Editoriale: «Anche se è evasione...»
Andrea Scarabelli & Gianpiero MattanzaSe esiste una grandiosa metafora della modernità – o, meglio ancora, una sua rappresentazione in sedicesimo, un suo diorama, per così dire – è il calcio. Lì e in tutto quel che gli ruota attorno si agita una civiltà, s’intrecciano le linee di forza del nostro tempo; talvolta vi si palesano le sue fratture, i suoi non-detti. Ecco perché il quattordicesimo fascicolo di «Antarès», che avete tra le mani, è dedicato a quest’argomento, apparentemente “eccentrico” rispetto agli altri. Ma la contraddizione è solo apparente. Questo numero intende gettarsi nel cuore pulsante della modernità stessa, la cui forma è un pallone rotondo, provando a interpretarlo secondo un punto di vista alternativo, che è poi quello sempre adottato da «Antarès», evitando da un lato lo specialismo degli “esperti” e dall’altro l’arcinoto snobismo degli uomini di cultura di fronte a quello che rimane – è innegabile – un fenomeno epocale.
Nel calcio spettacolarizzato, infatti, fanno capolino i tratti più spregiudicati della modernità, che questa rivista ha sempre analizzato in modo critico, qui declinati nel culto della tecnica a detrimento del gioco in sé, nel profitto elevato a unico parametro di qualità, nella velocità e nell’ipertrofia dell’azione, nella fantasmagoria dell’apparenza a scapito del fascino della sostanza… Il calcio di oggi è cosmopolita e apolide, le prestazioni in campo sempre più valutate a suon di quattrini, i giocatori come simulacri di eroismo in un mondo che di eroi non ne ha più, e sprezzantemente balbetta di non sapere che farsene. Dietro alle folle inghiottite dagli stadi si profila lo spettro del panem et circenses delle civiltà crepuscolari… Tutto questo è arcinoto. Ma, forse, c’è dell’altro.
«Il calcio» disse una volta Pasolini, «è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione». In queste parole c’è qualcosa di essenziale. Il segreto è tutto in quell’“anche se”: il rito, infatti, in senso stretto non comporta un’evasione dal mondo, ma cementifica e struttura il tessuto sociale. Cosa che, in fin dei conti, fa anche il calcio, polarizzando i popoli, coagulandoli intorno a una bandiera, spesso disegnando geografie alternative a quelle tracciate dal potere. A seconda della squadra tifata, le città si sdoppiano o triplicano: Milano diventa Inter o Milan, Torino è smembrata in Juventus o Toro. Spesso con conseguenze bizzarre: è il caso della Juve, la squadra più seguita nel Belpaese, ma non nella sua città d’origine. È una curiosa eterogenesi dei fini: le squadre che oggi vanno per la maggiore sono prototipi del globalismo trionfante, in cui militano giocatori provenienti da tutto il mondo, messi insieme da assegni ultramiliardari staccati da chi del calcio ha fatto un mero business. Eppure, le tifoserie pronte a sacrificarsi per esse seguono meccanismi locali e identitari, riattivando simboli, vessilli e cori territoriali, proprio quelli che il globalismo si è incaricato di archiviare.
Nel loro costituirsi, le tifoserie non seguono infatti meccanismi squisitamente calcistici. Basti pensare al già citato caso Torino-Juve: se la prima raccoglieva gli operai della Fiat, la seconda ne riuniva i dirigenti, se la prima era più nazional-popolare, la seconda era più simile ai club di gentlemen da cui il calcio nacque. Spostandosi all’estero, le cose non cambiano: a Glasgow, ad esempio, abbiamo i tifosi di Celtic e Rangers, i primi cattolici, i secondi protestanti, i primi identitariamente vicini a Scozia e Irlanda, i secondi all’Inghilterra. I derby, in questo caso, più che manifestazioni sportive, sono la riattivazione di antichissimi retaggi.
Nel calcio, insomma, il vecchio s’ibrida con il nuovo, i secoli si fondono e confondono, la politica “alta” s’incarna in moto popolare. Ma negli stadi risorge anche una dimensione conflittuale che, sempre più anestetizzata dal Pensiero Unico buonista, è una componente fondamentale dell’essere umano. Il calcio ci ricorda che polemos è padre di tutte le cose, che la storia è lotta e conflitto. Avete presente il grado di tensione che si sviluppa nel corso di un match? Certo, si dirà, tutto ciò si verifica in genere nei grandi eventi, cui partecipano folle oceaniche – nei concerti, ad esempio. Sennonché, a mancare è appunto la dimensione del conflitto tra le fazioni – e non è cosa da poco. Se n’era accorto Pierre Drieu La Rochelle negli anni Trenta, parlando dello sport come moderna resurrezione dell’eroismo e dell’agone antico.
Ma lo sport in genere – e il calcio, nella fattispecie – è, come si diceva, anche una grandiosa rappresentazione politica. Negli stadi viene messo in scena l’immenso cosmo della Storia. A partire dalla centralità assunta dal pallone nel Secolo Breve è possibile intravedere in una partita, nella storia di un calciatore o di una tifoseria, nella politicizzazione o spoliticizzazione dell’agone sportivo, la tettonica a zolle della politica nazionale e internazionale. Lo stesso dicasi per la cosiddetta “burocratizzazione” dello sport, che evidentemente non è un caso isolato ma riflette una tendenza ben più ampia e onnipervasiva, che caratterizza la nostra leviatanica “civiltà”.
È forse per questo che i grandi interpreti della cultura – continentale e non – hanno sentito il bisogno di interfacciarsi con “lo sport più bello del mondo”. La loro lista è sterminata e include nomi insospettabili: ben prima di Saba, con le sue cinque poesie dedicate al pallone, chi ricorda che nel 1821 Giacomo Leopardi scrisse A un vincitore nel pallone? Per poi non parlare di autori come Pasolini e Arpino, Soriano, Galeano e Montalbán… le loro pagine strappano il calcio allo specialismo, riportandolo sul campo della Storia e della vita. Nelle loro pagine il football cessa di essere una somma aritmetica di performance e quantità esorbitanti di denaro per farsi mito e narrazione.
È per questi motivi che abbiamo deciso di dare alle stampe un fascicolo dedicato alle prodezze di ventidue uomini, tra storia e politica, umanità e sovrumanità. Un enorme caleidoscopio capace di mescolare passato e futuro, il Medioevo e la mobilitazione delle masse, incanalando quegli istinti primordiali che nemmeno la più raffinata delle civilizzazioni – e non è il caso nostro – è in grado di cancellare. Anzi, sviluppandoli in una crescita individuale, anche perché prima di essere sapiens l’uomo è ludens, come scrisse Johan Huizinga: il gioco è ciò che ci sottrae ai domini della necessità, fondando una libertà in senso superiore. Una libertà di cui, in tempi di cacce intellettuali alle streghe e politicamente corretto, sono in molti ad avvertire la necessità.
Ecco, insomma, alcuni dei prodigi di questo sport, qui sviluppati in saggi e interviste, di carattere storico o filosofico-antropologico, alcuni di tipo narrativo e altri dal taglio cronachistico. Un tributo in stile «Antarès» alla «cosa più importante delle cose non importanti», come disse una volta Arrigo Sacchi. Ché gli dèi sono anche qui.