
Applicata al gioco del calcio, la parola tremendismo viene introdotta da Giovanni Arpino nei primi anni Settanta per indicare «una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai vinta, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango». Il giornalista-scrittore torinese conia il termine dopo aver visto la squadra granata riaffacciarsi ai piani alti del calcio italiano. Il percorso inizia il 4 maggio 1949, quando il disastro aereo di Superga si porta via il Grande Torino, consegnando capitan Valentino Mazzola e compagni all’immortalità.
La realtà, trasformata all’improvviso in incubo, porta il Torino a vivere stagioni anonime fino alla retrocessione in serie B nel ’59 e in quell’estate il ventenne Giorgio Ferrini esordisce in prima squadra, dopo la trafila nelle giovanili. Il Toro ha toccato il fondo e Giorgio sente che quella maglia può essere indossata solo con tutta la passione necessaria per ripagare, almeno in parte, una tifoseria orfana dei suoi eroi.
Il Toro torna subito nella massima serie e Ferrini è già un leader con cui dovranno confrontarsi tutti quelli che passeranno dal Filadelfia, la sede degli allenamenti e già casa del Grande Torino, nei successivi tre lustri. Giorgio non è un tipo adatto a subire e lo si vede ai Mondiali di Cile ’62, in cui è protagonista della “Battaglia di Santiago”, dove nel match contro i padroni di casa viene espulso per un fallo violento e si rifiuta di lasciare il campo, fino all’intervento della polizia. Anche il fuoriclasse bianconero Omar Sivori scoprirà che è meglio non provocare Ferrini, dopo essere stato preso a calci nel sedere in una rissa da derby.
Nell’epoca in cui si forma lo zoccolo duro del tremendismo granata, con il Torino guidato da Capitan Ferrini, con i vari Agroppi, Cereser e Fossati, passa nel capoluogo piemontese anche Gigi Meroni, l’estroso numero sette poi idolo della tifoseria. Nell’ottobre ’67, quando Gigi è pronto a consacrarsi e riportare il Toro alla vittoria, viene investito nel centro città, andandosene a soli ventiquattro anni, diventando così un’altra cicatrice del martoriato cuore granata.
Il dolore inizia a trasformarsi in riscossa quando, nel 1971, il presidente Pianelli sceglie Gustavo Giagnoni come allenatore del Torino: la risalita verso il paradiso sembra prendere quota. Il mister ci mette poco a innamorarsi del Toro in maniera viscerale, anche perché si ritrova come capitano il già citato Ferrini. In quegli inverni piemontesi, Giagnoni non si separa mai dal suo colbacco e più che un sardo di Olbia sembra un ufficiale dell’Armata Rossa. Dopo aver realizzato che il copricapo porta bene, lo indosserà, per scaramanzia, anche a temperature più elevate, diventando così “l’allenatore col colbacco”.
Nel campionato ’71-’72 il Toro si avvicina al sogno tricolore per la prima volta nel post-Superga, ma è la Juventus a portarsi a casa l’ennesimo scudetto, con Torino e Milan staccati solo di un punto. Anche se nelle successive stagioni non riuscirà più ad insidiare l’ordine costituito, il mister entrerà comunque di diritto nella mitologia tremendista, compreso un suo cazzotto rifilato a Franco Causio durante un infuocato derby della Mole nel dicembre ’73.
Nel frattempo, cresciuto sotto l’ala protettrice del Capitano, l’attaccante Paolo Pulici prende definitivamente i gradi di braccio armato del tremendismo granata. Quando Pupi attacca lo spazio verso la porta avversaria, con o senza palla al piede, è la cosa più simile a un toro scatenato che si possa vedere su un campo di calcio.
Nel 1975, per Ferrini è il momento di lasciare il calcio giocato. Il Toro non lo lascia di certo, però. Per lui è tempo di trasferire tutta la passione ed esperienza in un altro ruolo. Sarà il vice di Luigi Radice, tecnico emergente appena arrivato a Torino. Giorgio è la guida per i ragazzi che ha visto crescere come Pulici, Graziani, il nuovo capitano Claudio Sala e il fantasista Zaccarelli. Dalla panchina si godrà i frutti della semina, raccolti nella giornata di redenzione del 16 maggio 1976, in cui il Torino è campione d’Italia, dopo ventisette anni di attesa. Giorgio Ferrini se ne andrà nel novembre dello stesso anno, colpito da un malore, restando per sempre la personificazione del tremendismo granata.
Nella sua definizione, Arpino svela di aver preso il vocabolo «dal gergo sportivo sudamericano». Pensando a quella zona, la tipica garra charrúa dell’Uruguay è un ottimo esempio di tremendismo. Tradotto dallo spagnolo, garra significa “artiglio”, mentre i charrúa erano gli indios che abitavano le terre attraversate dal Rio de la Plata. L’unione di queste due parole sarebbe divenuta il marchio di fabbrica del Paese in questione.
Il mondo si accorge dell’esistenza dell’Uruguay alle Olimpiadi di Parigi del 1924, quando i giocatori sudamericani sbarcano nel Vecchio Continente da autentici sconosciuti. Durante il primo allenamento in terra francese, gli uruguagi fingono di essere degli incompetenti nel giocare a fútbol e gli osservatori, mandati dalle nazionali avversarie, se ne vanno convinti di aver a che fare con dei turisti in vacanza. Quando il gioco si fa serio, però, smettono di scherzare e battono la Jugoslavia per 7-0 al primo turno, per poi andare a vincere il torneo.
Quella squadra è capitanata dal difensore José Nasazzi, di professione tagliatore di lastre di marmo e soprannominato El Mariscal, il maresciallo: sarà lui a dare il via alla stirpe dei Caudillos dell’Uruguay, i leader e massimi esponenti della garra charrúa. Il modo di giocare della “Celeste”, tuttora in vita e in piena salute, nasce proprio da Capitan Nasazzi. L’Uruguay si ripete alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928, battendo l’Argentina in finale.
Nel 1930 c’è il primo mondiale organizzato dalla FIFA, che si tiene proprio in Uruguay. Il 30 luglio, allo Stadio Centenario di Montevideo, la finale è ancora una volta tra le due superpotenze del Sud America. La tensione nell’aria è così alta che si fatica a trovare un fischietto disposto ad arbitrare la “Battaglia del Rio de la Plata”: alla fine è il belga John Langenus ad accettare l’arduo incarico, due ore prima dell’inizio del match, in cambio di una polizza assicurativa sulla vita e la garanzia di essere accompagnato, subito dopo il fischio finale, al porto di Montevideo per salpare con la prima nave in partenza per l’Europa.
Nonostante la tecnica sopraffina dell’“Albiceleste”, l’Uruguay vince per 4-2. Il quarto gol della “Celeste” è siglato dall’attaccante Hector Castro, monco dall’età di tredici anni quando, lavorando come falegname, perse la mano destra. Malgrado la menomazione fisica, la sua abnegazione e il suo talento avrebbero portato alla trasformazione del suo soprannome da El Manco a El Manco Divino. Con il titolo di campione del mondo, il piccolo Uruguay è finalmente sulla mappa: per dirla con Eduardo Galeano, «non era più un errore. Il calcio aveva strappato questo minuscolo Paese dall’ombra dell’anonimato universale».
Due decenni dopo, il mondo sente parlare ancora di Uruguay, in modo più fragoroso. Nel mondiale brasiliano del 1950, i padroni di casa sono i favoriti assoluti e, dopo il primo turno, la fase finale del torneo prevede un girone di quattro squadre, che sono Brasile, Uruguay, Svezia e Spagna. Nell’ultima partita, ai verdeoro basta un solo pareggio contro gli uruguagi, che invece devono vincere. Il capitano della “Celeste” è Obdulio Varela, un autentico Caudillo discendente di Nasazzi, già fautore di uno sciopero per far ottenere lo status di professionisti a tutti i calciatori rioplatensi.
Il 16 luglio, a Rio De Janeiro va in scena la partita con più spettatori della storia del calcio, in un Maracanà traboccante di oltre duecentomila persone, pronte a festeggiare il primo titolo mondiale – come alcuni giornali brasiliani, che proclamano la vittoria addirittura prima del match, snobbando il piccolo Uruguay. Capitan Varela, conscio di una presenza sugli spalti che può schiacciare chiunque, prima di entrare in campo dice ai compagni: «Los de afuera son de palo», quelli là fuori non esistono. A inizio secondo tempo il Brasile va in vantaggio con il gol di Friaça, tra l’estasi della folla, ma dopo una ventina di minuti arriva il pareggio di Schiaffino. La squadra di casa non gestisce il risultato, si spinge in avanti alla ricerca del raddoppio e qui arriva la sentenza della “Celeste” in contropiede, con il 2-1 di Ghiggia che gela il Maracanà. Quella partita passerà alla storia con il nome di “Maracanazo”, uno tra i peggiori incubi nell’immaginario collettivo del popolo brasiliano.
«Era tutto previsto, tranne il trionfo dell’Uruguay», avrebbe dichiarato il presidente della FIFA Jules Rimet.
Arrivando ai giorni nostri, l’Uruguay continua la tradizione dei Caudillos con Diego Godin, capitano anche dell’Atletico Madrid. Proprio l’Atletico, abituato come il Torino e l’Uruguay a combattere con avversari troppo ingombranti presenti sullo stesso territorio. I colchoneros sono tornati alla ribalta del calcio continentale con l’avvento di Diego Pablo Simeone, un leader nato, che già da calciatore trasudava carisma con le maglie di Atletico, Inter, Lazio e nazionale argentina.
Il Cholo sbarca a Madrid a metà stagione 2011-2012, con i biancorossi impantanati a centro classifica, e dà il via alla risalita, portando i suoi alla conquista dell’Europa League, con la successiva vittoria della Supercoppa Europea contro i campioni continentali del Chelsea. La scalata è appena iniziata perché l’Atletico ha sempre più fame e, nel 2013, raggiunge la qualificazione alla Champions League, unita alla conquista della Coppa del Re, in un derby di Madrid risolto ai supplementari, proprio al Santiago Bernabeu, cattedrale dei rivali merengues.
La stagione 2013-2014 si apre con la cessione del bomber Falcao, ma il gruppo formato da Gabi, Juanfran, Godin, Koke, Raul Garcia e Diego Costa è più compatto che mai nel seguire il proprio condottiero. Tra gli sfavori del pronostico, uno spettro inizia ad aggirarsi per l’Europa calcistica.
La vittoria nella Liga manca dal 1996, mentre la Coppa dei Campioni non è mai arrivata – solo una finale, quella del 1974, sfumata contro il Bayern Monaco, che allo scadere dei supplementari siglava il pareggio, condannando i colchoneros alla ripetizione della partita, dato che all’epoca non erano previsti i calci di rigore. La sentenza senza appello veniva eseguita dai bavaresi due giorni dopo, con un sonoro 4-0.
Quarant’anni dopo, l’Atletico torna protagonista con un calcio votato al sacrificio e al contropiede, senza orpelli, proprio nell’epoca del tiki-taka come simbolo del dominio di Barcellona tra i club e della Spagna tra le nazionali. La voce fuori dal coro verrà chiamata cholismo.
Nei quarti di finale della Champions, gli uomini di Simeone eliminano proprio i blaugrana, per poi raggiungere la finale tanto attesa. Per decidere chi si aggiudicherà il trono d’Europa è in programma uno storico derby di Madrid. Intanto il club biancorosso si laurea campione di Spagna dopo diciotto anni, a coronamento di un percorso straordinario. Manca solo la ciliegina sulla torta, da mettere a Lisbona contro i cugini che vogliono la Decima. Ancora, allo scadere, i colchoneros si faranno acciuffare da un’incornata di Sergio Ramos, che manderà il match ai supplementari, in cui il Real dilagherà, portandosi a casa la Coppa.
Nelle successive stagioni cambiano alcuni uomini, ma lo spirito no, e nel 2016 l’Atletico raggiunge un’altra finale tra gli sfavori del pronostico, dopo aver superato corazzate come Barcellona e Bayern Monaco. Nell’epilogo di San Siro, però, c’è ancora un fantasma bianco a sbarrare la strada verso il sogno, stavolta ai rigori. Le lacrime del Niño Fernando Torres, figlio dell’Atletismo, sono il simbolo di quella serata in cui la bacheca del Real Madrid si arricchisce per l’undicesima volta dell’ambita coppa, mentre quella dell’Atletico rimane a secco.
Ora l’attacco è composto dal campione del mondo Griezmann e Diego Costa, tornato a casa dopo anonime stagioni in Inghilterra. Di quest’ultimo va ricordata la rete che ha salvato la finale di Supercoppa Europea 2018, invertendo per la prima volta l’esito di una sfida continentale contro i cugini blancos. Forse un segnale, chissà. In ogni caso, continua il cammino del cholismo verso l’utopia.
Come direbbe Óscar Washington Tabárez, ct dell’Uruguay che ha appena prolungato il suo contratto di altri quattro anni, nonostante una grave malattia stia debilitando il suo corpo, più che la vittoria, «il cammino è la ricompensa».