Piccola antropologia italiana portatile. Voci, corpi, gesti nei film di Carlo Verdone

Gabriele Gimmelli
Carlo Verdone n. 12/2019
Piccola antropologia italiana portatile. Voci, corpi, gesti nei film di Carlo Verdone

Prima del corpo, la voce. «Verso il 1970», ha raccontato Carlo Verdone, «quando iniziai a fare le prime imitazioni, i primi spettacoli teatrali universitari e a dar prova di avere la stoffa dell’attore, i miei genitori mi fecero incontrare Maria Signorelli, la fondatrice dell’Opera dei Burattini. Quell’esperienza fu importantissima perché ebbi l’opportunità di esercitarmi con la modulazione delle tonalità vocali e la ripetizione delle voci dei miei parenti, con le quali facevo parlare i pupazzi».
Anche se può sembrare un paradosso (e forse lo è), un discorso sul “corpo comico verdoniano” non può che partire da qui: dalla capacità quasi stregonesca dell’attore-regista romano di impossessarsi di un tipo umano a partire dalla voce, per poi restituirlo tale e quale al pubblico rivestito di tutto punto, di volta in volta con barbe, occhiali, parrucche. Tali e quali, del resto, era il titolo emblematico del primo spettacolo messo in scena da Verdone nel 1977, quando, non ancora trentenne e in crisi creativa, aveva deciso di mettere per un attimo da parte il diploma del Centro Sperimentale di Cinematografia e le velleità registiche per portare a frutto un’abilità già ampiamente sviluppata sui banchi di scuola.
«È nato un nuovo Fregoli», scrisse all’epoca Franco Cordelli, dopo che Verdone aveva recitato l’intero spettacolo solo per lui, sul palco dell’“Alberichino”, uno dei templi della scena underground romana, disertato dagli spettatori dopo una manciata di repliche. Le due pagine di Cordelli su «Paese Sera» decretarono il successo definitivo del Verdone attore. Segue così, l’anno successivo, Rimanga tra noi…, passerella di personaggi (tutti interpretati da Verdone, ovviamente) sulla scena del Teatro Alberico allestita come una camera mortuaria, per fornire un ritratto a più voci, à la Citizen Kane, del defunto la cui bara troneggia al centro del palco.
Questo meccanismo viene riproposto con ancora maggiore successo in televisione, all’interno di Non Stop (1978); e da lì, auspice Sergio Leone, sul grande schermo. Con la sua struttura lasca, a macro-episodi intrecciati, Un sacco bello (1980) permette al debuttante Verdone non soltanto di ritagliarsi ampie parentesi monologanti (le interminabili smargiassate di Enzo il playboy, inflitte al povero Sergio/Renato Scarpa), ma anche di sfruttare le nuove possibilità del cinema per accentuare il proprio virtuosismo mimetico (i quattro Verdone a confronto nel salotto di casa Brega), sulla scia dell’Alec Guinness di Sangue blu di Robert Hamer (1949) o del Peter Sellers di Il dottor Stranamore. Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba di Stanley Kubrick (1963).
E la voce? Anche in questo caso un posto di rilievo, ovviamente. Verdone lavora con particolare cura il personaggio di Ruggero, il fricchettone (certo nessuno l’avrebbe definito hippie…), ultimo risibile avanzo di uno spirito pseudo-contestatario ormai al tramonto, del quale si ode fuori campo un’ultima, sinistra eco (l’esplosione notturna della bomba, che fa da trait d’union fra i tre episodi). «Anche se quando girai il film era un personaggio sul declino, nessuno però lo aveva mai fatto così. Nanni Moretti l’aveva fatto, giustamente, prendendo i “cioè” del sinistrese, quel miscuglio di Campo de’ Fiori e di intellettualismo di superficie; io mi proposi di essere più preciso e di farne un personaggio centrale». E i risultati si vedono soprattutto nell’impossibile dialogo con il padre (Mario Brega), sorta di parodia dello scontro generazionale che si nutre, prima ancora che di gesti e atteggiamenti (la mollezza irritata e irritante del figlio contro la grinta sempre più sbracata del padre), dell’incomprensione linguistica. Va detto che papà Mario ci mette molta buona volontà: «A Rugge’, come t’è uscito fori ’sto timbro de voce… ’Sto frasario ciancicato? Come m’hai detto prima? Probblemati… Probblematigo…». Ma poi, davanti al probabile racconto di un trip lisergico («Cioè, mentre camminavo, un sacco di fiori che si aprivano al mio passaggio… e un sacco di uccelli scendevano proprio dagli alberi, cioè quasi per parlarmi…») e al resoconto sulle attività della comune hippie, non può che sbottare di trucida indignazione: «Ma un padre po’ ave’ un fijo così?! Senza ’na casa! Senza ’na famija! Co’ le pezze ar culo!!! Ai semafori, a chiede’ l’elemosina?!».
Sulla stessa linea si muovono le altre caratterizzazioni del film: l’ingenuo Leo dallo sguardo perennemente in aria, il tormentone sulla madre a Ladispoli e quell’urlo («Marisòòòòl!!!»), “verso” tra i versi degli animali al giardino zoologico; l’esclamazione («Un maciello!») con cui Enzo, il cavallo dei calzoni imbottito di ovatta, condisce immancabilmente ogni racconto; e poi l’oratoria tutta scatti del Professore ultrareazionario («Mio figlio Gabriele…»), l’accento meridionale del guercio padre Alfio, lo gnaulio del cugino Anselmo, accompagnato dal tic di sistemarsi gli occhiali sul naso…
A dispetto della loro stravaganza, però, quelli incarnati da Verdone non sono più i mostri di Risi e Monicelli – e questo nonostante fra i “nuovi comici” di allora (Roberto Benigni, Massimo Troisi, Maurizio Nichetti, Francesco Nuti), l’attore-regista romano rappresenti più di tutti la continuità con la grande stagione dei “padri”, Sordi in testa. In Verdone, infatti, manca del tutto la cattiveria fustigatrice della vecchia commedia all’italiana, sostituita da una sorta di umana comprensione: «Mio padre e mia madre non si stancavano di ripetermi di amare la gente, di capirla, di cercare nelle persone il lato comico, anche con una sorta di indulgenza», ha spiegato una volta. D’altronde, a giudicare da come Verdone raffigura il resto del mondo nei suoi film, viene da domandarsi se davvero i veri “mostri” siano i suoi personaggi.
È più “mostruosa” la logorrea di Enzo o l’abissale indifferenza dei portantini a ferragosto («So’ cazzi sua…»)? E nel successivo Bianco, rosso e Verdone (1981) è più inverosimile l’ingenuità di Mimmo, che «scambia ’na sorca co’ un par de mutanne» o i componenti del seggio, che si accapigliano sulla scheda elettorale di un’anziana appena deceduta? Per non parlare dell’Italia dei furtarelli e dell’indifferenza («Eh, lo fanno, lo fanno…») attraversata, con goffaggine tutta slapstick, dall’emigrante di ritorno Pasquale Amitrano. Il quale è, tra l’altro, la proverbiale eccezione che conferma la regola, dal momento che si tratta forse del solo autentico “corpo comico” messo in scena da Verdone nella sua lunga carriera: un omaggio dichiarato alla scuola tutta mimica dei Buster Keaton, dei Jacques Tati, dei Jerry Lewis.
In Verdone la caricatura implica sempre un giudizio morale. Basta confrontare le macchiette tutto sommato innocue dei primi due lungometraggi con i loro omologhi, riproposti negli anni Novanta e nel decennio successivo, per rendersi conto di come lo humor dell’attore-autore romano si sia fatto col tempo sempre più black e privo di speranza.
Per la maschera dell’ingenuo (i vari Leo, Mimmo, ecc.) si spalanca il baratro di un universo famigliare spaventoso e crudele. Si pensi alla via crucis degli sposini Giovanni (una sorta di Leo in versione “adulta”) e Valeriana (Cinzia Mascoli) in Viaggi di nozze (1995), costretti a fronteggiare i rancori e la grettezza dei rispettivi parenti; o alla disavventura “cimiteriale” del Leo Nuvolone di Grande, grosso e… Verdone (2008), in cui il mammone di Un sacco bello, ora padre e marito, se la deve vedere con la morte dell’anziana madre e con un incaricato delle pompe funebri cinico e cocainomane (interpretato dal compianto Massimo Marino, il personaggio è uno dei vertici della cattiveria verdoniana).
L’odore di morte aleggia ancora più forte su un’altra celeberrima caratterizzazione, quella del “pignolo”, per ammissione dello stesso Verdone nata dall’osservazione di un suo zio che «faceva diventare clamorosa anche la notizia più banale». In principio era Furio Zoccano (si pronuncia «Zòccano»), in Bianco, rosso e Verdone. Pedante, zelante e meticolosissimo («Le persiane le hai sprangate? La sacca dei documenti l’hai presa? Codice fiscale, carta d’identità, partita IVA? Termos latte? Termos acqua e limone? Succhi di frutta? Sandwich al burro? Sandwich al prosciutto? Sandwich allo stracchino? …»), squassato dai tic, è in fin dei conti la prima vittima di se stesso, scaricato dalla moglie Magda, comprensibilmente esasperata, alla fine del film. Ma la pignoleria si colora di nero nel caso del Raniero Cotti-Borroni di Viaggi di nozze. Il barone della medicina “drogato” dal lavoro e dall’abuso del telefono cellulare («No, non mi disturba affatto, mi dica!») che, tra una visita al camposanto in cui già prevede di sistemare la nuova moglie (l’indimenticabile Fosca di Veronica Pivetti) e una luna di miele a Venezia («Molti intravedono in questa città come un senso di morte, invece per me è l’apoteosi del silenzio, della tranquillità»), si rivela un micidiale quanto involontario (ma fino a che punto?) uxoricida seriale: una sorta di Monsieur Verdoux in salsa verdoniana. Il cerchio si chiude tredici anni più tardi con il professor Callisto Cagnato di Grande, grosso e… Verdone, nel quale la natura intrinsecamente sadica e mortifera del personaggio (un nosferatu?) emerge in tutta la sua grottesca potenza: nemmeno un lungo “soggiorno forzato” nelle catacombe della Capitale riesce ad avere la meglio su di lui, che anzi risorge più vivo e insopportabile di prima.
Ma l’evoluzione più significativa è sicuramente quella del coatto. La solitudine dell’Enzo di Un sacco bello, che ha nella rubrica del telefono “Stadio Olimpico” alla lettera “S” e “Olimpico, Stadio” alla lettera “O”, e che alla fine si risolve a partire per Cracovia con «l’amico di Martucci», diventa un autentico vuoto esistenziale per i grezzissimi neosposi Ivano e Jessica (Claudia Gerini) di Viaggi di nozze. La ricerca a tutti i costi dell’emozione irripetibile, della novità, della «situazzione» («’O famo strano?») si scontra con la constatazione, rassegnata più che postmoderna, che «è stato già detto tutto»: «’Na vorta eravamo noi che s’attaccavamo agli stilisti per ave’ ’na dritta, poi so’ stati li stilisti che se so’ attaccati a noi…» «…e mo’ s’attaccamo tutti ar cazzo». Un vuoto ribadito nel finale, con Jessica che si ritira in camera sua («So’ s…tanca») e, sui titoli di coda, con l’assolo di Ivano che gioca a pallone nel salotto di casa, in mezzo ai regali di nozze ancora impacchettati. «Il pubblico si arrabbia alla fine», ha ricordato Verdone. «Dice: “Voglio la speranza, voglio il finale in un altro modo, perché mi devi lasciare co’ ’sta cosa?”».
L’epilogo, a furor di popolo, arriva nel terzo e più lungo episodio di Grande, grosso e… Verdone. I coniugi si chiamano ora Moreno ed Enza, ma il nulla, stavolta ornato di un’ancor più compiaciuta volgarità, è ormai degenerato in una crisi famigliare che i due, seguiti malvolentieri dal figlio Steven, cercano di arginare con una vacanza in un hotel di lusso. E il film, che fin dal titolo doveva giocare la carta (auto)celebrativa, assume, come nell’episodio del pignolo Cagnato, i tratti dell’epicedio, con Moreno/Verdone che fatica a nascondere i segni dell’età («C’hai il colesterolo a 2 e 90, che voi collassa’ qua?»), ma che cerca di riacchiappare la giovinezza con l’ultima avventura extraconiugale, in una rivisitazione degradata del viscontiano Morte a Venezia (1971).
A ben vedere, tuttavia, la parola definitiva sul coatto Verdone l’aveva detta già dieci anni prima, con quella sorta di personaggio-contenitore che è l’Armando Feroci di Gallo cedrone (1998), una summa comica dei mille volti dell’anima coatta: dal latin lover da strapazzo al fanatico delle motociclette da corsa (già visto in Troppo forte [1986]), dal maniaco di Elvis Presley all’eterno immaturo, fino ad arrivare al politicante arruffapopoli post-berlusconiano (o forse soltanto proto-grillino) che si candida alla poltrona di sindaco con la «modesta proposta» di asfaltare il Tevere per risolvere in un sol colpo il problema dell’igiene urbana e quello della viabilità.
A rivederlo oggi, quel finale che all’epoca molti trovarono eccessivamente improbabile e oggi appare quasi credibile, ci ricorda una volta di più che forse l’autentica capacità di Verdone di raccontare l’Italia non sta tanto nelle numerose commedie agrodolci con cui ha meritatamente acquistato la credibilità come regista (e fra le quali comunque troviamo alcuni dei suoi film più belli, da Compagni di scuola [1988] a Maledetto il giorno che t’ho incontrato [1992]); ma nell’abilità di carpire un tono di voce, un gesto, una smorfia, una camminata, dando corpo (letteralmente) a una galleria di antieroi che dura ormai da quarant’anni.

 

Nota

Le parole di Carlo Verdone sono tratte da:

Faldini Franca, Fofi Goffredo (a cura di), Il cinema italiano d’oggi 1970-1984 raccontato dai suoi protagonisti, Mondadori, Milano 1984.

Verdone Carlo (con Giusti Marco), Fatti coatti (o quasi), Mondadori, Milano 1999.

Verdone Carlo, La casa sopra i portici (a cura di Maiello Fabio), Bompiani, Milano 2012.

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