"Bianco, rosso e Verdone". Il cine-cabaret diventato classico

Andrea Giorgi
Carlo Verdone n. 12/2019

Un classico della nostra commedia. Certo, oggi è facile argomentare su quanto e come lo sia. Di come le maschere di Carlo Verdone siano familiari e facciano parte della nostra tradizione, quasi al pari di Arlecchino e Pulcinella. E allora forse non è un caso se lui cominciò da ragazzo facendo le voci al teatro delle marionette di Maria Signorelli. Quando Bianco, rosso e Verdone uscì nelle sale, febbraio 1981, qualcuno (stra)parlò di una «parodia di Easy Ryder [1969, ndr]», tanta, forse, era la voglia di cercare il riferimento alto. Si tratta semmai di cine-cabaret, istantanee di comicità sopra le righe. Non banale, volgare il giusto. Popolare. Quelli erano anni di commedie più o meno brillanti, ma pure dei Pierini e delle docce. Verdone c’è e si fa notare. E c’è, qui, Franco Causio con la maglia della Juventus, che da un quadro sulla parete della camera da letto sorride sotto i suoi baffi leggendari. È il Barone bianconero l’icona che Pasquale Ametrano, l’emigrato che da Monaco di Baviera deve tornare a Matera per le elezioni, tiene sul muro con il gagliardetto al posto del crocifisso. Quasi un contrappasso per lo stesso Verdone, che all’università aveva studiato Storia delle Religioni.
La scena del risveglio è roba stracultissima, forse seconda solo al Fantozzi “barba e bidet” delle origini: tappezzeria con agghiacciante motivo faunistico di tucani e fenicotteri; trapunta di cuori rossi a contrasto e moglie teutonica che a colazione frigge pure le salsicce. Un episodio geniale di suoni e versi al posto delle parole, di gesti e smorfie. Verdone si era laureato al Centro Sperimentale di Cinematografia con una tesi sull’influenza della letteratura italiana sul cinema muto e qui, con gli sceneggiatori Benvenuti e De Bernardi, rende una sorta di omaggio naïf agli sketch di Chaplin e Jacques Tati.
Pasquale lotta con il rasoio che si spegne e lo spazzolone del water che finisce nello scarico, in quella che è solo una prima tappa di una disfida del cesso che porterà lungo il viaggio, un autogrill dopo l’altro, tanti altri guai. A lui e alla sua Alfasud rossa con i sedili di pelo, schifata persino dagli autostoppisti e spogliata di ogni valore non appena varcato il confine.
Piccole cose rispetto a quanto capitava ad altri nostri emigranti, da Manfredi Pane e cioccolata (1973) a Sordi, Bello, onesto, emigrato Australia… (1971). E ancora Sordi, Detenuto in attesa di giudizio (1971). Verdone per il suo secondo film prodotto da Sergio Leone (che nei titoli, chissà perché, non compare mai), dopo i 2 miliardi e mezzo di Un sacco bello (1980) pensò di proseguire sul collaudato filone a episodi, ma con storie parallele, liberando quel suo talento di trasformista. Fatto di leggerezze intrise di un po’ di malinconia, che sarà ampliata nel suo cinema a venire. Scelse un titolo con il proprio nome in risalto, cosa che si era potuto permettere solo Totò.
L’onomastica funziona, l’espediente narrativo del viaggio elettorale anche. In quel periodo, le elezioni erano ancora una cosa seria nonostante vincessero sempre gli stessi, un po’ come oggi accade con il calcio. Nazionalpopolare allo stesso modo. Erano gli anni dei treni speciali, dei caselli autostradali senza barriere, dei collegamenti radio dalle sezioni “minuto per minuto”. «Gli anni di che belli erano i films, gli anni dei Roy Rogers come jeans», per dirla alla Max Pezzali. Erano anni in cui la maschera comica poteva entrare a far parte del sentire comune, come oggi non accade nemmeno al più riuscito dei tormentoni. Il bamboccione Mimmo tornava dal successo di Un sacco bello, questa volta con la nonna Lella a fare da deuteragonista. «Nonna, m’hanno fatto un buono, che vor dì? / Che te la piji in der culo». Verdone scelse la sor(ell)a di Aldo Fabrizi su consiglio di un amico che ascoltava la sua rubrica di consigli per le radioascoltatrici. «Me cojoni!», disse lei alla proposta della parte. Uno degli aneddoti ricorrenti di Verdone spiega anche di come Leone non la volesse nel cast, preoccupato per le condizioni di salute dell’anziana: «Questa c’ha il diabete a mille, nun ce l’assicurano». La sora Lella, in realtà, doveva conoscere ancora la sua seconda giovinezza, opinionista alla “pasta e fagioli” del Costanzo Show poi consacrata dall’imitazione di Antonello Fassari ai tempi di Avanzi. Pare anche che al padre dei nostri western non piacesse il personaggio di Furio, l’elencatore folle e logorroico che traeva ispirazione dal Leopoldo Trieste felliniano (Lo sceicco bianco [1952]) e da uno zio dello stesso Verdone, ma si convinse a inserirlo nel film dopo l’entusiasmo, a una proiezione privata, di Alberto Sordi. Lo stesso Sordi a cui Verdone ha pagato a lungo il tributo di un confronto magari non così immediato. C’era Milena Vukotic, da poco signora Pina, raffinata anche in déshabillé.
«Magda, tu mi adori? E allora vedi che la cosa è reciproca?». Magda che aveva i capelli a barboncino e gli occhioni dolci e disperati di Irina Sanpiter, di cui in pochi nelle platee dell’epoca potevano pensare fosse un’attrice russa, la cui inflessione sabauda era merito di Solvejg D’Assunta, specializzata in dialetti, e dell’intuizione dello stesso Leone. Nipote dello sceneggiatore corbucciano (nel senso di Sergio) Giorgio Arlorio, la Sanpiter (scomparsa nel 2018) avrebbe dovuto fare una particina nella scena dell’autogrill con la famiglia di russi, invece era destinata all’Olimpo dei caratteristi. Restando alla categoria, dalla scuderia leoniana arrivavano Angelo Infanti, playboy con quella voce un po’ così, testosterone puro, non ancora e per sempre Manuel Fantoni. E il monumentale, non solo nel senso della fisicità, Mario Brega: «Sta mano po esse fero e po esse piuma».
Modi di parlare, tic, vizi e manie che Verdone aveva inventato per il tavolaccio del Teatro Alberichino alla fine dei Settanta, dove il critico entusiasta di «Paese Sera» lo aveva paragonato a Fregoli. Figurine irresistibili, non solo romanesche, portate alla ribalta grazie a Enzo Trapani, che qualche anno prima gli aveva dato spazio e notorietà televisiva a Non Stop. Ritratti nati anche dall’osservazione di chi andava e veniva dal bar Mariani di Via dei Pettinari, sorta di versione romana dell’“Ufficio facce” organizzato a Milano da Beppe Viola, Jannacci e gli altri, ai tavolini della pasticceria Gattullo.
Bianco, rosso e Verdone andò bene, ma incassò meno di Un sacco bello: 36esimo nella stagione 1980/81, guidata dall’emergente Troisi, dopo un’infornata di Celentano, Montesano, Dorelli, Pozzetto, persino Bombolo. La fortuna di Verdone fu l’intuito di Mario Cecchi Gori, che lo prese in scuderia e gli spianò la strada per il successivo decollo con Borotalco (1982). Storie del cinema e storie di vita. Nella sua azzeccata circolarità, il trittico di vicende finisce con Ametrano e il suo grammelot meridionale, alla Gigi Proietti, un dialetto immaginario ma non troppo che racchiude molto dello spirito italico: «Sapete che ve dico? Che andate a pijarvelo tutti quanti ‘nder culo. Va bene? Arivederci».

 

CAST & CREDITS

Regia: Carlo Verdone; soggetto: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Luciano Tovoli; scenografia: Carlo Simi; costumi: Antonio Palombi; montaggio: Nino Baragli; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Carlo Verdone (Pasquale Amitrano, Furio Zoccano, Mimmo), Irina Sanpiter (Magda Ghiglioni), Elena Fabrizi (Teresa), Andrea Aureli (ufficiale dei carabinieri), Angelo Infanti (Raoul), Milena Vukotic (prostituta), Mario Brega (er Principe); produzione: Sergio Leone per Medusa Distribuzione; origine: Italia, 1981; durata: 109’; home video: dvd Mustang Entertainment, Blu-ray inedito; colonna sonora: Beat Records.

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