Giovanni Arpino: dal crepuscolo alle tenebre del calcio
Alessandro Gaudio
Quali sono le strutture interne del gioco del calcio? A quali leggi di funzionamento obbediscono? A quale habitus si attiene, di volta in volta, chi gioca e chi racconta le prodezze di chi gioca? E qual è la posizione del campo da gioco nel campo del potere? Sembra che Giovanni Arpino − giornalista «attratto dalle cronache dello sport» a «La Stampa» e poi a «Il Giornale» di Indro Montanelli, nonché autore di poesie, favole, romanzi e scritti per il teatro − abbia voluto rispondere a tali quesiti con il suo Azzurro tenebra. L’opera è pubblicata da Einaudi nell’autunno del 1977, giusto quarant’anni fa, proprio mentre Carlo Casalegno viene ucciso a Torino dalle Brigate Rosse, e prende spunto dalle vicende della Nazionale italiana di calcio ai campionati del mondo del ’74, in Germania. La vicenda si consuma quasi interamente tra il ritiro di Ludwigsburg, «una casa di bambole molto ricche, molto viziose, molto cattive e dal truce destino»(1), e il Neckarstadion di Stoccarda, «spazio d’assurdità» (AT, p. 97).
In particolare, il racconto è generato dalla necessità di chiarire il rapporto simbolico di forze che si instaura tra ciò che si trova sul campo di calcio, su quello spazio d’assurdità, e ciò che è al suo esterno, secondo uno schema che Arpino aveva già individuato sin dalla fine degli anni Sessanta: il calcio − scriveva in un articolo intitolato Calcio, gioco e passione, pubblicato su «La Stampa» il 3 ottobre 1969 − è sì un mistero, ma non quello «agonistico» della definizione un po’ generica coniata da Gianni Brera e citata più volte da Arpino; è un mistero «che di volta in volta tira in ballo la politica, il costume, le abitudini, la civiltà raggiunta o non raggiunta da questo e quel popolo, questa e quella città»(2). Nel calcio, vero e proprio fenomeno autoevidente, tutto ciò è dato in modo esauriente e nulla − continua Arpino − è lasciato in ombra. E, forse proprio per tale ragione, raccontarlo «è diventato più difficile», perché raramente si riesce a distaccarsi «da determinati binari d’obbligo»(3). Senz’altro, non si tratta soltanto di un gioco, e Arpino lo chiarisce sin dalle prime pagine di Azzurro tenebra: «è guerra. è politica. Battaglia navale. Intrigo. Piantiamola con questa retorica sul gioco: diventa tale quando si perde. Quando si vince: petto in fuori, proclami, telegrammi del presidente della repubblica, croci di cavaliere. Se si va sotto, tutti a strillare: ma è solo sport, cosa pretendevate, affratelliamoci. Beh, il gioco è altro: i ministri giocano, i re dei re, che non si feriscono tra loro. Qui» conclude, rivolgendosi a Facchetti, «siete tra Caporetto e il Piave. E scegliere non è facile» (AT, p. 12).
Quel rapporto simbolico istituisce una rete di relazioni oggettive che, dunque, può anche tramutarsi in conflitto. Il tramite di tale conflitto − che riproduce e discute la credenza nel gioco, l’interesse e la posta in palio − è costituito dallo stesso Arpino (Arp, nella finzione letteraria). Ovviamente, trovandosi in questa posizione, Arp – insieme a Bibì, al secolo Bruno Bernardi, noto giornalista e deuteragonista del romanzo – riproduce e discute l’illusio, ma ne è anche uno dei prodotti. L’illusio è la condizione stessa del funzionamento di un gioco del quale è anche prodotto: così, Azzurro tenebra è il racconto della relazione complessa, interessata se si vuole, ma altresì discordante, che si instaura tra l’habitus, istituzione espressiva che racconta e rappresenta il gioco (che «è anche quello che non è», AT, p. 103), e il campo (quello sempre uguale, a Stoccarda, a Dublino a Kiev o a Zagabria), inteso come spazio delle disposizioni, principio di visione e divisione, nonché misura della realtà(4). La verità − assicura lo scrittore piemontese − è «quell’erba deserta», nera, con «quei fili compatti», bara «chiusa tra quattro strisce bianche» che rivolge al cielo «la sua faccia piatta uniforme, sicura d’essere capita» (AT, pp. 97-98). Il rettangolo d’erba si capovolge poi in una scacchiera, attanagliata dal «bruto orrore» del fallimento, per il Golden Boy, Gianni Rivera, dopo il pareggio con l’Argentina, «corridoio infernale» (AT, p. 104) e, prima e durante la fatale partita con la Polonia, «caleidoscopio impazzito e però familiare» (AT, p. 141), «boccia di vetro» (AT, p. 148) coperta di una «crosta d’odio» (AT, p. 153) che, al termine della gara, esplode e si spacca.
è quindi su questo campo, vero e tragico al contempo, che si manifesta e misura il principio della realtà. Arpino, dopo anni di pratica giornalistica, mostra di patire questo principio («Sono stufo di parole. Stufo marcio. Nuotiamo in un oceano di parole. Inquinato», AT, p. 202) ed è proprio per tale ragione che il suo romanzo diventa rappresentazione della distanza tra habitus e nomos, vale a dire quel principio di etichettatura, selezione e inquadramento cui ci si uniforma nel descrivere il gioco del calcio. Si fa rappresentazione dialettica, continuamente ridiscussa, di quella distanza, ma, pur prendendo coscienza della logica del gioco e dell’illusio, non riesce a sottrarsene. Almeno per il momento. E che sia così è un bene: altrimenti il racconto di essa la dissiperebbe o, comunque, la mistificherebbe. Il racconto c’è e, con esso, anche il dramma: ecco una delle qualità più pronunciate di Azzurro tenebra. Resta da chiedersi in che modo Arpino riesca a comprendere la logica del gioco: lo fa, rapportandosi tanto alla sua attività di cronista quanto all’oggetto della sua cronaca, mediante le armi fosche dell’ironia e del sarcasmo. Coglie per questa via la verità del calcio che, complessivamente, è di nuovo quella tenebra: la tenebra del campo da gioco nel quale si tenta di alienarsi e quella che si scorge dietro «il putridume di quella luce» (AT, p. 117) e il «losco tritume» (AT, p. 142) dei discorsi che dal campo scaturiscono. è così che l’indisposizione di Arpino, passando per calcio e vita, finisce per diventare campo di raffigurazione, romanzo.
Bisogna compiere un altro passo soltanto per rendersi conto che, proprio guardando la realtà dalla prospettiva, per così dire, suggerita dal campo, dalla sua compiuta restituzione, essa si rivela vuota: «Proprio questa verità posseduta e rimasticata […] andava ripetendosi, implacabile, apriva cicatrici dolorose, vortici d’ansia, svuotava il cuore» (AT, p. 141; corsivo mio). Svuota anche lo stomaco di chi ha appena finito di raccontare la partita; ed è quello stesso vuoto inquadrato dalle finestre della residenza riservata ai giornalisti al seguito della spedizione azzurra; è il vuoto delle strade verso Murrhardt, nel Land del Baden-Württemberg, o della notte di Stoccarda, deserta e abbandonata ai topi; è il vuoto in cui cade il Bomber, Gigi Riva, o l’anima di Rivera, così come il trionfalismo ingiustificato del tifoso beota e beduino delle Belle gioie o delle Jene, giornalisti ipocriti e parassiti al seguito della spedizione azzurra; è, soprattutto, il vuoto di Arp, che deve sforzarsi per riempire tanto «il vuoto della conchiglia nella testa» (AT, p. 155) quanto quell’altro, bianco, sulla pagina.
Eppure, l’intellettuale Arpino prova a guardare oltre il naufragio italiano in Germania, accordando uno spazio dolente ma significativo al futuro, alla speranza, magari alla consolazione («Farò una cosa per diminuire questo pallone e consolare un po’», AT, p. 129, dice Arp parlando della sua scrittura)(5). è proprio attraverso la speranza, che filtra specialmente dal finale del romanzo, che l’anima segreta della realtà calcistica là descritta – il «viscero oscuro» (AT, p. 203), lo chiama lo scrittore di origine istriana – si riconnette all’infelicità pressoché uniforme che lo aspetta al suo ritorno in un’Italia «democratica e bombarola» (AT, p. 25). Da questo orizzonte monotono e compatto si apre, incredibilmente, il tenero spazio ridente rappresentato da Giacinto Facchetti, il capitano della Nazionale, tra i pochi ad aver onorato con il suo impegno e la sua dignità la spedizione tedesca, e dal battesimo di Gianfelice, suo figlio. Facchetti, personaggio mestamente positivo in un universo disfatto, era stato tra i pochi a vincere la inoperosità, il disimpegno del ritiro − «il centrocampo», dirà Brera, «è moscio fino alla gnàgnera»(6) −, per sottoporsi a massacranti allenamenti supplementari, guidati dal Vecio, tecnico in seconda dell’Italia di Valcareggi, Enzo Bearzot(7). Malgrado il passato contenga tenebre, orrori e angosce, il finale del romanzo − qui, come altrove − è contrassegnato da un atteggiamento fiducioso. In generale, tale alternanza di tono nelle storie raccontate da Arpino tradisce, da un lato, il fatto che il passato, ciò che racconta, non sia definitivamente concluso e, dall’altro, nel finale come durante gli intermezzi giocosi, una certa disponibilità al bene(8).
In un campo, come si è visto, plumbeo, la preoccupazione di Arpino non assume mai toni immotivatamente enfatici, anche perché lo scrittore vi pone al centro Arp, ossia se stesso, l’uomo (parte che si fa espressione del tutto, del suo tempo). Così, la storia e la sua realtà nascono dalla contaminazione di queste due entità. Il sistema-romanzo sorge proprio dal legame necessario tra uomo e mondo nell’arco di tempo segnato dalle tre partite giocate dalla Nazionale contro Haiti, Argentina e Polonia, nel girone di qualificazione dei mondiali. Ma l’occasione per riflettere sulla propria disposizione intellettuale e sul valore della scrittura in un simile momento storico si presenterà ad Arpino allorché tornerà a Torino e avrà modo di conversare con Mario Maffiodo, suo grande amico, titolare del Caffè Torino in Piazza San Carlo e cofondatore proprio con Arpino dell’almanacco mensile «Il Racconto».
Dell’incontro, avvenuto nel Caffè dell’amico, Arpino dà conto nella seconda parte del IX capitolo di Azzurro tenebra. Vale la pena riflettere sui passaggi maggiormente significativi del dialogo perché, in uno spazio ridotto, Arpino fornisce le basi teoriche dell’intera opera, e forse non soltanto di questa. Lo fa cercando di ritagliare lo spazio in cui è stato confinato l’intellettuale (in particolare, quello che si occupa di sport) in una nazione dove la borghesia è scomparsa e il popolo si è schiantato. Forse il suo spazio è da rintracciare nella fantasia, perché è passando da quella che si può pervenire all’anima segreta – al viscero oscuro, si è detto – della storia. Spazio che la fantasia «di chi appetisce sport» deve contendere al video, ingoiando, dominando, vincendo e riconoscendo tecniche, gerghi e abitudini ormai consolidate. Video che, invece, si diverte a distruggere, che «ammucchia talmente il fatto e il personaggio con l’utente, da schiacciarli in una sorta di brevissima, anzi fulminea orgia oltraggiosa»(9). Insomma, lo sport, dice Arpino nel 1982, quando ormai sente che la sua verità è scemata quasi del tutto, «viene vissuto per interposta persona», essendo ormai assoggettato al «lampo televisivo», cancellando, con i suoi eccessi e i suoi toni enfatici, «la consapevolezza della realtà quotidiana» e, con essa, anche il divertimento e l’interesse(10). I prodromi di questa «civiltà visiva», pienamente compiuta negli anni Ottanta, già nel corso del decennio precedente influiscono sull’approccio con cui l’intellettuale si dedica a un fenomeno sportivo (Ernest Hemingway e Norman Mailer alle prese col pugilato, solo per citare i riferimenti più rilevanti dello scrittore di Azzurro tenebra, non sono che esempi rari)(11), finendo per distorcerne il senso di gioco, di spettacolo, di vita. Arpino si sottrarrà allo sport così inteso, portando a compimento un processo di allontanamento già avviato durante i mondiali tedeschi(12).
D’altronde, ben prima di Azzurro tenebra, è chiaro come il calcio, secondo Arpino, «non è quello che è», essendo piuttosto quanto «appare e ispira»(13). E ad Arpino non piace più ciò che lo sport (e il calcio, in particolare) è diventato: uno spettacolo eccessivo − impossibile da godersi perché fatto e raccontato senza passione − che ha perso la sua originaria disposizione dilettantistica e quindi, come è stato detto, la sua verità. La «palpabile memoria dei tempi che furono austeri, ilari, avventurosi, sgangherati ma fenomenici, ed irripetibili» è rappresentata, con ogni evidenza, da Facchetti, professionista che ha saputo reggersi comportandosi con l’animo del dilettante, ma soprattutto da Augusto Manzo, semisconosciuto campione del pallone elastico. Manzo, cui Arpino dedicò più di un articolo(14), è l’incarnazione di quel dilettantismo che è sapere muscolare e psichico e lo fa somigliare a quel «romanziere che sa di poter scrivere una determinata storia solo se ha saputo trasformare la sua vocazione in una professione»(15). Di questa motivazione, di questa spinta antica viene ribadita l’importanza nella definizione stessa di dilettante, ben distante da quella che Arpino chiama «la regola dell’hobby», vera e propria «“morte civile” del dilettante canonico»(16). Tale regola è un alibi che induce l’individuo a trasferire «fuori di sé quanto invece dovrebbe curare e migliorare in sé»(17) e che è il fondamento di quel crepuscolo del dilettante che ormai attiene tanto al fare quanto al raccontare lo sport. Cercare di non travisare il gesto agonistico, da dilettante, significa, se si vuole, comprendere la forma e la materia di quella illusio, la credenza collettiva nel gioco di cui si diceva all’inizio e, in fin dei conti, non accettare più il presupposto fondamentale che il gioco vale la pena di essere giocato e di essere preso sul serio e, pertanto, non aderirvi supinamente; «è un compito da affrontare in piedi»(18) – dirà Arpino nell’autunno del 1983 – che consente, in sostanza, di avere davvero fede in ciò che si fa. Da dilettante, Arpino smetterà di occuparsi di sport perché sentirà, con angoscia, di non essere più in grado di prenderne sul serio il senso e, al contempo, si renderà conto che continuare a prenderlo sul serio significherebbe non fare altrettanto con la realtà.
- Giovanni Arpino, Azzurro tenebra, Einaudi, Torino 1977, p. 17; da ora in poi, nel far riferimento a questo romanzo, si riporterà la semplice indicazione della pagina, preceduta dalla sigla AT.
- Giovanni Arpino, Calcio, gioco e passione, in Opere scelte, a cura di Rolando Damiani, Mondadori, Milano 2005, p. 1677.
- Ivi, p. 1678.
- Che al centro di Azzurro tenebra ci sia il “discorso sul calcio” prima ancora che il calcio stesso lo ha sostenuto con grande efficacia colui che meglio e più a lungo si è occupato in Italia dei rapporti tra lo sport principe e la letteratura, Massimo Raffaeli (cfr. L’angelo più malinconico. Storie di sport e letteratura, Affinità elettive, Ancona 2005; la citazione, tratta da Tenebre azzurre, articolo apparso su «Il Manifesto» del 12 ottobre 2002, è a p. 26). Dello stesso autore si veda anche la prefazione all’edizione più recente del romanzo di Arpino, poi riprodotta in La poetica del catenaccio, Pequod, Ancona 2013.
- Esemplare, a tal proposito, quanto Arpino sostiene a conclusione di un appunto preso all’ospedale Molinette di Torino e tratto dagli scritti redatti negli ultimi giorni di vita: «Immobili, intubati, bloccati supini nei letti guardano la partita di calcio. Tutta in questi novanta minuti la vita, purché cada la memoria, purché si fermi la storia, il dolore al polmone, al naso, al collo forato. è la partita − ancora − che li salva, e sono straziati ma felici perché gli unici ad averlo ai piedi del letto il televisore, compagno morboso di un presente che è tutto il futuro rimasto. Nella notte i campanelli dell’urgenza suoneranno a lungo, piangeranno le lenzuola, squittiranno scarpe di gomma ma l’Inter ha vinto e qualcuno si consola» (Giovanni Arpino, Commiato, in Opere scelte, cit., p. 1766).
- Gianni Brera, Storia critica del calcio italiano, Bompiani, Milano 1978, vol. II, p. 440. Brera, in Azzurro tenebra, è «il Grangiuán». Per un suo resoconto della sconfitta dell’Italia con la Polonia si veda il suo Il più bel gioco del mondo. Scritti di calcio (1949-1982), a cura di Massimo Raffaeli, BUR, Milano 2007, pp. 267-270.
- Interessante il giudizio di Facchetti, riportato in un’intervista rilasciata a Raffaeli nel 2006: «Arpino non ha fatto come spesso fanno i giornalisti, cioè non si è limitato a correre dietro alla palla, lui è andato a fondo e ha cercato di capire la situazione interpretando magari quelle che erano le nostre sensazioni intime, le più difficili da descrivere» (Giacinto Facchetti, ricordando Arpino, ora in Massimo Raffaeli, Sivori, un vizio e altri scritti di calcio, Pequod, Ancona 2010, p. 226). L’ex capitano della Nazionale, che aveva letto tutti i romanzi dell’amico, è poi scomparso il 4 settembre di quello stesso anno. Bearzot guiderà la Nazionale al quarto posto in Argentina, nel 1978, e al titolo mondiale in Spagna, nel 1982.
- Su questo aspetto della narrativa di Arpino cfr. Giorgio Bàrberi Squarotti, La tragicità della vita, in Giovanni Arpino, L’ombra delle colline, Utet, Torino 2006, pp. IX-XX.
- Giovanni Arpino, Lo sport nella società di massa, in «Ulisse», vol. XVI, fasc. XCIII, marzo 1982, ora in Opere scelte, cit., p. 1668.
- Ivi, pp. 1669-1671.
- «Io mi considero uno scrittore non italiano», ammise Arpino in un’intervista rilasciata nell’autunno del ’77 a Darwin Pastorin per «Il Guerin Sportivo», «che usa la propria lingua sempre meno. Azzurro tenebra è un libro intraducibile». Alcuni passaggi di quel colloquio sono stati ripresi in Darwin Pastorin, Ti ricordi, Baggio, quel rigore? Memoria e sogno dei mondiali di calcio (Donzelli, Roma 1998, pp. 33-37).
- Processo che subirà un’accelerazione in seguito alle inchieste sulle scommesse illecite e la trasformazione dei club calcistici in società per azioni, condotte con Alfio Caruso; si fa riferimento ad Area di rigore: rapporto sugli anni Settanta del calcio italiano (SEI, Torino 1979) e Calcio nero: fatti e misfatti dello sport più popolare d’Italia (Feltrinelli, Milano 1980).
- Giovanni Arpino, La favola del campionato di calcio, in 75° Anniversario Fondazione FIGC: 1898-1973, Roma, 1973, ora in Opere scelte, cit., p. 1680.
- Qui si fa riferimento a Giovanni Arpino, Il re delle Langhe, in «Il Giornale», 6 marzo 1980, ora in Opere scelte, cit., pp. 1664-1667.
- Giovanni Arpino, Lo sport nella società di massa, cit., p. 1673.
- Giovanni Arpino, Crepuscolo del dilettante, in Opere, cit., vol. V, p. 1333.
- Ibidem.
- Giovanni Arpino, Perché ho scelto questo mestiere, in Opere scelte, cit., p. C.