«Contrasti»: raccontare l’eroismo sportivo. Intervista ad Andrea Antonioli
Gianpiero Mattanza
Grafica minimal-retrò, fotografie d’antan rese accattivanti per il lettore contemporaneo, storie immortali da raccontare: questo è «Contrasti», tra le più interessanti realtà d’informazione alternativa legate allo sport. Una rivista dal registro unico nel suo genere: su questo spazio online, libero come pochi altri, difficilmente troverete dettagliate analisi tecniche dell’ultima partita di campionato o grafici legati al valore economico dei calciatori. Difficilmente tutto ciò che è mero dato statistico potrà insinuarvisi. Tutto questo perché «Contrasti» non fa riferimento al regno della quantità, ma al reame virtuale di chi si riconosce umile suddito di un’idea di sport ormai fuorimoda. Lo sport inteso come impresa eroica, innalzamento ad un livello più che umano… I “contrasti” che troneggiano nel titolo sono quelli che permettono allo sportivo-eroe di risaltare sul piattume del linguisticamente steroideo, di ciò che ha un peso esclusivamente economico. Qui la biografia dello sportivo ha ancora un senso nobile, alto: non è semplicemente una volgare lista di luoghi, cifre e date. Per i veri intenditori di sport, che capiscono il suo enorme peso culturale, comprendendone la sofferenza intrinseca, gli articoli di «Contrasti» hanno quasi i tratti dell’agiografia: lo sport di cui si parla non è patinato, né legato al gossip o all’istantaneo piacere di una lettura effimera, bensì alla ricerca di una profondità, di radici. «Contrasti» celebra consapevolmente gli eroi dello sport, coloro che hanno fatto delle rispettive discipline una ragione di vita: vi troverete eroi popolari del pallone, del pedale o della racchetta, che hanno celebrato con le loro gesta una ben precisa idea, del tutto in controtendenza rispetto alle regole del mercato odierno. Andrea Antonioli, giovane direttore di «Contrasti», ci parla della sua testata.
G. M.
Calcio, ma non solo: cos’è «Contrasti»?
«Contrasti» è un progetto editoriale nato circa due anni fa, animato dalla voglia di inscrivere nuovamente lo sport nel suo contesto originario, ovvero sociale e culturale. Ci stiamo purtroppo abituando alla concezione dello sport come spettacolo, derivante dal tossico modello americano che trasforma una partita in un evento, identificando il tifoso con il consumatore. Senza appiattirci sulla nostalgia fine a se stessa, abbiamo dunque voluto provare ad invertire la narrazione: il nostro scopo è parlare dello sport in modo differente, ricollegandoci a una grande tradizione giornalistica e intellettuale, ma soprattutto autenticamente popolare. Poiché lo sport è una delle rappresentazioni umane più vitali e originarie, non potevamo accettare che venisse trasformato in una questione commerciale o – ancora peggio – in un club ristretto, in cui possono prendere la parola solo quei nerd che si scervellano su tattiche e schemi, dimenticando cosa abbia portato a quelle tattiche e a quegli schemi. Da qui l’apertura ad ogni sport di cui sia possibile parlare in termini culturali (in senso lato): tanto per intenderci, su «Contrasti» difficilmente troverete un articolo dedicato alla NBA; ci sono riviste o siti internet molto più adatti e capaci di noi nel trattare quel modello.
Ora concentriamoci sul pallone. Che peso ha il fútbol nella società italiana contemporanea? Un peso enorme, sembra, ma in modo molto differente rispetto al passato. Puoi aiutarci a capire?
Un peso enorme, certamente. Mentre in passato rappresentava soprattutto un gigantesco fenomeno sociale, oggi è più che altro una passione o una valvola di sfogo. In una vita segnata dai ritmi martellanti del lavoro e dallo stress crescente – qui si dovrebbe aprire una parentesi infinita, ma ricerche e numeri ci dicono che siamo la società più stressata nella storia del mondo – il calcio rappresenta un’imprescindibile valvola di sfogo, ma mi sento di affermare che purtroppo abbia perso quel carattere di appartenenza e rappresentanza di un tempo.
Per alcuni, il fenomeno calcistico sembra assumere le fattezze di un culto organizzato, una neo-religione. È così?
Sicuramente, come dicevamo, è stato così. Nel calcio andavano a confluire diverse esigenze dell’uomo, che è un animale sociale e rappresentativo: lo schierarsi, il far parte di un gruppo, quasi in una pre-politica dicotomia schmittiana amico-nemico; ma anche l’appartenere a qualcosa di più grande, come accade per le narrazioni che hanno fatto la storia, dalla religione ai grandi sistemi politici. Il calcio – questo è il dato fondamentale – trascendeva il singolo, lo inseriva in una tradizione. Oggi questo aspetto è estremamente marginale e marginalizzato: d’altronde, la religione necessita di fedeli, la politica di militanti, il calcio di tifosi, e tutte hanno bisogno di “valori” o riferimenti condivisi all’interno di una comunità. Quando questi riferimenti vengono meno, la forma ha la meglio sul contenuto: oggi l’importante è che si giochi, in continuazione, una partita al giorno. Alle 12, alle 15, alle 18, alle 20.30 e così via; bisogna vendere e avere un’offerta il più ampia e il meglio pubblicizzata possibile.
Insomma, questo sport sta cambiando. Per forza in negativo?
Guarda, noi cerchiamo ogni giorno di non rassegnarci all’idea che sia cambiato esclusivamente in negativo. Abbiamo più volte preso posizione contro il nostalgismo, per cui “passato” significa automaticamente “migliore”, ma oggi è sempre più difficile continuare a stare nel mezzo. È tempo di prese di posizione decise, e quando ti accorgi che negli ultimi quindici anni sono scomparse centocinquanta squadre dal calcio professionistico e si continua a parlare di Cristiano Ronaldo alla Juventus o di Modric (magari!) all’Inter, vuol dire che ormai siamo entrati in un altro ordine d’idee. Le televisioni e i giornali fanno i propri interessi, che sono quelli dei giganti o dei consumatori, fatto sta che milioni di italiani non hanno più una rappresentanza calcistica. Cosa dobbiamo dire loro, di iniziare a tifare Juventus o Inter, Roma o Napoli? Questo è un modello che non garantisce spazio alla sana passione e al campanilismo, che non tutela i “piccoli” ma si adopera per farli scomparire.
Chi era il calciatore, un tempo? E oggi?
Detta così, suona difficile. Sicuramente, una volta rivestiva un’importanza maggiore il lato umano: i grandi giocatori spesso si formavano in strada, non c’era quell’oppressivo e claustrofobico mondo di scuole calcio, genitori esaltati, e poi procuratori grandi e piccoli in cerca di gloria (e denaro). Oggi il calciatore deve essere un prodotto vendibile, questo è fondamentale: si aprono nuovi mercati e il prodotto dev’essere confezionato alla perfezione; i calciatori inevitabilmente ne risentono, crescono con diversi modelli e in contesti totalmente differenti. Tuttavia, è una domanda fin troppo generica: è cambiato il calciatore come sono cambiati altrettanti “lavori” all’interno di contesti radicalmente mutati. Tutto ciò che mi sento di dire è che in buona parte si è perso l’uomo, che spesso veniva prima del calciatore.
Esistono valori inossidabili, in questo mondo? Oppure sono solo suggestioni retrò?
Non sono convinto che i “valori inossidabili” esistano in generale, figuriamoci nel mondo del calcio.
Parliamo del tanto vituperato calcio moderno. Come s’inserisce nella nostra società, in generale?
Ne è parte, una parte molto importante. Si è evoluto esattamente come molti altri aspetti nell’epoca del capitalismo finanziario, né più né meno; il calcio non gioca secondo le sue regole, ma è parte di un processo che ha più o meno investito allo stesso modo ogni ambito del reale e del simbolico, dalla cultura all’informazione, dalla politica all’industria, dall’economia allo sport. Anche perché il calcio è fatto di cultura, d’informazione, di politica, di economia e ormai di finanza; modificandosi queste, quello che era lo sport più bello del mondo ne ha risentito pesantemente. Tant’è che ormai bisognerebbe secondo me distinguere tra pallone e calcio, o se preferiamo tra calcio giocato e lo star system delle leghe maggiori: quest’ultimo non c’entra niente – attenzione, parlo della sua essenza profonda – con il pallone.
Alcuni sostengono che oggi il giocatore-bandiera, quello che porta sulle proprie spalle gli oneri e gli onori di un’intera squadra e (sportivamente) di un’intera città, non esista più. È così?
Sì, possiamo dire che non esiste più. Sarebbe ormai strano il contrario.
Gli articoli pubblicati su «Contrasti» parlano spesso d’imprese incredibili, volontà sovrumane. Quando lo sportivo diventa eroe?
Quando trascende l’individualità: l’eroe è sempre eroe di qualcuno o per qualcuno, e di solito trova le proprie forze e motivazioni al di fuori di sé (nella patria, in un Dio, in una morale condivisa, in un popolo…). Cristiano Ronaldo, per quanto possa essere forte, ammettendo anche – e non concedendo – che sia il più forte giocatore della storia, non sarà mai un eroe per nessuno, al di là di qualche bambino o idiota: Maradona è stato invece l’eroe di un popolo, lo è diventato definitivamente nel Mondiale del ’90 e soprattutto nella partita contro l’odiatissima Inghilterra, appena dopo la guerra delle Malvinas; prima la mano de dios, poi il gol più bello della storia del calcio… non sono coincidenze. Così si diventa eroi, anche se quelli erano altri tempi. Ormai l’Europa e l’Occidente non tollerano più la figura dell’eroe, anche perché non offrono alcuna narrazione che sia in grado di trascendere il singolo.