Il mio miglior nemico. Un’ipotesi di famiglia – e di cinema
Ilaria Floreano«Sei entrato nella mia vita come una maledizione». Maledizione, dal latino maledictio, che deriva da maledicĕre, cioè “dir male”. In dialetto romanesco si esclama “t’ha detto male” riferendosi a una condizione non proprio fortunata. E sospettiamo che in tutte le lingue del mondo sia d’uso definire “maledizione” un legame di sangue o di parentela complicato e doloroso, la cui natura lo rende però arduo sia da rescindere, sia da sopportare. Il cinema di Carlo Verdone è zeppo di relazioni-che-sembrano-maledizioni (infatti Maledetto il giorno che t’ho incontrato [1992]): che si tratti di quella tra figlio strafatto e padre conservatore (Un sacco bello [1980]), madre dominante e figlia docile (Acqua e sapone [1983]), fratello debole e sorella puerile (Io e mia sorella [1987]), marito paranoico e moglie succube (Bianco, rosso e Verdone [1981] – riproposti nel 1995 in Viaggi di nozze), la problematica riappare di frequente, talvolta come cuore della narrazione, spesso come elemento carsico a corredo, quasi sempre risolta con bonaria rassegnazione (oppure, talvolta, la morte).
Il mio miglior nemico si inserisce nel solco approfondendolo, orchestrando uno spartito in cui ci sono un padre che abbandona la famiglia per rifarsene un’altra, una madre che si comporta da figlia e un altro padre che solo dopo aver perso tutto capisce la necessità di dedicarsi al suo ruolo, e lo fa raddoppiandolo (si riafferma padre biologico e si scopre padre putativo).
La battuta del nostro incipit la pronuncia Achille De Bellis (Carlo Verdone) all’indirizzo di Orfeo Rinalduzzi (Silvio Muccino), il quale mosso dal desiderio di vendicare la madre – secondo lui ingiustamente licenziata dal De Bellis – e da un senso di rivalsa classista nei confronti del «bastardo» che ha «tutto: casa, famiglia, lavoro, soldi, macchina, amante», lo bersaglia di piccoli dispetti fino a rovinargli la festa per le nozze d’argento. Nella fulgida ricorrenza (invero parecchio ipocrita), Orfeo rivela la tresca di Achille con la cognata di fronte a moglie, cognato e figlia. Le conseguenze sono una mitragliata di porcellane lanciate dalla prima (con una furia che Citizen Kane avrebbe apprezzato), il licenziamento per direttissima a opera del secondo, la delusione cocente della terza, che decide di sparire.
Egregiamente scritto a otto mani, tra cui due sono quelle del co-protagonista Silvio Muccino – conosciuto sul set di Manuale d’amore (2005) – Il mio miglior nemico è certo uno dei titoli angolari di Verdone negli anni Duemila. In esso la sua proverbiale malincomicità, rilanciata dalla favolosa alchimia tra i personaggi principali e dalla bravura attoriale dei comprimari (su tutti Ana Caterina Moriariu nei panni della figlia Cecilia), si traduce in un fuoco di fila di gag, battute, colpi di scena ed equivoci in cui commedia e dramma si alternano con grazia, fervidamente alimentati dalla pochade più classica come dall’impronta giovanil-sentimentale portata in dote dal buon Muccino; dalla comicità fisica di corpi elettrici in stile Charlot, da quella cinematografica che sfrutta primo e secondo piano in stile Tati, da quella, ancora, giocata su malattia e medicinali («Sei litio o anfetamina?») cara all’altro grande ipocondriaco del cinema Woody Allen; persino dalle cacche di cane pestate con le Church lucidissime (mai dimenticare Plauto).
Qualche esempio. Achille esasperato tira dritto per dritto un pugno sul muso a Orfeo che subito sviene: la virilità machista lascia il campo alla “manina” portata alla bocca mentre le gambe impazzite fremono per correre al pronto soccorso. Qui il pugno diventa una scivolata fuori dalla doccia, che i due fingendo di essere amici diranno di aver fatto insieme, e quando torneranno in ospedale perché ad aver bisogno di cure sarà Achille gli infermieri, con l’ineffabile puntualità dei romani, li accoglieranno con un: «Ma che ve fate la doccia con l’olio d’oliva?».
Orfeo viene investito da Cecilia ed è colpo di fulmine, ma l’innamoramento si manifesta con brevi confessioni romantiche e sguardi intensi che ci fanno rimpiangere di non aver visto Muccino – felicemente accordato sui cambi di tono per cui Verdone è famoso – sfruttato ancora più efficacemente in ruoli di questo tipo.
Infine: la corsa in motorino per le strade della capitale alla ricerca dell’Audi rubata è un pezzo da antologia, un po’ perché rievoca le scorribande di Nanni Moretti e un po’ perché il duo tocca le vette del proprio peculiare slapstick fisico e verbale («Sembriamo due scippatori! – Non m’oscilla’, non m’oscilla’ – È che so’ squilibrato! – Se te movi famo il botto!», e a chiosa l’iconico caschetto bianco vola via).
In un contesto produttivo come quello italiano, annosamente afflitto dalla scarsità di bravi sceneggiatori e dall’attenzione alla situazione più che alla storia, incappare in un copione solido in cui si contano pochissime sbavature (alcune per product placement oblige, mentre il primo dialogo padre-figlia e lo scambio finale tra gli ormai ex coniugi – «Ora capisco che ho passato venticinque anni a dimostrare di cosa era capace il figlio di un portiere!» – avrebbero forse meritato uno sviluppo più articolato) procura più di un’emozione. Soprattutto indica dove si trova la strada maestra, troppo a lungo evitata (anche i Padri del cinema vanno recuperati), la cui prima lezione resta sempre quella: dietro ogni risata deve celarsi un piccolo dolore, come nella vita.
Ma è il film tutto a mostrare la volontà di una ricercatezza formale e visiva, attraverso l’uso ben dosato di primissimi piani, movimenti di macchina lenti e attimi di sospensione – Muccino ripreso di spalle immerso nella vasca, o accasciato sul tavolo dopo che ha scoperto che la madre meritava davvero di essere licenziata – ad assecondare la densità dello script, in cui tra le altre cose trovano spazio anche dinamiche da buddy e road movie. Dopo che Orfeo ha polverizzato la “vita perfetta” di Achille, per due volte questo ribadisce di non volerlo vedere mai più, ma poi la volontà di ritrovare l’uno l’anima gemella, l’altro la figlia perduta, li costringe a una convivenza forzata in giro per l’Italia in cui l’indagine stessa diventa un pretesto. E nella disperazione di Orfeo, che vorrebbe solo essere lasciato in pace e invece è costretto ad affrontare uno per uno i suoi demoni; nella fragilità di Cecilia, che agogna «le regole» e si nasconde per non dover chiedere un aiuto che teme di non veder mai arrivare; nella frenesia di Achille, che è un buon genitore ma se n’è dimenticato; e tra un discorso sulle maschere che ognuno porta pur di non sentirsi attaccabile dalla mancanza d’amore e uno sull’esigenza di trovare almeno una persona da chiamare “famiglia”; in mezzo a tutto questo anche un nemico può diventare la salvezza, e la maledizione mutarsi in benedizione.
CAST & CREDITS
Regia: Carlo Verdone; soggetto: Carlo Verdone, Silvio Muccino, Pasquale Plastino, Silvia Ranfagni; sceneggiatura: Carlo Verdone, Silvio Muccino, Pasquale Plastino, Silvia Ranfagni; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Maurizio Marchitelli; costumi: Tatiana Romanoff; montaggio: Claudio Di Mauro; musiche: Paolo Buonvino; interpreti: Carlo Verdone (Achille De Bellis), Silvio Muccino (Orfeo Rinalduzzi), Ana Caterina Morariu (Cecilia De Bellis), Agnese Nano (Gigliola Duranti), Paolo Triestino (Guglielmo Duranti), Corinne Jiga (Ramona), Sara Bertelà (Annarita Rinalduzzi); produzione: Aurelio De Laurentiis per FilmAuro; origine: Italia, 2006; durata: 106’; home video: dvd FilmAuro, Blu-ray FilmAuro; colonna sonora: Minus Habens.