
Carlo Verdone non ha bisogno di molte presentazioni. Pochi come lui hanno saputo intercettare un pubblico tanto eterogeneo e stratificato, rinnovando di film in film un patto di fiducia con lo spettatore. Il suo cinema ci accompagna da quarant’anni, raccontando la società attraverso una prospettiva umoristica che unisce comicità e malinconia. In una carriera da cui sono nati personaggi entrati nell’immaginario collettivo, tra battute ripetute a memoria e situazioni che ormai fanno parte del nostro quotidiano, ciò che non si sottolinea mai abbastanza è il suo profilo d’autore, talvolta trascurato rispetto alla più immediata dimensione del travolgente mattatore.
È dunque il momento di riflettere sull’autore Verdone e sul suo sguardo, su una visione del mondo che rende assolutamente riconoscibile la sua poetica cinematografica. Verdone crede nella commedia come dispositivo per interpretare la realtà e al contempo non rinuncia a indagare le zone d’ombra dell’animo umano, dimostrando un interesse autentico verso personaggi trattati con rispetto, pazienza, umanità. Inoltre ha dalla sua la continuità, la disciplina, la consapevolezza.
Dopo tre “poemetti visivi”, cortometraggi sperimentali realizzati tra il 1969 e il 1973, lei si afferma in teatro e televisione nella seconda metà degli anni Settanta e approda sul grande schermo apparendo brevemente nel finale di La luna di Bernardo Bertolucci (1979). A quasi trent’anni esordisce dietro la macchina da presa con Un sacco bello (1980). Con quali consapevolezze affrontò una prova così importante?
Per me era chiaro che i personaggi che avevo creato e sviluppato a teatro e in televisione avessero la possibilità di esprimere un’anima cinematografica. Con Sergio Leone, che è stato il mio padrino artistico e primo produttore, eravamo d’accordo che il mio debutto dovesse essere un film a episodi. Non aveva senso farne uno per ogni personaggio. Bisognava trovare un comune denominatore che mettesse insieme questi caratteri colti dalla realtà e rivisti, corretti e deformati attraverso la mia lente d’ingrandimento.
Quanto è stato importante per un regista e sceneggiatore al debutto avere accanto due maestri della commedia all’italiana come Leo Benvenuti e Piero De Bernardi?
Sapevo scrivere sketch e atti unici, ma non ero preparato alla sceneggiatura. La saggezza di Leone fu di individuare in Benvenuti e De Bernardi le persone ideali per accostarsi al mio mondo. Hanno incollato tra loro gli episodi rendendo prima Un sacco bello e poi Bianco, rosso e Verdone (1981, ndr) dei mosaici compatti. È chiaro che gran parte dei dialoghi è mia, perché i miei personaggi li conoscevo bene e sapevo come farli muovere. Però loro mi hanno insegnato le regole della sceneggiatura. È un lavoro diverso da quello teatrale: la sceneggiatura ha tempi precisi, durate precise, non si può andare pioneristicamente. Benvenuti e De Bernardi non sono stati fondamentali: sono stati essenziali. Ancora oggi devo loro moltissimo.
In Borotalco (1982) e Acqua e sapone (1983) si fa affiancare da un giovane di pochi anni più grande di lei: Enrico Oldoini, in quegli anni spesso attivo con Pasquale Festa Campanile. Una scelta che determina anche un cambio di rotta verso una commedia meno frammentaria, più sofisticata, all’americana.
Oldoini fu scelto dopo aver incontrato altri sceneggiatori. Dissi a Mario Cecchi Gori, il produttore che si era fatto avanti dopo Bianco, rosso e Verdone, che sarebbe stato probabilmente il più adatto a comprendere il mio mondo. Oldoini prese il lavoro con serietà e umiltà e mi aiutò a fare quello scatto essenziale per passare dal racconto a episodi a quello unico. Fu un film abbastanza faticoso, abbiamo lavorato per un anno alla scrittura: scrivevamo e cestinavamo, scrivevamo e cestinavamo… Avevamo paura, capivo che si trattava davvero di una prova decisiva per la mia carriera. Alla fine è nata questa commedia degli equivoci molto vicina alla mia sensibilità. I dialoghi sono perlopiù miei, tuttavia Oldoini fu fondamentale per inserire la storia in una struttura compatta, per me una novità dopo i primi due film.
Borotalco rappresenta la prima svolta della sua carriera. Lei ha raccontato che dopo Bianco, rosso e Verdone tutti i produttori scomparvero, convinti che avesse esaurito la vena creativa. Si fece avanti solo Cecchi Gori, rimasto colpito dall’episodio dell’emigrante.
Per me è stato un film molto delicato perché sapevo che mi stavo giocando tutto. Fino ad allora ero stato un virtuoso della recitazione che faceva i caratteri, le voci: il bullo, il candido, il logorroico… Invece con Borotalco dovevo dimostrare di essere un attore completo, a tutto tondo. Ci sono solo io. C’è un momento in cui imito Manuel Fantoni, dico alcune fregnacce, ma finisce lì, è sempre Sergio Benvenuti che si cala nei panni di Fantoni. Accanto a me ci sono l’ottima Eleonora Giorgi e un piccolo mondo di comprimari più concentrato rispetto a quello di Un sacco bello e Bianco, rosso e Verdone. Temevamo che il pubblico ci girasse le spalle, abituato agli sketch e forse non ancora pronto a seguirmi in un tipo di film con cui non mi ero mai misurato. In realtà ci ha seguito, eccome se ci ha seguito: Borotalco ebbe un ottimo incasso e vinse cinque David di Donatello, compreso quello per il miglior film. Tuttora resta uno dei miei titoli più amati. La mia carriera cambiò, mi sentii più sicuro e, a parte Viaggi di nozze (1995, ndr) e Grande, grosso e… Verdone (2008, ndr), non sono più tornato ai miei personaggi d’esordio.
Sin dai suoi primi film, come accade in quelli di Nanni Moretti e Massimo Troisi, al centro del racconto c’è lo spaesamento degli uomini della sua generazione al cospetto di donne forti, volitive, indecifrabili. Forse è una delle caratteristiche più importanti della commedia dei primi anni Ottanta, periodo in cui subentrate ai colonnelli della commedia all’italiana.
Non potevamo assolutamente ignorare l’esperienza del femminismo, che è stata un’esperienza potente, ha rovesciato i rapporti tra uomo e donna. In questo senso, le nostre commedie sono davvero oneste: io, Troisi, Moretti rappresentiamo noi stessi con le fragilità e lo stupore di fronte a donne che erano cambiate e ci stavano cambiando. Le donne dei nostri film non sono più quelle rimorchiate dagli uomini della commedia all’italiana, le nostre storie non c’entrano niente con Il magnifico cornuto (1964, ndr), Il sorpasso (1962, ndr), Il diavolo (1963, ndr). Le donne sono sempre più forti di noi, colte, lunatiche, capricciose, decidono loro se assecondarci o no. E i ragazzi, poveretti, sono fragili, messi all’angolo, prendono certe botte… Una cosa impensabile per i colonnelli della commedia, i galli italiani, i grandi amatori. Ma la società stava evolvendo e noi abbiamo raccolto il testimone di chi ci precedeva, forse meno in grado di cogliere questi mutamenti.
Mentre lei si concentra sui cambiamenti delle relazioni tra uomini e donne, Alberto Sordi gira Io e Caterina (1980). Un parallelismo che è utile per capire che tra di voi, al di là dell’affetto personale, ci sono più differenze che somiglianze, soprattutto nell’interpretazione della realtà contemporanea.
Quando mi dicono che sono l’erede di Sordi, prendo sempre le distanze. Per carità, era un grande personaggio, una grande maschera, un grande attore capace di incantare lo spettatore. Prendi il Sordi in bianco e nero degli anni Cinquanta: è un rivoluzionario, ha una recitazione antiaccademica, tutta istinto e pazzia, riesce a fare cose incredibili che oggi nessuno s’azzarderebbe nemmeno a pensare. Sordi mi piace, ma non c’entro niente con lui, con il suo cinismo perenne, con la cattiveria che l’ha accompagnato per gran parte della sua carriera e ha suscitato anche la simpatia del pubblico. Io sono indulgente con i miei personaggi, se vogliamo ci metto anche più umanità. La critica per anni ha sostenuto che fossi un buonista: ma che vuol dire? Io sono così, la penso in un certo modo non perché cerco il consenso del pubblico ma perché faccio i film che sento di voler fare, secondo la mia sensibilità. In fondo qual è il ruolo che interpreto nei miei ultimi film? Il padre. Mi misuro con i problemi della società, concedo ai miei personaggi benevolenza e pietà. Sordi non ha mai pietà. Quando fa il padre, a parte in rare occasioni come Un borghese piccolo piccolo (1977, ndr), ha figli ciccioni verso i quali non ha sensibilità, oppure è un salottiero con la moglie borghese che passa il tempo a giocare a burraco e bridge con gli amici: non senti mai il peso di Sordi come padre.
Lei stesso è stato figlio di Sordi in In viaggio con papà (1982).
Ecco, cos’era? Un papà borghese, che se quel figlio bonaccione non fosse andato a rompergli le scatole se ne sarebbe fregato come se n’era fregato fino ad allora. No?
La paternità è un tema che attraversa tutto il suo cinema. Il primo padre che interpreta è Furio in Bianco, rosso e Verdone, il quale però è più che altro il marito insopportabile della povera Magda. Tutto cambia in Io e mia sorella (1987), dove è uno zio che si ritrova a essere padre. È padre putativo in Il bambino e il poliziotto (1989), in Stasera a casa di Alice (1990) sta per adottare un bambino ma è preso da tutt’altre questioni e arriviamo infine a Il mio miglior nemico (2006), cruciale per la sua carriera. Prima invece c’è tutto il filone di lei figlio, che inizia come “Ruggero” figlio di Mario Brega in Un sacco bello e prosegue fino alle malinconie più mature di Al lupo al lupo (1992)…
Esattamente. Al lupo al lupo, tra i miei film uno di quelli che preferisco, è la storia di tre fratelli – come noi fratelli Verdone – che cercano il loro padre, un intellettuale depresso che si sta preparando al distacco dai figli. E così anche Io, loro e Lara (2010, ndr) parla di tre fratelli, in questo caso più adulti, e di un padre esuberante che a un certo punto muore. A me interessano moltissimo le relazioni familiari, per questo ormai da un po’ di tempo interpreto spesso un padre. Dopotutto gli anni vanno avanti, la mia maschera deve cambiare: mi devo per forza ritagliare ruoli adatti all’età. Ho iniziato con C’era un cinese in coma (2000, ndr), poi L’amore è eterno finché dura (2004, ndr), Il mio miglior nemico e recentemente Posti in piedi in paradiso (2012, ndr) e Sotto una buona stella (2014, ndr). Certo che è una questione anagrafica, ma tutto deriva dall’essere cresciuto in una famiglia eccezionale, molto forte, armonica. E io stesso spero di essere stato un padre speciale per i miei figli. Il mio secondo libro, La casa sopra i portici (Bompiani 2012, ndr) di cosa parla? È la storia di una famiglia, la storia di un appartamento. Io parlo sempre e comunque di famiglie.
Io e mia sorella è una svolta nella sua carriera, una riflessione sui legami familiari, sulla morte dei propri cari, sulle fragilità dell’uomo dentro una commedia autunnale che vira verso il dramma intimista. E qui appare evidente la felice collaborazione con il suo direttore della fotografia, Danilo Desideri, che per Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992) ha vinto un David.
Danilo è stato sicuramente molto importante per il mio lavoro. Chi lavora con me si adatta al mio modo di vedere le cose, alla vena malinconica che percorre tutti i miei film. È inevitabile. Le atmosfere e gli argomenti di Io e mia sorella, per esempio, avevano bisogno di toni crepuscolari che in un certo modo appartengono a tutti i miei film degli anni Novanta.
Un decennio in cui si allontana da Roma. Già in I due carabinieri (1984) c’era uno spostamento verso il nord, ma la dimensione del viaggio e contestualmente del distacco dalla capitale si fa decisamente più forte dopo Io e mia sorella.
Era necessario. Dopo Un sacco bello, Bianco, rosso e Verdone, Borotalco, Acqua e sapone, Troppo forte (1986, ndr), tutti ambientati a Roma, avevo paura di ripetermi, venire a noia, essere sempre lo stesso Verdone. Con Io e mia sorella sentivo l’esigenza di cambiare e spostarmi altrove era non solo un mio bisogno, ma anche l’occasione per realizzare un cinema diverso da quello che avevo fatto fino ad allora, certamente molto romano. E quindi andammo a Spoleto e poi addirittura in Ungheria. Maledetto il giorno che t’ho incontrato si svolge tra Milano e la Cornovaglia. Al lupo al lupo inizia a Roma ma dopo pochi minuti diventa un film tutto toscano, tra Siena e provincia. In Perdiamoci di vista (1994, ndr) ci muoviamo verso Praga e c’è una parentesi veneta. Viaggi di nozze, vabbe’, sono viaggi di nozze. E arriviamo a Sono pazzo di Iris Blond (1996, ndr).
Uno dei suoi film più amari, dall’umore più cupo. Scelta curiosa, quella di ambientare una commedia italiana in un posto così inusuale come il Belgio.
Una mia scommessa. A vederla così sembrerebbe una nazione sconsigliata per girare una commedia. Io ho voluto sovvertire le convinzioni sul luogo e anche le attese del pubblico. Poi, certo, se ti trovi tra Bruxelles, Marcinelle e Anversa è chiaro che per forza di cose porti la commedia su un versante più malinconico del previsto. Ma mi sembrava giusto che un film del genere avesse quelle atmosfere. Sognavo da sempre di fare un film musicale e mi sono molto divertito a girarlo. E chi meglio di Claudia Gerini poteva esserne la protagonista?
La Gerini è esplosa nel ruolo della coatta Jessica in Viaggi di nozze ed è una delle attrici più indicative per capire quanto lei sia un ottimo direttore d’attori. Una qualità che emerge nei film corali, su tutti quello che può essere considerato il suo capolavoro, Compagni di scuola (1988).
Ogni volta che ho la possibilità di realizzare un film corale difficilmente lo sbaglio. Non spetta a me dirlo, ma un giorno qualcuno, tirando le somme del mio excursus, dovrà riflettere sul mio valore di regista. Non muovo la macchina da presa per far vedere quanto sono bravo, non voglio essere Spielberg o Tarantino. Posso tenerla ferma, ma so che ciò che m’interessa di più è esaltare la psiche degli attori, scoprire il loro mondo interiore. E poi per uno che nasce, come me, uomo-orchestra, che fa quattro, cinque personaggi in un solo film e in più deve occuparsi della regia, una storia corale è una boccata d’ossigeno. È una soddisfazione enorme non dovermi sparare la macchina da presa addosso, ho a disposizione tanti attori su cui lavorare e non mi permetterei mai di sfruttarli male. Come faccio a metterli a loro agio? Sui miei set voglio che ci siano serenità, divertimento, leggerezza. Così si vive meglio anche l’idea che stiamo facendo un film che costa un po’ di milioni di euro. Se moltissimi miei attori hanno ottenuto riconoscimenti – la Gerini, la sora Lella, Margherita Buy, Asia Argento, Marco Giallini, Elena Sofia Ricci, Athina Cenci… – è perché amo la regia, amo gli altri, amo il prossimo e voglio che tutti lavorino nel miglior clima possibile.
Come avviene la scelta degli attori? Nei suoi film ci sono molte scoperte tra i personaggi di contorno, caratteristi presi di peso dal quotidiano, comprimari esaltati da un dettaglio dirompente. Ma anche alcuni dei suoi protagonisti hanno conosciuto con la sua regia una reinvenzione, individuando nuove sfumature in interpretazioni meno paludate e prevedibili.
Un caso esemplare è quello di Angelo Bernabucci. L’ho beccato per strada, vicino a Campo de’ Fiori, frequentava il negozio di un mio amico. Non gli passava per la testa di fare cinema, gliel’ho proposto, lui ha accettato e in Compagni di scuola ha fatto di Finocchiaro un personaggio straordinario. In quarant’anni di carriera ho scovato caratteristi, generici, parlanti, comparse che hanno funzionato per la loro capacità di saper pronunciare battute tuttora molto divertenti. Ci sono casi più particolari, che partono dalla volontà di lavorare con certi attori, come accadde con Margherita Buy.
…sua memorabile partner in Maledetto il giorno che t’ho incontrato. Vi sareste poi ritrovati in un altro film corale, Ma che colpa abbiamo noi (2003). Un altro racconto di nevrotici.
La Buy la vidi in La stazione (1990, ndr), l’esordio di Sergio Rubini. Il film mi piacque molto, tant’è che Rubini lo presi poco dopo per impersonare mio fratello in Al lupo al lupo. Ma a colpirmi fu proprio Margherita, un’attrice italiana non classica, dall’immagine non mediterranea, assolutamente internazionale, una bionda curiosa che poteva essere un’irlandese, un’inglese. Le proposi di fare qualcosa insieme, passai molto tempo a parlare con lei e, assieme a Francesca Marciano, capimmo che si poteva realizzare una storia autobiografica a partire dal nostro minimo comun denominatore: le nevrosi. Lei è nevrotica, io all’epoca ero discretamente nevrotico. Stavamo mettendo in piazza le nostre nevrosi, in quel periodo ero esattamente come mi si vede in Maledetto il giorno che t’ho incontrato. Ne uscì una bella storia, un tipo di film che non avevo ancora fatto. È stato fondamentale andare fuori Roma, in Inghilterra. Io stesso non recito con l’inflessione romana perché non ce n’era bisogno, non solo la prima parte era ambientata a Milano ma mi trovavo accanto a un’interprete distante anni luce dal cinema italiano, un’attrice diversa, che non usa mai il romano e ti porta a confrontarti con lei e il suo mondo interiore. Un’attrice come Margherita chiede di adattarsi ai suoi tempi e di conseguenza le mie reazioni sono diverse. Ne è venuto un film sicuramente tra i miei più riusciti, che ebbe un ottimo successo di pubblico e critica e vinse cinque David di Donatello, compreso uno per la sceneggiatura.
Maledetto il giorno che t’ho incontrato è il primo film in cui collabora con Francesca Marciano, sceneggiatrice che aveva appena partecipato alla scrittura di Turné di Gabriele Salvatores (1990) e al cinema era nata attrice con Pupi Avati in La casa dalle finestre che ridono (1976) per poi passare alla regia in tandem con Stefania Casini in Lontano da dove (1983). Una figura particolare.
Sentii il bisogno di confrontarmi con lei perché c’era un forte personaggio femminile. Abbiamo lavorato insieme anche in L’amore è eterno finché dura e Io, loro e Lara, dove è stata essenziale nel definire i personaggi di Laura Morante e Stefania Rocca nel primo e Laura Chiatti nel secondo. Con Francesca ho lavorato molto bene, perché alle commedie sa dare un tocco di classe che le rende atipiche nel panorama italiano. È una donna intelligente, colta, molto spiritosa, molto ironica, un po’ radical chic. Fu un’esperienza nuova per me. Benvenuti e De Bernardi erano più terra terra, per quanto avessero alle spalle una cultura cinematografica immensa. Benvenuti, per esempio, sosteneva che l’autore da studiare per scrivere una commedia fosse Guy de Maupassant, che infatti è uno scrittore saccheggiatissimo dal cinema.
Dopo la collaborazione con Nicola Guaglianone e Menotti in Benedetta follia (2018), nell’imminente Si vive una volta sola (2020) torna a collaborare con Pasquale Plastino, con cui lavora da oltre vent’anni, e Giovanni Veronesi. Su quali basi sceglie gli sceneggiatori?
Nell’arco di quarant’anni per forza arriva un momento di stasi, di stanchezza, in cui senti il bisogno di ricevere nuove sollecitazioni. Allora si comincia a girare, cercare, parlare. Si prova, a volte escono film migliori di altri ma il confronto è sempre importante. Per Si vive una volta sola c’era una bella idea elaborata con Veronesi e Plastino, con cui lavoro benissimo da anni, che si poteva portare avanti. Sarà uno dei miei film corali: Anna Foglietta, Rocco Papaleo e Max Tortora sono davvero sorprendenti.
Con Veronesi e Plastino ha scritto C’era un cinese in coma. Film a suo modo spiazzante, che rappresenta una cesura nel suo percorso cinematografico.
Non fu capito. Rientrò in pari, sì, ma non fece una lira di più. Oggi lo stanno rivalutando, per fortuna, e viene considerato tra i miei lavori migliori. Toni Servillo sostiene che il mio capolavoro non sia Compagni di scuola ma C’era un cinese in coma: abbiamo avuto una lunga discussione in cui mi ha spiegato i motivi per cui lo reputa un grande film. Mi ha fatto piacere, perché è un buon titolo, merita attenzione. Quando uscì ricevetti un numero spaventoso di lettere, da qualche parte dovrei ancora tenerle, scritte da agenti di serate teatrali che non conoscevo assolutamente. Tutti che mi ringraziavano per aver messo in scena la miseria del loro lavoro.
C’era un cinese in coma chiude il suo decennio più fertile, in cui i suoi film mettono in scena l’Italia della volgarità, dalla tv del dolore di Perdiamoci di vista alla cafonaggine dei coatti e allo squallore di Raniero in Viaggi di nozze…
Personaggi soli, tristi, nei confronti dei quali ho sempre un po’ di pietà. Nel Cinese c’era molta amarezza, è una commedia scura, cinica, forse un po’ troppo da far digerire al pubblico, magari anche il titolo era enigmatico, difficile… Ma ci stava pure che dopo vent’anni il pubblico dimostrasse segnali di stanchezza nei miei confronti, è giusto. E allora che ho fatto? Mi sono fermato anche io. Ho viaggiato, non mi sono depresso, non ho perso la verve, ho messo ordine alle idee e sono rientrato con Ma che colpa abbiamo noi. Una commedia ben riuscita, che ho messo in piedi con molta umiltà.
Una commedia a più voci con grande attenzione ai personaggi che l’affiancano, che arriva dopo il grande numero da mattatore di Gallo cedrone (1998), un film forse in anticipo sui tempi?
Certo che era in anticipo. Diciamolo: il pubblico non capì niente, si divertiva alle battute ma non aveva compreso che la politica stava andando vicino alla follia incarnata da quel pazzo di Armando Feroci. Non dimentichiamolo: Gallo cedrone esce in un periodo di disfacimento, sono gli anni del primo Berlusconi, del populismo, della megalomania, della mitomania. Temi che hanno sempre fatto parte del mio cinema, pensiamo ai due personaggi di Troppo forte, che è la storia di un megalomane e un mitomane. C’erano tanti momenti forse un po’ sgangherati che funzionarono e Gallo cedrone incassò molto bene, d’accordo, ma gli spettatori e i critici rimasero perplessi. Il tempo gli ha dato ragione, oggi molti lo ritengono tra i miei lavori più azzeccati.
Lei lo porta verso un’esagerazione adatta a una commedia grottesca, ma a prenderlo per quel che è Feroci è davvero un personaggio di attualità sconcertante.
Pensiamo all’inizio: la faccia di un occidentale picchiato (cioè io) sparata su un giornale arabo con una richiesta di riscatto. Ma il personaggio che emerge via via dai racconti dei conoscenti somiglia sempre di più a uno che appartiene alla cronaca quotidiana: un mitomane, un megalomane, un corrotto. Non tutti lo compresero, ma è importante che lo rivalutino perché quando è uscito era troppo presto. Dino Risi, una persona severa e cinica, mi telefonò per dirmi che gli era piaciuto. Be’, detto da lui mi fece ovviamente molto piacere.
I politici non compaiono molto nei suoi film. Vengono in mente l’ignobile sottosegretario Valenzani di Compagni di scuola, l’onorevole che carica la prostituta in Grande, grosso e… Verdone, quello che ricicla denaro interpretato da Massimo Popolizio in L’abbiamo fatta grossa (2016) ma anche, più subdolo, il dirigente televisivo settentrionale in Perdiamoci di vista che fa fuori Gepy Fuxas perché troppo romano per il nuovo corso aziendale…
…quello è un leghista! Quando i leghisti erano contro Roma ladrona. Perdiamoci di vista è un film molto importante per me, nasce nel momento in cui sale al potere quella classe dirigente così ignorante. I politici appartengono a una categoria che stimo poco. A parte alcuni grandi esponenti del passato, persone rispettabili anche se la pensavano diversamente da me. Non è possibile che oggi ci sia tutta questa gente che comanda un Paese e non ha una laurea, un curriculum, non conosce l’inglese, si è fermata alla terza media. Gli immigrati parlano inglese meglio di certi politici! Non sanno la storia, non sanno la geografia, non sanno niente, non sono persone affidabili. Una follia assoluta, non si può andare avanti così.
Tutti un po’ galli cedroni?
Sono tutti dei galli cedroni. Assolutamente. Il mio, quando si candida sindaco, faceva una proposta assurda: asfaltare il Tevere perché solo così «a Roma se’ score». Oggi come oggi sarebbe anche un’idea avveniristica… Oddio, speriamo di no!