XLrepubblica: Luca Pacilio parla di «Il videoclip nell'era di YouTube. 100 videomaker per il nuovo millennio»
Luca Pacilio
Con un intreccio rivelatosi sempre più inestricabile e caratterizzante, nell’arco di due decenni il videoclip ha occupato uno spazio fondamentale nella fruizione della musica contemporanea. A una triste e inarrestabile perdita di valore dell’artwork del disco – riscontrabile in maniera chiara dall’apposizione di immagini random al fianco delle playlist su Spotify – si è contrapposta la creazione di un’iconografia ancor più articolata che gravita attorno al concetto di videoclip. Questa trama sempre più serrata fra immagine in movimento e produzione discografica coinvolge in maniera determinante le strategie di marketing dell’industria musicale, che non possono ormai prescindere dalle modalità di fruizione sonora contemporanea. In un panorama così composito e mutevole, in cui la tecnologia e la diffusione digitale giocano un ruolo di primo piano, si colloca il volume scritto da Luca Pacilio, il cui titolo è allo stesso tempo programmatico e ambizioso: Il videoclip nell’era di YouTube. 100 videomaker per il nuovo millennio.
Pubblicato da Bietti Heterotopia e introdotto da una appassionata prefazione del videomaker Nabil, questo testo di quasi 400 pagine compie un viaggio fondamentale nella comprensione e nella narrazione di queste estetiche. Ma fa anche di più: restringendo il campo di analisi dal 2000 a oggi, costruisce un corpus narrativo che davvero possiamo definire ‘completo’. Il risultato è un percorso in cui l’ordine cronologico scandisce le trasformazioni mediatiche, il ruolo dell’autore si ridefinisce in maniera decisiva e la storia della musica trova un definitivo riposizionamento in funzione di questa folgorante commistione multicodice. Abbiamo intervistato Luca Pacilio per farci raccontare le basi da cui è nato questo libro, che oltre a essere un saggio ricco di suggestioni si rivela anche un’essenziale guida alle opere a agli autori più significativi del nuovo millennio.
Alcuni dei videomaker di cui parli nel volume si concentrano sull’interpretazione della musica per crearne una trasposizione (più o meno fedele) in video, altri cercano di apporre un marchio personalissimo alle loro produzioni: chi, a tuo parere, riesce ad unire entrambi gli approcci?
Nabil, a mio avviso, è tra i registi che combinano al meglio queste due componenti: da un lato è sensibile alle atmosfere e ai temi del brano, ne traduce in immagini lo spirito, rispetta il carattere della strategia comunicativa dell’artista musicale, dall’altra parte riesce a condurre il suo lavoro in un ambito espressivo molto personale. Prendiamo un video come Pyramids per Frank Ocean: se la trasposizione è estremamente coerente con il testo della canzone, la piega allucinatoria che prende la narrazione è invece caratteristica dei suoi promo, una costante che ritroviamo variamente declinata anche in altri lavori del regista, come Why’d You Only Call Me When You’re High? degli Arctic Monkeys o Bad Habit dei Foals. Anche Tom Kuntz, i cui clip hanno tratti tipici molto marcati, riesce a adattarli alla perfezione al musicista col quale collabora, facendo sì che si inseriscano coerentemente nel complesso della videografia dell’artista. Altri registi, penso a Martin De Thurah, partono da un approccio estremamente intimista, ma lasciano che sia la musica ad attivare le suggestioni personali, arrivando quindi a risultati straordinariamente armoniosi, come nei bellissimi video che il danese ha girato per James Blake. Nell’ambito del mainstream Joseph Kahn non ha eguali nel mescolare la sua inventiva a una celebrazione del binomio canzone-artista: l’ultimo video per Taylor Swift ne è l’ennesimo esempio.
L’approccio al videoclip passa soprattutto dal rapporto fra presenza e assenza delle icone della pop music: in che misura si tratta di azioni di marketing o, all’opposto, artistiche?
Dipende dai video, dagli artisti coinvolti e anche dal tipo di discorso commerciale portato avanti: per esempio, un video degli One Direction sarebbe inconcepibile senza di loro, almeno allo stato attuale della loro carriera. In alcuni casi l’assenza del musicista è una scelta banalmente produttiva: essendo egli indisponibile, si ricorre a un video in cui sarà il concetto o la narrazione a fungere da traino. In altri casi si tratta invece di una scelta precisa. Paradossalmente è più facile che sia una star a non apparire, penso al caso di Paolo Nutini: due dei più bei video visti quest’anno sono suoi, Iron Sky e One Day, e in entrambi egli non è presente, avendo voluto puntare sul talento dei registi (Daniel Wolfe e Ian Pons Jewell) e su videoclip narrativi, di stampo fortemente cinematografico; è stata una scelta coraggiosa che, a livello promozionale, ha pagato: sono stati visti moltissimo e hanno ricevuto lodi e riconoscimenti. Un altro esempio può essere No Church in the Wild in cui brano e immagini sono talmente potenti e le star in gioco (Kanye West, Jay-Z e Frank Ocean) talmente note da rendere superflua la loro presenza, lasciando al regista Romain Gavras il compito di condurre la partita. È più difficile che l’artista sia assente, invece, quando è molto giovane e in via di affermazione perché in quel caso il video svolge la funzione di promuovere il musicista e la sua immagine, oltre che il brano.
Il clip è inoltre presenza del corpo, della fisicità, intesa anche come desiderio erotico. Quanto è stato determinante questo aspetto nelle dinamiche del nuovo millennio?
Il corpo della star, nei video, è sempre stato in vendita, non meno del brano musicale: un clip come Rock DJ di Robbie Williams, diretto da Vaughan Arnell, lo ribadisce ironicamente; ovviamente con il nuovo millennio e con il cambio del canale di diffusione, YouTube, la corporalità è stato un elemento esasperato perché la nudità, l’ammicco erotico, la situazione esplicita sono parte di un strategia volta a ottenere quello a cui oggi ogni video tende: la viralità. In questo senso il cambiamento della piattaforma ha coinciso anche con un mutamento tematico e stilistico. Quando parlo di “era di YouTube” mi riferisco anche a una conseguente nuova estetica, non solo a un periodo cronologico.
Quanto conta oggi il budget di produzione per realizzare un buon videoclip? È ancora fondamentale?
Secondo me no. Con il tramonto della golden age del video, gli anni Novanta, i budget si sono sensibilmente ridotti e i video molto costosi sono una rarità. Lo spiega molto bene Nabil nella prefazione del mio volume: oggi sono le idee la vera risorsa. Sempre più, poi, i video vengono girati in strada, fuori dagli studi, senza attori professionisti, cercando nel mondo reale frammenti di verità da orchestrare in una narrazione o in una costruzione concettuale: su questi presupposti nell’ultimo lustro si è sviluppato un vero e proprio filone. A questo va aggiunto il notevole sviluppo della tecnologia, sempre più alla portata di tutti: quando Beyoncé fa un video come 7/11 con una telecamerina, a costi ridicoli, raggiungendo certi esiti straordinari, si comprende come il budget, oggi, non possa costituire più un alibi per nessuno.
In controtendenza rispetto al marketing musicale, nell’ambito del videoclip le distanze fra indie e mainstream tendono ad annullarsi e i filmmaker lavorano in grande scioltezza con artisti famosissimi e con band del sottobosco alternativo. Conta più l’idea che il committente?
È nell’imporsi del videomaker che va vista la vera rivoluzione degli anni Novanta; è stato allora che si è cominciato a percepire che, come la star, anche il regista assemblava un corpus riconoscibile di opere e questo riconoscimento, a mio avviso, lo ha portato a muoversi in ambiti diversificati: la musica indie è più disponibile ad accogliere istanze artistiche e ambizioni autoriali, quindi molti videomaker hanno colto in quell’ambito l’occasione per mettere in campo la loro creatività senza i diktat pressanti delle grosse etichette, o comunque in maniera meno vincolata. Quindi oggi, se ci sono le condizioni, non hanno remore nel prestarsi a situazioni produttive molto differenti. Dirò di più: questa versatilità, questa disponibilità ad entrare ed uscire dal mainstream è la vera caratteristica del videomaker contemporaneo. Un collettivo come gli spagnoli Canada, oggi, oscilla tra oscuri artisti catalani e star di prima grandezza come Scissor Sisters, Phoenix, Justice.
Se dovessi scegliere tre nomi della musica internazionale che sono stati determinanti per la recente evoluzione del video, quali citeresti e perché?
Gli Arcade Fire, perché hanno interpretato il discorso video in maniera sempre imprevedibile e sperimentale: con il videoartista Vincent Morriset hanno compreso che il web andava sfruttato non solo come mezzo di diffusione dei promo, ma anche per le sue caratteristiche intrinseche, facendo dell’interattività e del possibile protagonismo dell’utente una scelta poetica. Inoltre è con loro che un maestro come Spike Jonze ha firmato ultimamente le sue cose migliori, compreso l’ennesimo video che tra qualche anno diremo seminale, quello di Afterlife.
Björk, perché dopo essere stata una figura rivoluzionaria in questo campo negli anni Novanta, anche nel nuovo millennio non ha smesso di vincere scommettendo su nuovi straordinari talenti. Il suo intuito, da questo punto di vista, non ha eguali nella storia della videomusica.
Kanye West perché attualmente è l’artista che, più di tutti, sta costruendo un suo mondo video raccogliendo maniacalmente tutto il meglio che il panorama del videomaking contemporaneo offre.
Quali sono le ragioni prevalenti per cui la consapevolezza delle piene potenzialità del videoclip è arrivata così tardi?
Per mero pregiudizio. Perché il videoclip è legato al mondo del pop, all’industria, al mainstream, quindi, stante l’atteggiamento spocchioso di tanti analisti, si è faticato a riconoscerne le qualità innovative e artistiche. Basti guardare a come viene accolto l’ingresso di un videomaker nel mondo del cinema: da parte di critici e cinefili è vissuto come una profanazione, nonostante il cinema saccheggi il videoclip a ogni livello e videoartisti come Gondry, Fincher, Jonze, Glazer siano stati alla fine, e non senza difficoltà, riconosciuti come maestri anche nel mondo della celluloide. Senza nessuna valida ragione un videomaker ha bisogno di un decennio buono prima di essere accettato a tutti gli effetti come valido regista di cinema. Il dirigere o l’aver diretto video musicali è un peccato originale.
In che modo pensi che l’arte del videoclip si evolverà a breve termine? Le nuove forme di interazione fra artisti e digitale possono rappresentare la vera, nuova frontiera del videoclip?
La cosa esaltante del videoclip è che fa della sperimentazione la sua forza: nessun’altra forma visiva riesce a combinare in maniera così proficua avanguardia e attenzione del pubblico. Solo pochi anni fa il videoclip veniva dato per morto, la nascita di YouTube gli ha conferito nuova linfa e l’interazione tra artisti e digitale a cui ti riferisci è un fenomeno già attuale che dimostra come l’evoluzione del clip sia fortemente legata alle sue modalità di fruizione. Se comprenderemo in che direzione andranno quest’ultime, capiremo anche in che modo si evolverà il mezzo.
di Michele Casella ©xlrepubblica.it
2 febbraio 2015