Il senso dei Vanzina per la moda. Vestire, parlare, camminare, essere anni 80
Ilaria FloreanoC’è chi sostiene che le storie dei grandi romanzi siano sempre riassunte nel primo paragrafo. Certo in ambito cinematografico gli incipit hanno un’importanza decisiva: devono catturare lo spettatore e fargli sospendere l’incredulità. Se un merito va riconosciuto a Carlo ed Enrico Vanzina, è l’abilità nel presentare con pochi, eloquentissimi fotogrammi e/o battute i loro personaggi. Accade con evidenza nelle pellicole degli anni Ottanta, in particolare in Vacanze di Natale (1983), Mystère (1983), Sotto il vestito niente (1985), Yuppies. I giovani di successo (1986), Via Montenapoleone (1987), Montecarlo Gran Casinò (1987), Le finte bionde (1989), sulle quali puntiamo qui l’occhio di bue perché costituiscono un’enciclopedia del vivere-e-vestire di quel decennio e una forma cinematografica densa ancorché leggera, in cui la realtà vissuta da regista, sceneggiatore e cast coincide esattamente con quella narrata sullo schermo e la comparsa di nuovi linguaggi (le tv private, la pubblicità) influenza lo specifico filmico.
È assurto al rango di mitologico l’arrivo a Cortina d’Ampezzo di Jerry Calà, in Vacanze di Natale, che smonta dall’Autobianchi Y10 con Ray-Ban a specchio, montone e mocassini – la prima cosa che vediamo di lui. Mocassini declinati in ogni possibile variante anche nella prima scena di Yuppies, in una sfilata antologica – omaggio non casuale a quella degli Armani in American Gigolò (1980) – meteorologicamente suddivisa per poter sfidare «gran secco», «mezza stagione», «pioggia», «nebbia» e «caldo della madonna» (ma sono tutti uguali!), che introduce di nuovo Calà, non più cantante di piano-bar ma pubblicitario, dopo che abbiamo incontrato il notaio di Massimo Boldi mentre si fa una corsètta al parco con fascia assorbi-sudore e tuta della Fila, il dentista di Christian De Sica mentre si massaggia il viso e il venditore di automobili di Ezio Greggio mentre si applica sulle sopracciglia gelatine colorate piluccate da una tavolozza (è il modo, surreale ma puntuale, di raccontare una passione per i cosmetici che condurrà ai metrosessuali odierni – quello di I fichissimi [1981] era ancora apostrofato come «ibbrido» – e a un mercato di prodotti di bellezza maschili più florido di quello destinato alle donne e forse più variegato di quanto si potesse auspicare). Tutti e quattro con l’orologio rigorosamente allacciato sopra il polsino della camicia, come «L’Avvocato» Agnelli che questi “giovani di successo” tengono in cornice accanto alla fotografia della moglie e ammirano dal basso mentre sorvola Covtina in elicottero, dio pagano con laicissimi fedeli. Carole Bouquet, la splendida prostituta d’alto bordo Mystère, si manifesta come riflesso sfuggente e diafano sul cofano lucido di una Ferrari, mentre la modella hitchcock-(si chiama Jessica Crane)depalmiana (ha i capelli platino come Melanie Griffith in Omicidio a luci rosse [1984]) interpretata da Nicole Perrin in Sotto il vestito niente è innanzitutto una foto di copertina (come dice Anna Galiena nella sua ficcante apparizione: «Ricorda, fotomodella, che tu sei fatta di carta»). Via Montenapoleone poi la fa ancora più semplice: i titoli di testa scorrono sulle immagini di uno struscio per la via della moda più celebre d’Italia ritmato dall’omonima canzone di Peter Van Wood – ed è interessante annotare che tale via, pur dando il titolo all’opera, ricompare solo nel finale ed è più che altro un escamotage per definire in un colpo solo un intero contesto geografico, economico, sociale.
Sono particolari questi Vanzina: romani veraci con una passione smodata per Milano, quando la gran parte dei loro concittadini tendenzialmente la odia (soprattutto quando ci vive), hanno saputo cogliere in modo impareggiabile tanto la città quanto i suoi abitanti, con tutti i tic, modi di dire, cadenze, vezzi, debolezze e quella simpatia per cui una volta i milanesi erano famosi (ebbene sì). Non solo: con una lucidità da chiaroveggenti hanno fissato su pellicola figure e tendenze destinate a prendere piede nel futuro in cui ormai stiamo vivendo – in verità una sua copia plumbea, spaventata, priva di autoironia e annichilita dalla crisi di tutto. Il personaggio di Corinne Cléry in Via Montenapoleone per esempio, che in autoreggenti si offre di “svezzare” il figlio-bamboccio dell’amica Marisa Berenson, madre (p)ossessiva, aggiorna quello di Virna Lisi in Sapore di mare (1983 – ma lì si era nei Sessanta e la signora voleva solo leggere poesie) e anticipa quello della cougar alla Courteney Cox del nuovo millennio. Oppure: il fenomeno della globalizzazione inteso come aumento esponenziale degli immigrati in Italia destinati a lavori umili posto come dato di fatto, ma i rapporti sbilanciati di forza sono salvati dalla bonomia dei subalterni – che appaiono felici della loro condizione, integrati, talvolta malinconici, talaltra più snob di coloro per cui lavorano come la guardiana dei bagni pubblici di proustiana memoria (si veda al proposito l’esilarante scambio di battute tra la cameriera orientale e quella africana in Le finte bionde) – e da un senso di superiorità dei “padroni” talmente sfrontato e politically incorrect da non poter essere né bieco né ipocrita.
Per quanto ci riguarda in particolare, poi, i Vanzina hanno fotografato con precisione prodigiosa “gli anni Ottanta”, decennio esteticamente e tricologicamente debordante, unico e irripetibile (per fortuna, aggiungeremmo). Tanto che guardare uno dei film succitati equivale a essere calati in un mondo che si conosce molto bene per via diretta o indiretta, a chiedere un passaggio alla macchina del tempo. Come se in realtà si stessero ri-guardando, per chi in quegli anni è nato, gli album di famiglia, sogghignando della zia con una chioma sparata che neanche un punk e delle spalline rinforzate da giocatore di rugby sfoggiate da una sposa.
Ecco allora scorrere su grande (e piccolo) schermo l’intero caleidoscopio di look tipicamente Eighties: capelli lunghi fino al sedere fermati da cerchietti bombati o coroncine, tutti pari o con scalature decise, liscissimi o frisé, con ciuffi, frangette da Cleopatra o frangettone, trattenuti da strisce in tulle a pois, corti a caschetto con basette a virgola, cortissimi alla maschietta, fermati con mollettoni, raccolti in trecce strette o in code basse con fiocconi in velluto, imperiosamente cotonati, selvaggiamente permanentati, con chili di gel fissati, preferibilmente ossigenati – nel “decennio di plastica” la tinta è la prima e più facile di una lunga serie di finzioni nonché il passe-partout per la mondanità “che conta” (almeno così si sostiene in Le finte bionde, nell’esilarante primo capitolo dove un’irresponsabilmente mora Cinzia Leone tenta di entrare in palestra, viene passata ai raggi X da un plotone di blondies in tutine di nylon e scappa a farsi schiarire la criniera). Il biondo è uno stile di vita, così come lo shopping, lo jogging, la casa affidata all’architetto, i weekend a Portofino, i giochi di società, il tam-tam telefonico per organizzarsi su cosa (non) fare, la videomania, il telefono in auto, il Natale in montagna e l’Epifania alle Maldive. Tutti trends che si accompagnano a peculiari mises: tubini senza spalle fucsia, giallo limone o blu elettrico, giacche rosse con revers neri, camicie con jabot, pendant spericolati, gonne che toccano terra fermate da cinturoni a vita alta, minigonne in pelle o vinile, jeans aderentissimi, mutande sgambatissime, collant velatissimi («E vai fuori di gamba!»), canottiere aperte davanti dietro e sotto le ascelle, tutine da ginnastica e scaldamuscoli ton sur ton, completi da neve monocromi, cardigan e giacche oversize, tight bianchi, pullover rosa shocking, fantasie optical, abiti da sera con grandi ali rigonfie, bustier appuntiti e scollature abissali – sbrilluccicanti come carta di Ferrero Rocher o smeraldi tarocchi, sottovesti in seta orlate di pizzo, guanti senza dita, calze a rete, cuissards al ginocchio, decolleté a punta tonda (in contrasto cromatico con le calze), giubbini di pelle e pellicce, pellicce, pellicce, pellicce (anche come piumone, anche allo stadio, anche al chiuso). E poi unghie finte, ciglia finte, borchie, collane a quattro fili, bracciali-scultura, soprattutto orecchini: tondi, triangolari, di plastica, placcati oro, placcati argento, grossi, massicci, lunghi, luminosi e pesanti come lampadari (vince nell’ultima categoria l’amante ludopatica del Dogui in Montecarlo Gran Casinò). Questo guardando gli attori principali, ma se ci si sofferma sul contesto si assiste a una teoria di comparse che aumenta il senso di contiguità tra chi stava dietro la macchina da presa e chi nel frattempo viveva poco oltre il margine del quadro (particolarmente intenso in Vacanze di Natale, con tutti quei rituali così italiani e quei maglioni a collo alto e il tocco di pailette per Capodanno). In Yuppies è la segretaria innamorata del notaio, che dai tailleur castigati passa per effetto dell’amore ad outfit degni di Like a Virgin-Madonna; in Sotto il vestito niente è la cliente occasionale del neonato Burghy, con quegli occhiali da sole tenuti anche in interni come la peggiore delle tamarre e i capelli biondi (!) “sparati” che ci fanno pensare a Cyndi Lauper; in Mystère è la carrellata di prostitute al compleanno del magnaccia “Visone”, esaustivo catalogo di acconciature tipiche.
Oltre alla prossimità fisica però c’è di più: una vera e propria passione dei Vanzina per il lato fashion della vita, evidente se si pensa che con Sotto il vestito niente arrivano a fondare un sottofilone del giallo-thriller, quello, appunto, d’alta moda, facendo esordire una fotomodella nel ruolo di assassina che uccide con una forbice da sarta, ambientando svariate scene tra agenzie e set fotografici, chiedendo a Moschino di sfruttare il palco del loro défilé per girare la sequenza – da cineteca – alla stazione di Milano Centrale, con I Am What I Am di Gloria Gaynor in sottofondo. Carlo indugia sull’eccentrica entrée della prima modella, sulla sua minigonna con lo strascico sventolato come il drappo di un torero, e insieme a lui seguiamo ipnotizzati la falcata sempre più concitata della stupenda Maria McDonald alias Margot, prima fasciata in un abito accollato, di lì a poco riversa a terra con le famigerate forbici piantate nella schiena.
È tale l’inclinazione che anche regia e fotografia ne risentono: e allora la luce si fa televisiva, prepotente, appiattita, perché i fotogrammi in movimento risultino più vicini a quelle pagine di rivista patinata da cui le protagoniste dei Vanzina scendono per il tempo di sfilare sullo schermo; e l’obiettivo si intrattiene volentieri sui momenti in cui ci si mette il rossetto e il mascara, ci si prepara a uscire infilando calze e scarpe, si fa il bagno pieno di schiuma, tanto che potrebbero essere scambiati per intervalli pubblicitari. Di spot in effetti ce n’è uno vero e proprio, girato sulla falsariga di Nove settimane e ½ (1986): quello per il collant «che l’è uno schiant» con protagonista Federica Moro nel finale di Yuppies.
Gli Ottanta sono gli anni del corpo e della sua esibizione (il fitness, le grandi tette), degli «ape» ininterrotti, dell’acquisto compulsivo, del more is more, del vedo-vedo, del micro e macro giustapposti senza soluzione di continuità, della frivolezza come principio guida e del divertimento come religione. E la moda, si sa, è prima di tutto un gioco, per quanto serissimo. In questo ossimoro stanno quegli anni che volevano dimenticare le violenze dei Settanta e riprendere il filo dell’euforia sessantesca, durante i quali ogni cosa è stata succhiata fino al midollo, di cui ci rimangono soprattutto abitudini, aspirazioni e velleità destinate ad autodisintegrarsi contro gli scogli di precariato diffuso, guerra totale e individualismo sterile, e il ricordo stranito di quelle creste da punk e spalle da rugbista portate con nonchalance da persone per il resto piuttosto normali, perfino modeste. Negli Ottanta essere strambi, kitsch, eccentrici era inevitabile perché nei negozi si trovavano solo abiti e accessori di un certo tipo; era di moda; era la quotidianità. Quanto può essere piacevole vivere in un’epoca che ti fa credere tu sia libero di indossare e pure fare tutto? Che puoi indossare e fare tutto per davvero? Forse è per questo che dopo aver cercato di dimenticarli ora ispirano serie tv di successo, ritornano sulle passerelle e vantano schiere di nostalgici che all’epoca erano bambini, la maggior parte dei quali conosce a memoria le battute di Nicheli, Calà, De Sica e, riguardando per l’ennesima volta Vacanze di Natale, si sente bene come sotto una coperta quando fuori nevica.
In Sotto il vestito niente il fotografo che per ultimo ha immortalato Jessica Crane dice al fratello che la sta affannosamente cercando: «Mi chiedi chi era tua sorella? Una modella: un volto, un corpo, un po’ di trucco, un bel vestito, e sotto il vestito niente. La gente vuole questo da una modella: niente». I fratelli Vanzina hanno fotografato meglio di qualunque altro regista e sceneggiatore italiano questo “niente”, il niente di una bolla economica ed emotiva lunga un decennio. Un niente che però è tutto, che continuamente rimpiangiamo, e che grazie a Carlo ed Enrico torna a farci sorridere, ridere, emozionare e piangere come la prima volta di fronte all’«Alboreto is nothing», ai balletti elettrici di De Sica, e anche a quello scambio di sguardi diciotto anni dopo (nell’«Estate 1982», quando se no?) tra Marina Suma e Jerry Calà, yuppie con i capelli ingrigiti e la camicia sbottonata, seduto su un divano della Capannina per l’ennesima serata di bagordi forzati. Con la «faccia da pirla» che «non ce la fa, non ce la fa» ad assumere l’espressione intensa che la scena richiederebbe, anzi ha gli occhi che sfuggono qua e là imbarazzati. Perché in fondo lui non è bello, piace. Soprattutto, non è un attore che recita. È uno di noi, e anche noi, di fronte al nostro passato anni Ottanta, avremmo quella faccia lì.