; Piero De Bernardi e Leo Benvenuti, esperti sceneggiatori che Leone affianca a Verdone nella stesura del suo esordio e da cui il comico imparerà moltissimo (non a caso in Borotalco [1982], il primo film in cui abbandona la struttura a episodi per raffinare la sua maschera di intimismo, spessore e ironia, il regista impersona un protagonista chiamato Sergio Benvenuti, crasi dei due maestri).
Tutto questo si raccoglie nelle storie di Un sacco bello, che intreccia le vicende di uno smargiasso di periferia, un hippie scappato di casa e un timido trasteverino mammone, ai quali Verdone, inarrestabile e vulcanico, aggiunge altre maschere di contorno. Ne emerge una galleria di personaggi familiari e vicini, basati sull’osservazione e sul mimetismo tanto del gesto reale quanto della percezione sociale della categoria; è così che, attraverso uno studio attento della lingua, dei toni, dei movimenti, Verdone riesce a costruire un umorismo che scarta la raffica di battute sagaci per basarsi, piuttosto, sull’esasperazione di atteggiamenti sociologicamente riconoscibili. Quella applicata è una lente d’ingrandimento che ha ben poco di surreale e molto di quotidiano, e che il regista ha l’intelligenza di usare anche su alcuni personaggi di contorno, fondamentali e definiti con altrettanta cura (si pensi al padre dell’hippie e all’amico del bullo, un grande Renato Scarpa).
A riguardo sintetizza bene Brunetta: «Verdone è in grado di fissare, con estrema precisione e notevole coinvolgimento affettivo, i nuovi riti e miti, le dissociazioni dell’io e il difficile cammino di scoperta di se stessi da parte delle nuove generazioni dei giovani romani nati nei paraggi del miracolo economico»1.
Un sacco bello è racconto corale i cui frammenti dialogano tra loro e creano un ritratto dolente e malinconico, un orizzonte di solitudine e inadeguatezza al cui centro Verdone pone la crisi della mascolinità: Enzo, Leo e Ruggero riflettono a modo loro la perdita di punti di riferimento di una generazione maschile che fatica a trovare una sua identità dentro una società in forte trasformazione. Lo scarto rispetto al passato è evidente e spietato. Ce lo mostra, per esempio, la distanza che separa il meschino gradasso di Gassman in Il sorpasso (1962) da Enzo, cui sono rimaste soltanto la fragilità, l’insicurezza e l’alienazione contemporanea.
Sotto le risate e il senso di riconoscimento, Un sacco bello si rivela un film ricco di debolezze, piccole nevrosi e illusioni spezzate, l’umorismo pirandelliano nato con una vecchia signora imbellettata che ritorna nell’agenda semideserta di un bulletto, talmente abituato al vuoto da accettare l’esplosione dell’ennesima bomba stragista con la semplice chiusura di una finestra.
Note
1 Brunetta Gian Piero, Storia del cinema italiano. Vol. 4, Editori Riuniti, Roma 1993 (seconda edizione), p. 460.
CAST & CREDITS
Regia: Carlo Verdone; soggetto: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Ennio Guarnieri; scenografia: Carlo Simi; costumi: Carlo Simi; montaggio: Eugenio Alabiso; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Carlo Verdone (Enzo, Ruggero Brega, Leo Nuvolone, don Alfio, Anselmo, il professore), Veronica Miriel (Marisol), Mario Brega (Mario Brega), Renato Scarpa (Sergio), Fausto Di Bella (Antioco); produzione: Romano Cardarelli e Sergio Leone (non accreditato) per Medusa Distribuzione; origine: Italia, 1980; durata: 97’; home video: dvd Medusa, Blu-ray inedito; colonna sonora: Cinevox.