Woody Allen e l’arte della fuga dal nostro Occidente
Marco Iacona
26 giugno 2008. L’Adnkronos batteva una notiziona: Woody Allen, regista e scrittore newyorkese, era stato sdoganato «a destra». L’agenzia riprendeva un mio articolo che recensiva Pura anarchia, Bompiani 2007: diciotto micro-racconti semiseri, assurdi ma taglienti. Spettatori e lettori distratti daranno seguito a noiose lamentele, incapaci di andare oltre il cliché del cineasta quasi organico alla sinistra chic. Tre anni dopo Allen realizzava uno dei suoi film migliori, Midnight in Paris, record al botteghino e buone critiche. Nulla di osceno né di sovversivo: la storia di un uomo della nostra epoca che incontra per pura magia i protagonisti della cultura degli anni Venti – Scott Fitzgerald, Cole Porter, T. S. Eliot, Picasso e i surrealisti. Incontri che non rimangono semplici episodi, perché gli artisti non sono «come tutti gli altri» (Ombre e nebbia). Una vicenda, anzi una filosofia, non nuova all’interno della produzione alleniana: la fuga dalla realtà. Un membro della classe media o della petite bourgeoisie con sensibilità artistica, che va alla ricerca di spazi, luoghi e personaggi che nulla hanno di reale. Cause o motivazioni? Semplice insoddisfazione, evasione dalla prigione della normalità, richiamo di un altrove, con norme, vicende e personalità inconsuete. Uno l’altrove, una la fantasia del protagonista. Nasceranno immagini in serie e l’arte (registica) della consolazione si trasformerà in consolazione dell’arte. Una facile inversione di polarità. Facile per chi ha capacità comunicative e di scrittura, o per chi è in grado di sognare senza annientare se stesso.
O magari si trasformerà in consolazione della magia, alla quale Allen darà credito come piccolo grande frammento d’irrealtà. Un Allen tutt’altro che realista, un analista attratto dal significato dell’esistenza, ora dal lato maschile ora da quello femminile, all’interno di un quadro di vita borghese. Occidentale. Come dimenticare poi la patria americana? Il paese degli affaristi, dei superficiali di successo e dei grandi comunicatori (Celebrity)? Gli uni sottobraccio agli altri. Vada come vada: adeguarsi è la parola d’ordine.
C’è un momento nel quale si è portati a scegliere tra la realtà e la fantasia, dice Allen nel lavoro di Robert Weide, Woody Allen. A documentary (2012). Tutti, naturalmente, sceglieremmo la fantasia, ma è proprio lì – continua il regista – che si nasconde la follia. Così, alla fine si è costretti a scegliere la realtà: che ferisce, di continuo. La realtà vince sempre: è uno dei segnali più forti nei film del newyorkese. Eppure, non è detto che il tema centrale sia propriamente questo. Di quale realtà si tratta? Di quella priva di una fantasia oramai sconfitta, in un eterno riproporsi di temi realistici? Di quella nata da una relazione con l’immaginazione, con una tesi, un’antitesi e una sintesi? Siamo proprio sicuri che l’ingrediente fantasia in Allen sia una cattiva compagnia, un subdolo rivale, un comprimario utilizzato per far risaltare il punto di vista della cruda realtà? Non ci sarà dell’altro?
La fantasia, con i suoi ingredienti, che muteranno di volta in volta, è insomma la malattia o la cura? Certo non una cura definitiva – nulla c’è di più lontano delle insidie dell’eternità in Allen – ma tale da produrre una svolta in certo senso di media gittata. Le risposte le fornirà lo stesso regista.
Cominciai a pormi delle domande alla fine dei Novanta, quando vidi una delle migliori pellicole di Allen, Harry a pezzi. Con un finale da togliere il fiato, un dialogo tra Harry Block, scrittore in crisi, in difficoltà nel mondo reale, e un amico morto, che si materializza all’improvviso. Allen non è solo un grande regista ma anche uno scrittore brillante, capace. Sa dove porre gli accenti, ha il dono del ritmo. Harry: «Io non sono bravo a vivere». Il morto: «No, però scrivi bene». Harry: «Scrivo bene, ma è diverso, perché lì posso manipolare trame e personaggi». Il morto: «Sì, esatto, crei il tuo universo ed è migliore insomma del mondo che abbiamo, secondo me». Harry: «Io non funziono nel mondo che abbiamo, io sono un fallimento». Il morto: «Non lo so. Io credo che tu dia gioia a un sacco di persone».
Il dialogo s’interrompe con una breve sentenza: «Essere vivi è essere felici». Altro tema fondamentale. Per un agnostico, l’aldilà – quell’altrove che può dare soddisfazioni, seppur momentanee – non esiste come regno a se stante, perché è compagno dell’individuo nel qui e ora, cioè sulla terra. Dipende dalla capacità di astrazione. L’aldilà è invenzione, arte pura: ma è tutt’altro che inutile. L’individuo sogna, crea con la sua fantasia, quest’ultima prende corpo e stabilisce con chi l’ha partorita una singolare alleanza. C’è sempre un dialogo tra le diverse parti dell’io, tra quella che vive di concretezza e un’altra, che si nutre di astrazioni. La risultante non è un disastro senza opportunità di replica: Allen non antropomorfizza le ansie per dilatare il volume dei propri incubi, quanto piuttosto per trovare una soluzione. E la risultante non è la pazzia – che è nel vivere per sempre di e nei sogni – ma il ritorno a casa. L’isola della verità, nella quale servirsi di una consapevolezza acquisita, di una crescita interiore. Luogo nel quale spendere una nuova ricchezza, con strumenti in più per potersi difendere, con un unguento da applicare sulle ferite. È vero, i personaggi inventati da Harry, quelli nei quali questi proietta se stesso e le proprie amanti, gli hanno salvato la vita. Loro vivono grazie a lui e, alla fine, sarà lui a vivere grazie a loro. Per continuare a raccontare, per continuare a produrre arte. Arte, sogni e fantasie, titoli da convertire in felicità.
Al fondo di queste tematiche troviamo due condizioni. La prima è relativa non solo alla consapevolezza di essere felici. Inizialmente, questa condizione può essere superata dall’equazione vita uguale felicità. Quanto invece al coraggio di dirsi felici con assoluta convinzione, qui il discorso rimane aperto alla relazione alleniana tra vita e morte. La morte, come dice Jago nell’Otello di Verdi, è «il nulla», e la certezza di essere lontani dal nulla è il primo traguardo. Ma l’esistenza è piena di nevrosi e frustrazioni. Chi non è ossessionato dalla miseria dell’anonimato? E chi invece non è malato di conformismo (Zelig)? La quotidianità è devastata da ansie, punizioni e autopunizioni. Dai disagi ereditati dai «maestri della drammaturgia dell’angoscia» (E. Girlanda, A. Tella, Woody Allen, L’Unità/Il Castoro 1995). Shakespeare, Čechov, Ibsen e O’ Neill. Qui s’innesta la seconda condizione: vivere il più a lungo possibile in compagnia dei sogni, con in tasca ogni genere di fantasia, e fermarsi naturalmente sull’orlo del precipizio della follia. La felicità sarà il ricordo d’esser stati felici, la possibilità di esserlo ancora o per la prima volta. Oppure, come direbbe Mark Twain, un minuto di libertà dall’infelicità.
Midnight in Paris è un gioiello d’arte. Potrebbe sorprendere la definizione di film (o commedia) inclassificabile, dalla trama labirintica, come Il Trovatore di Verdi. È un cerchio magico che parte e si conclude sulle note di Si tu vois ma Mère di Sidney Bechet (1952). È dai tempi della Dea dell’amore, con musica di Vassilis Tsitsanis, passando per Match Point, con Enrico Caruso che canta Una furtiva lagrima, che non si vedeva un inizio così. Gil è un giovane americano, innamorato della Parigi degli anni Venti, scrittore mancato, ingenuo e sognatore. Ma, una volta a Parigi, grazie ad alcuni misteriosi viaggi nel passato, si rende conto che l’amore per il tempo che fu nasconde l’insoddisfazione per il presente. La miccia l’accende Adriana, una donna che lo attrae terribilmente, ex amante di Modigliani, Braque e Picasso, che sceglie di vivere nella Parigi della Belle Époque, quella di Toulouse-Lautrec, Degas e Gaugin – i quali però preferirebbero a loro volta popolare un’altra epoca: il Rinascimento. Sorpreso ma padrone del gioco, Gil deciderà di rimanere ancorato al Terzo millennio. Ovviamente rovescerà la propria vita; deluso dalla relazione con Inez, promessa sposa americana, cercherà un nuovo amore nel rapporto con un ragazza che vende oggetti d’epoca: una parigina, che sembra uscita dal suo unico e incompiuto romanzo.
Questa la magia: la svolta nell’esistenza (o metamorfosi); e questi gli altri temi alleniani: la contaminazione tra arte e vita e la rilevanza dei sogni. E poi, quell’altrove, che è al tempo stesso altra età e altro luogo. O altro giudizio. Attraversa la mente un film che precede di quasi dieci anni Midnight in Paris, cioè Hollywood Ending. La Francia ne è protagonista occulta: lì i giudizi vengono capovolti, il nero sarà il bianco e il bianco sarà il nero. Ecco, lì tutto è diverso: «Qui sono un poveraccio, ma laggiù… un genio», dirà Val/Woody, regista newyorkese alla fine delle sue disavventure: una profonda crisi, più umana che professionale, una cecità come parentesi «metaforica», poi finalmente la dovuta pace con i propri «demoni». Come ogni fiaba che si rispetti, il film si concluderà con un vissero felici e contenti. Con un viaggio nella terra promessa. Parigi. E attraverso un viaggio tra Camus e Kafka, sul quale finirà per non farsi troppe domande, Gil salverà la propria anima e sfuggirà al proprio destino di autore al servizio del mercato cinematografico. Le notti immerse nell’irrealtà di casa Cocteau o con Dalì e Man Ray, cioè la dimensione-sogno, riempiono la realtà di Gil non di altre improbabili fantasie (si stava meglio prima con varianti a volontà), ma lo spingono verso scelte rivoluzionarie. Paradosso (perché Allen è genio del paradosso): non sarà Luis Buñuel a cambiare la sua vita, in senso strettamente professionale, ma sarà lui a cambiarla a Buñuel. Suggerendogli, quasi per gioco, la trama dell’Angelo sterminatore. Mentre sarà Hemingway a cambiare la vita di Gil: da straordinaria maschera di collezionista d’esperienze, più da uomo che da prosatore, consigliandogli di non fidarsi di Inez.
Midnight in Paris è una poesia recitata con linguaggio multiplo. Esempio eterodosso di assolutizzazione ma non di estremizzazione della vita, attraverso l’esempio salvifico (in terra) di una manciata di artisti. Il riassunto sta nella frase di Gertrude Stein: «Compito dell’artista non è di soccombere alla disperazione ma di trovare un antidoto per la futilità dell’esistenza». E compito dei personaggi creati dall’artista è sperimentarlo. Ma il film cattura un’altra interpretazione. Non si vive nel passato, dice Allen. E non si vive di passato. Le alternative? Follia e insoddisfazione. Chi vive di passato trascorre la vita accumulando pagine su pagine senza alcun risultato. Ciò che passa per la mente mentre vedi Alice, capolavoro del 1990, fase finale del periodo farrowiano (da Una commedia sexy in una notte di mezza estate a Mariti e mogli), è una frase precisa: questo benedetto passato deve passare! Parole che s’incrociano e accoppiano alla frase che Alice/Mia ripete in continuazione: sono sposata da sedici anni! Per convincere chi? Se stessa, del passare del tempo. O forse per ripassare a memoria ciò che conta davvero: una vita luccicante. Un appartamento in Upper East Side New York, un buon matrimonio e due figli. E poi: le amicizie, le acconciature e il lettino del massaggiatore. Ma conta per la falsa Alice, per le maschere che celano le sue potenzialità. È naturale: per uccidere, o semplicemente riscrivere, il passato e sanare le ferite serve aiuto. Questa volta è un tipo venuto da chissà dove, un cinese specializzato in medicina alternativa: è il dottor Yang (il contrasto per eccellenza), che non c’entra nulla con l’Occidente che conosciamo. Quello oltre le finestre. Guardiamo Allen così: critico della contemporaneità, mesto cantore delle crisi personali del ceto borghese, quello benestante, modaiolo, con ottime scuole e discreto successo.
Il più bergmaniano tra gli americani universalizza e deintellettualizza negli esiti le proprie insicurezze, in tempi e luoghi nei quali il bisogno non è fonte di schiavitù. Nei quali c’è uno strano fenomeno chiamato tirannia del tempo libero. Che farsene? È lì che il passato si ripresenta uguale a se stesso. Ma è nei momenti apparentemente insignificanti che il destino si prende la briga di bussare alla porta – il che poi, naturalmente, è in uno con la capacità di sognare, con la parte segreta della nostra personalità, che crea e riconosce il valore di un altrove. Di qualunque sostanza sia fatto. Siamo alle solite. Yang è una specie di stregone – un medicine-man – e somministra delle erbe ad Alice, romantica (come Gil), cattolica e perbenista. Le strane medicine, che danno pure l’invisibilità, sgretolano le sovrastrutture, risvegliano la creatività e riscrivono il passato. Anzi, se ne servono. Alice aveva solo l’illusione della felicità. Era il prodotto della sua stessa insincerità: la brava moglie di un uomo ricco. La sua blanda religiosità era il mastice di un ambiente fanatico e incomprensibile. Quando Yang se ne ritornerà in Tibet, avendo concluso la sua prodigiosa missione, Alice deciderà di seguire Madre Teresa di Calcutta in India. La sola ragione per cui una religione ha senso è aiutare poveri e bisognosi, per pietà o per giustizia. Tornerà trasformata e in armonia con se stessa.
Credo però di aver imparato a distinguere un Allen ottimista da uno pessimista. Forse è l’esito del suo agnosticismo, dell’assenza di una relazione tra cielo e terra. Per chi non naviga in acque tranquille, difficile immaginare un futuro diverso. Si fantastica, d’accordo, ma il finale non sarà confortante. Le illusioni seducono, ma chi può davvero cambiare il presente? È l’Allen sfiduciato, quello tentato dalla politica. A suo modo, naturalmente, cioè da libertario e anarchico con le spalle coperte. La rosa purpurea del Cairo non è Midnight in Paris. L’ambientazione dovrebbe far riflettere: il New Jersey nel periodo della Grande Depressione. Cecilia è una cameriera innamorata dei divi di Hollywood – altra fissazione di Allen –, suo marito è un operaio disoccupato. Per lei niente letteratura, né poeti, né agopuntori, ma i miti in carne e ossa della settima arte. Diretta, eccitante, apparentemente immediata, la più insincera tra le arti. «Troppa realtà non è quello che vuole il pubblico» (Stardust Memories). Gli attori sono egocentrici, le storie vuote con manichini in smoking e telefoni bianchi a portata di mano. Un Occidente povero, che costruisce un mondo irrimediabilmente artificiale. È la legge della compensazione. Anche qui accade qualcosa di inconsueto. Tom Baxter è un esploratore che ama l’Egitto, ennesimo altrove. È la piccola star di un film che affascina, diverte e distrae i lavoratori. Il quinto giorno di programmazione, uscirà dallo schermo per far coppia con Cecilia, nella vita reale. Ne verrà fuori una mezza rivoluzione. Interverrà perfino Gil Shepherd, che indossa i panni di Tom. La romantica Cecilia potrà scegliere tra due uomini, in apparenza identici: Tom, essenza della perfezione ma creazione dell’immaginario, e Shepherd, vero ma inaffidabile. Naturalmente opterà per il secondo, cioè quello reale. Ma rimarrà immediatamente delusa. Sarà quella sua miserabile esistenza a non lasciarle alternative.
La rosa si concluderà così com’era iniziata, con la voce di Fred Astaire e il primo piano di Cecilia/Mia. Al cinema con aria sognante. Ultimo messaggio in controtendenza: i sogni – come via di fuga – sono il termometro della felicità. Come i peggiori nemici. O li catturi e te ne servi o saranno loro a conquistare te.