La vergine dei pavoni nei territori del diavolo
Silvio Raffo
Nell’esplorazione della no man’s land americana – quel consistente lembo di America del Sud che trova nella wilderness la propria connotazione più specifica ma resta comunque una nebulosa difficilmente definibile – ci si imbatte in personaggi atipici e sulfurei, “imperdonabili” per la loro geniale stravaganza e l’irriducibile coerenza con la propria diversità – personaggi senz’altro controcorrente rispetto a quelle che sono le norme del moralismo statunitense contemporaneo. La diversità sconcertante di cui stiamo parlando è una qualità eminentemente femminile. Una scrittrice, quando si discosta dai canoni della letteratura (e dell’etica) corrente, lo fa con effetti più devastanti di quelli prodotti da uno scrittore, e suscita più scandalo. Un caso del genere è Flannery O’ Connor, nata nel 1925 a Savannah, in Georgia, da una famiglia di ceppo irlandese rigidamente cattolico, che eredita dal padre una malattia incurabile, il lupus eritematoso, e vive tutta la sua breve esistenza (eccezion fatta per l’anno di studio alla State University of Jowa e un breve periodo newyorchese) in compagnia dell’amatissima madre in una fattoria dall’esotico nome di Andalusia, situata a quattro miglia da Milledgeville: cinquecento acri di campi e mille di bosco.
Gli eventi essenziali della vita di Flannery sono così riassumibili: a cinque anni, insegna a un pollo a camminare all’indietro, guadagnandosi per questo una certa notorietà, a venticinque le diagnosticano un’artrite reumatoide, che poco più tardi si rivela lupus, dal ventisettesimo si dedica all’allevamento di pavoni (gli esseri viventi con cui ha il rapporto più felice e creativo); i due esponenti della specie maschile con cui ha un inizio di legame – ovviamente solo platonico – si dissolvono con la rapidità di un lampo: il primo, John Sullivan, si fa prete; il secondo, il danese Erik Langkjaer, fa ritorno in patria (e qui prende moglie) pochi mesi dopo averla conosciuta.
La vita (o, se si preferisce, la non-vita) di Flannery O’ Connor è totalmente consacrata alla scrittura. In modo non dissimile dall’altra grande solitaria del Massachussets, Emily Dickinson, che all’ex-sistere aveva sostituito l’Essere nelle forme della poesia (iniziando a scrivere proprio intorno al 1850), Flannery demanda alla scrittura in prosa la medesima funzione sostitutiva. Il suo primo romanzo, La saggezza nel sangue, viene scritto nel 1951 e pubblicato l’anno successivo. Incredibilmente, ottiene discrete recensioni (Thomas Merton la paragona a Sofocle, Evelyn Waugh si proclama incredulo che «cose del genere siano state scritte da una signorina») e la solitudine della “fortezza” che Flannery è destinata a presidiare per sempre non le impedisce di stringere solidi rapporti con critici, editori, poeti e intellettuali (come Ashley Brown, Caroline Gordon, Cecil Dawkins, Elisabeth Bishop – che però ha “paura” di andare a farle visita –, Catherine Carver e il gesuita padre McCown, con cui intreccia una fitta corrispondenza epistolare), né di tenere conferenze e corsi di scrittura, quando le condizioni di salute glielo permettono. Singolare, e per noi di particolare interesse, il legame d’amicizia con Omar Pound, figlio di Ezra Pound e Dorothy Shakespear, spesso citato nel carteggio che ha visto la luce di recente nella bellissima traduzione di Ottavio Fatica.
Ciò che in Flannery sgomenta il lettore – e lo studioso di letteratura – è il crudo realismo dello stile nonché l’agghiacciante e impietoso sguardo sulla «tremenda evoluzione del male» che pare essere l’unica realtà verificabile «nel territorio del diavolo» (il pianeta che abitiamo, lasciato da Dio in preda del maligno), visione non certo in sintonia coll’ottimismo delle “magnifiche sorti e progressive” in auge negli USA di quegli anni – ma non solo.
È Flannery stessa a teorizzare la fisionomia dello scrittore-artista: «Base dell’arte è la verità, nella sostanza come nella forma. Chi nella propria opera persegua l’arte, persegue la verità, in senso immaginativo, né più né meno… I materiali dello scrittore di narrativa devono essere i più umili. La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, quindi se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentar di scrivere narrativa; non è cosa abbastanza nobile per voi… Per Conrad lo scopo dell’arte letteraria consisteva nel rendere il più alto grado possibile di giustizia all’universo visibile». La narrativa, insomma, è un’arte che richiede anzitutto una precisissima “attenzione” al reale.
E il reale è l’orrore. L’unica forza quotidianamente attestabile nel suo incessante progredire è il male: «Il senso morale del diavolo coincide punto per punto con il suo senso drammatico». In Flannery O’Connor si percepisce tangibilmente, come attraverso un manometro, quanto la malattia incida sul suo modo peculiare di sentire e di scrivere. La malattia è la sua scuola di vita nella perenne anticamera della morte, il suo radar pulsante nel deserto, il suo segreto elisir e l’unico referente possibile: «Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, ed è un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno può seguirti. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa si perde una benedizione del Signore». Quando nomina Dio, peraltro, il suo tono non è mai ironico, giacché la religiosità di Flannery è qualcosa di radicalmente congenito al suo temperamento, così come la sua fede è il sostegno più incrollabile. Una fede intransigente che la induce a criticare in termini molto duri quei «cattolici di un certo genere sono tanto disgustosi, è perché in realtà non hanno fede, ma solo una specie di falsa e voluta certezza. Fanno sempre quadrare i conti, per loro la Chiesa non è il corpo di Cristo ma il sistema assicurativo del poveraccio».
Proprio il binomio fra dimensione religiosa e violenza è la cifra distintiva della poetica o’connoriana. Non esiste altro caso letterario (nemmeno Faulkner) in cui la ferocia sia tanto strettamente congiunta all’anelito al divino. Tutte le storie di Flannery registrano con impietosa minuzia il trionfare del male e insieme il misterioso lavoro di bulino esercitato dal bisturi di un Dio indecifrabile, che sembra aver abbandonato l’uomo perché questo ultimo non vive più nel mondo da Lui creato ma in un altro, «nel territorio» appunto «del diavolo». Ci troviamo allora di fronte a un caso di letteratura anagogico-moralistica, veterotestamentaria e bigotta? Assolutamente no: la scrittura di Flannery è quanto di più lontano si possa immaginare dal moralismo o da un moraleggiare didascalico. Qui c’è solo dinamite in attesa di esplodere, di pagina in pagina, con quell’effetto di disorientante annientamento e paralisi, che coglie inevitabilmente chi si è avventurato in quel diabolico groviglio-labirinto che è un romanzo, o un racconto, di questo genio in stampelle che chiamava il proprio corpo «struttura ad archi rampanti». Il tragico e il grottesco sono le sole note della sua tastiera.
Nel racconto Un brav’uomo chi lo trova?, una famigliola borghese in viaggio per le vacanze viene sterminata da un terzetto di delinquenti (argomento che interessa la O’Connor quanto la malattia e la follia, tutto il resto è noia): lo sterminio avviene in un bosco molto simile a quello di Milledgeville, ed è la nonna ad avere il colloquio più lungo con l’assassino, un evaso dal divertente soprannome di “Lo Sbagliato”: nella sua fede ferrea e meravigliosamente ingenua, lei gli parla di Gesù e lo chiama suo “bambino”, facendo di tutto per salvargli l’anima, e il mostro, che un attimo prima sembrava sul punto di piangere, dopo averla freddata con tre colpi di pistola, risponde alla battuta dell’altro mostro («Che divertimento!»): «Zitto, Bobby Lee: non c’è vero piacere, nella vita».
L’opera dello Spirito Santo è in effetti molto, molto misteriosa: il racconto Malattia mortale ha per protagonista un giovane venticinquenne gravemente malato che torna nel paese natio con la precisa convinzione di morirvi, e sarà invece condannato a sopravvivere asfissiato da una madre incapace d’amore e da una sorella perfida: «Lo Spirito Santo, cinto di ghiaccio anziché di fuoco, proseguì, implacabile, la sua discesa».
Le parabole di Flannery sono percorse da un soffio di delirante messianesimo, la colpa e la redenzione, il peccato e la grazia intrecciano balletti sconnessi ed emettono balbettii strozzati in una geenna fosforescente di sinistri bagliori: sono le stesse laceranti contraddizioni camuffate dalla maschera dell’american way of life. Nessun tormento è risparmiato ai suoi personaggi miserabili e sublimi: si tratti di vincitori o vinti (ma di quale vittoria, di quale debacle?), predicatori folli (del genere del protagonista del film di Laughton La morte corre sul fiume), centenari in preda a deliri di onnipotenza, giovani maliziose e malvagie o garzoni mentecatti. Il cielo è dei violenti, recita il titolo di un suo romanzo. Significa forse che la conquista del Paradiso impone non tanto la sottomissione alla volontà di Dio quanto la feroce determinazione e la spietatezza nei confronti di se stessi e degli altri, perché, come sostiene l’“Anna dei miracoli” di William Gibson, «il vero peccato originale è la rinuncia»: andare fino in fondo, consumarsi e bruciare è il vangelo di Flannery. Il suo stile acuminato e incandescente rimanda a un eccezionale e misconosciuto narratore australiano, Patrick White, Premio Nobel 1975, e alla sua più vicina consorella Carson McCullers, altra bad girl della stessa waste land, altra sdegnosa damigella del disagio e dell’incubo americano. Qualcuno potrebbe vedere in lei anche un’anticipatrice del mood Alice Munro (ma Flannery è over e beyond, più su e oltre).
Un giorno di giugno del 1963, due mesi prima che le sia diagnosticata quell’anemia che le sarà fatale, è il più felice della vita di Flannery: riesce a contare quattordici dei suoi quaranta pavoni che fanno contemporaneamente la ruota. Per gioco ripassa mentalmente i titoli dei suoi racconti e si ferma al quattordicesimo: La vita che salvi può essere la tua (il titolo era stato mutuato da una frase di James Dean rivolta al suo compagno in automobile: «Guida piano, la vita che salvi potrebbe essere la mia»); si domanda se potrà ancora scriverne altrettanti. Si rammarica di non aver accondisceso alla richiesta di Rose Hawthorne (figlia dell’illustre scrittore e direttrice di una congregazione di suore domenicane) di romanzare la biografia di una bambina dal volto sfigurato (come il suo) morta a undici anni, di nome Mary Ann: avrebbe potuto essere, pensa, il suo capolavoro.
Di racconti riuscirà a scriverne solo altri due, La schiena di Parker e Il giorno del giudizio; l’incipit di quest’ultimo recita: «Tanner conservava tutte le sue forze per il ritorno a casa». Esattamente come lei, martire in due sensi – letterariamente e umanamente – così docile nei confronti del tumore che si aggiungerà al lupus da riservargli una altrettanto benevola accoglienza, poiché la saggezza più profonda è quella del sangue più malato, e se chi porta la croce riesce ad arrivare in cima al calvario con le proprie forze, senza inutili lamenti, l’essere-per-morire si ribalta in morire-per-Essere. Provare per credere.
Lei, la vergine dei pavoni, ci è riuscita. Dal 3 agosto 1964, è una costellazione letteraria nel cielo dei violenti.