
Cosa rappresenta il calcio per l’Italia? Com’è cambiato il rapporto degli italiani con questo fenomeno – chiamarlo sport sarebbe riduttivo – negli ultimi trent’anni? Che identità ha assunto il calcio italiano e come si rapporta oggi, in chiave culturale, ad altri modelli? Sono questioni che, per linee generali, ha posto più volte, tra gli altri, il critico letterario Massimo Raffaeli: «In Italia il calcio è tutto e troppo, non ha limiti». La sintesi del pensiero di Raffaeli sottintende l’incapacità del calcio di lasciarsi raccontare: «Non si lascia racchiudere in una forma, tanto meno in quella del romanzo. Quello che ha forma è ciò che ha limite. Credo che il calcio non abbia molti limiti, e questo è uno dei motivi per cui non esiste un grande romanzo che racconti questo paese attraverso il calcio. In Italia, l’unico romanzo che ha tentato di raccontare questo paese attraverso il football è L’allenatore di Salvatore Bruno. Ma […] è più che altro un ritratto dell’artista da tifoso. Non esiste una grande allegoria che racconti il calcio, che è un fenomeno che invade tutto e a tutte le ore del giorno. Certo, ci sono dei libri specifici, tecnici, delle trasmissioni televisive. Ce ne sono troppe. Il problema è la critica: non esiste né un libro, né una trasmissione che si ponga la domanda “cosa rappresenta il calcio per questo Paese?”. Una religione? Un’ideologia? Manca questo approccio, manca la risposta a questo tipo di domanda».
È dall’assenza di questa risposta che bisogna partire per cercare radici. L’assenza di risposte, di pensiero critico, è spesso indicativa: si tenta di “risolvere i problemi di casa nostra” guardando in casa altrui. Le squadre italiane non riescono più a ritagliarsi un loro spazio nel gotha del calcio internazionale, nessuna avrebbe – a dire degli esperti – un gioco appetibile come le squadre spagnole, né stadi pieni come quelli tedeschi o inglesi, né tanto meno fatturati come i club inglesi. Si guarda a modelli altrui, presi ad esempio come se dall’estero si dovesse solo copiare.
Del cosiddetto modello inglese viene ripetutamente considerato il sistema repressivo attuato nel corso degli anni Ottanta dal governo Thatcher per contrastare il fenomeno hooligans, che ha consentito all’Inghilterra di avere stadi pieni, puliti e con spettatori tutti seduti (salvo poi assistere a manifestazioni violente e scontri tra tifosi in zone periferiche lontane dagli stadi). Ma dalla stessa Inghilterra l’Italia non prende ad esempio il modello di ripartizione dei diritti televisivi tra i club che ha fatto della Premier League probabilmente il campionato più ricco del mondo. In sintesi, nella stagione 2017-2018 il Manchester City, club che percepisce più di tutti gli altri i diritti tv, ha incassato centoquarantanove milioni di sterline; il West Bromwich Albion, quello che prende meno, ne ha incassati novantaquattro. Venti squadre racchiuse in una forbice di poco più di cinquanta milioni. Ne viene fuori un campionato imprevedibile, vinto nelle ultime sette stagioni tre volte dal Manchester City, due dal Chelsea, una dal Manchester United, una dal Leicester, squadra che nel 2016 ha vinto il titolo, con l’allenatore italiano Claudio Ranieri in panchina, ma che nella stagione precedente (2014-2015) era arrivata quattordicesima, evitando la retrocessione per soli sei punti. È, insomma, quell’effetto sorpresa che in Italia manca da un po’ e che ha ricordato a molti l’exploit del Verona, campione d’Italia nel 1984-1985.
Ma torniamo all’Italia. Mentre in Inghilterra veniva attuato quel sistema che già dalle premesse non precludeva un possibile effetto sorpresa – poi culminato appunto col titolo vinto dal Leicester –, da noi, per effetto della riforma Melandri, i ricavi televisivi per la stagione 2015-2016 riconoscevano complessivamente alla Juventus 103,1 milioni di euro. A seguire Milan (80,3), Inter (78,2), Roma (72,7) e Napoli (69,7). All’ultimo posto, con ventidue milioni, Carpi e Frosinone, “regolarmente” retrocesse alla fine di quel campionato, con Juventus campione d’Italia. Come accade ormai da sette anni. Ne emerge, per dirla con Walter Veltroni, «una classifica già scritta dalle televisioni prima che si giochi». Le cose dovrebbero cambiare leggermente con l’introduzione della riforma Lotti, che toglierebbe qualcosa ai ricchi per dare ai poveri: le differenze sarebbero ridimensionate nell’arco di sessanta milioni di euro tra chi, stando alle stime del 2017-2018, prende di più (la Juventus, novantun milioni) e chi meno (il Benevento, 36,5).
Resta il differente approccio. È un problema culturale, prima ancora che sportivo: l’Inghilterra ha privilegiato forme di pluralismo, l’Italia ha preferito forme di omologazione, con il tifo calcistico e relativi consumi orientati nell’ottanta per cento dei casi verso tre club, i più vincenti: Juventus, Inter e Milan. Ha attecchito poco, dalle nostre parti, il concetto di Support your local football team, prerogativa britannica che contrasta con la moda tipicamente italiana di snobbare le squadre locali poiché prive di blasone. Viviamo di paradossi: una squadra come il Sassuolo, seguita in Serie B da appena quattromila spettatori a partita (dati della stagione 2012-2013), ha triplicato i propri sostenitori una volta salita in Serie A. Parallelamente, il Novara, seguito in A da una media di undicimila spettatori, è sceso a cinquemila in B.
E dire che l’Italia, proprio relativamente al “blasone”, avrebbe da insegnare al resto del mondo. Per certi versi, infatti, si potrebbe considerare che le origini di una mentalità “tipicamente calcistica” risalgano addirittura al Medioevo. Parteggiare, dividersi in fazioni, schierarsi a difesa di un gonfalone, di una bandiera, di uno stendardo: ecco l’essenza del calcio. C’è molto della tradizione medievale, della contrapposizione tra guelfi e ghibellini e, sempre in riferimento all’eredità del Medioevo, a tutto il retaggio legato all’immaginario lasciato dai Comuni. Un nesso inscindibile tra calcio e Medioevo, d’altro canto, lo aveva già rilevato Gianni Brera, che nella sua monumentale Storia critica del calcio italiano fa risalire nientemeno che a quell’epoca le ragioni della preferenza e al tempo stesso dell’odio della maggior parte degli italiani per la Juventus: «La Juventus gioca bene, vince sempre e non è né lombarda né emiliana né veneta né toscana: appartiene a una regione che ha innervato l’esercito e la burocrazia nazionali; di quella regione, il capoluogo è stato anche capitale d’Italia. Nel Medioevo non esisteva se non come povero villaggio. Nessuna città periferica aveva contratto odi nei suoi confronti, all’epoca dei Comuni. Essa batteva ormai le decadenti squadre del Quadrilatero e offriva agli altri italiani la soddisfazione di umiliare le città che nel Medioevo avevano spadroneggiato: i romagnoli andavano in visibilio quando Bologna veniva mortificata dalla Juventus, così i lombardi di parte ghibellina come pavesi e comaschi quando le milanesi venivano battute in breccia, e ancora i lombardi che avevano squadre proprie, come i bergamaschi, bresciani e cremonesi, e le vedevano puntualmente vendicate dalla Juventus».
Senza tenere conto delle regole e delle leggi dello Stato, della Costituzione repubblicana, è nel Medioevo dei Comuni che una certa idea di calcio affonda le sue radici più autentiche. Proprio al Medioevo, peraltro, risalirebbero le origini della passione popolare per lo sport anche secondo lo storico e antropologo olandese Johan Huizinga, autore di Homo ludens: lo sport è secondo lui una reazione spontanea a un modello di modernità che cercava di emarginare il fattore ludico ed estetico dalla vita sociale. «Né il liberalismo, né il socialismo offrirono allo sport terreno favorevole» ha scritto. «La sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano era in un certo senso il frutto naturale del razionalismo e dell’utilitarismo, i quali avevano ucciso il mistero […]. Gli ideali di lavoro, di educazione e di democrazia lasciavano a malapena posto all’eterno principio del gioco». Non è dunque un caso se diverse tifoserie in Italia – gli interisti, i laziali, i genoani tra gli altri – si siano ispirate a motivi medievaleggianti per realizzare le proprie coreografie. E non è neanche un caso che la Fiorentina, perfino nel 2017, abbia deciso di realizzare quattro maglie oltre alla prima (viola), con i colori azzurro, bianco, rosso e verde. Sono i colori dei quartieri storici di Firenze, protagonisti sin dal tardo Medioevo del calcio storico fiorentino.
Anche la provincia è ricca di esempi di questo genere. La squadra di Lodi, per esempio, è intitolata a un condottiero, il cui nome è forse (anche se gli storici non sono concordi) Giovanni Bartolomeo Fanfulla: il Fanfulla, fondata come società di ginnastica e scherma nel 1874. Fanfulla da Lodi fu uno dei tredici cavalieri italiani che sconfissero i francesi nella battaglia di Barletta del 1503. Bianconeri, come impone lo scudo, quelli del Fanfulla hanno la terza divisa con maglia rossa crociata in campo giallo, pantaloncini neri. Ebbene, rossocrociata in campo giallo è la bandiera di Lodi.
C’è perfino una ragione per cui vale la pena considerare gli ultras un fenomeno prettamente italiano, quindi diverso da quello degli hooligans inglesi. La difesa del territorio, del gonfalone, gli schieramenti, sono riferimenti culturali che provengono dalla cultura dell’Italia comunale. Ha trovato un nesso tra questi elementi e gli istinti primordiali dell’uomo – istinti tribali, appunto – Desmond Morris nel suo Le tribù del calcio (1981). C’è un’idea di carnevale negli scontri tra bande giovanili di fine anni Settanta, nei volti colorati dei primi proto-ultras che nelle grandi città – Torino, Roma, Milano, Genova – mescolano gli stili: facce disegnate come indiani metropolitani, slogan simili a quelli del movimento del ’77; spuntano anche i passamontagna a coprire il volto, ma rigorosamente colorati: giallorossi, bianchi e viola, eccetera.
È un mondo quasi del tutto perduto. Nel frattempo, a livello di immaginario popolare, gli inglesi il pallone continuano a metterlo (quasi) dappertutto. Fior di fanzine dedicate alle culture musicali giovanili, catene di abbigliamento con riferimento al calcio, bassisti di gruppi rock che ostentano i simboli dei propri club con adesivi sugli strumenti, se non addirittura indossando esplicitamente t-shirt e maglie da gioco. Il calcio, in Inghilterra, è patrimonio culturale nazionale. Il cinema l’ha dimostrato. Molto altro, nello specifico, dimostra A football compendium. An expert guide to books, films & music of Association Football (1995). Il calcio, in Inghilterra, emerge anche dove lo spettatore non se lo aspetta, per esempio attraverso cartoni animati o generiche sitcom per ragazzi o famiglie. Così, perfino in Un uomo in casa c’è qualche riferimento al calcio e al modo di percepirlo tipicamente “local” degli inglesi. Si tratta di una sitcom britannica di genere comico prodotta tra il 1973 e il 1976, «in cui si vede realmente com’era l’Inghilterra degli anni Settanta», ha spiegato Alessandro Polenghi, esperto di calcio inglese e opinionista della trasmissione radiofonica C’era una volta O Rei. Il titolo inglese della sitcom è Man about the house, in Italia è andata in onda su Rai 2 a partire dal 1978. È la storia di tre personaggi – un uomo, Robin, e due donne, Chrissy e Jo – che condividono un appartamento. «Robin», ha notato Polenghi, «è tifoso del Southampton».
In Italia, gli sceneggiatori o i produttori di una fiction farebbero tifare i loro protagonisti per una squadra che non sia una delle solite note, una delle solite supponenti prime della classe?