
Mario Bava e il suo cinema sono invasi da spettri. Nella ricchissima filmografia del regista che con i suoi horror e thriller fantasmagorici e spaventosi ha ispirato l’immaginazione di Tim Burton e Quentin Tarantino non si contano le apparizioni di fantasmi malvagi pronti a risucchiare la vita o a rendere folli le menti delle loro povere vittime. Si pensi a uno dei pezzi di cinema più agghiaccianti nella storia della settima arte, La goccia d’acqua: il cadavere di un’anziana appena morta riprende vita per vendicarsi della donna che le ha sfilato l’anello dal dito. Oppure agli zombi assassini che sterminano l’equipaggio di astronauti in un altro cult baviano, Terrore nello spazio. E ancora: il fantasma sadico, impersonato da Christopher Lee, che ossessiona la sua amante a suon di minacce e frustate nel torbido La frusta e il corpo.
Tutte immagini che, grazie allo stile del regista, al modo in cui illuminava la scena e riprendeva il volto dei suoi attori, hanno provocato negli spettatori dei veri e propri shock. Ma, al di là della predilezione per il genere horror, cosa c’era dietro questa ossessione baviana per i fantasmi? Nel libro Kill Baby Kill! Il cinema di Mario Bava lo ha rivelato Alberto Bevilacqua, il celebre scrittore e regista, scomparso nel 2013, esperto del misterioso e del fantastico e che con Bava aveva collaborato più volte: «Nel cinema di Bava, più che il fantastico, credo sia presente l’orrifico basato su questo principio: l’umanità viene assalita da forme di terrore che non prevede e di cui spesso non sa spiegarsi la ragione. Questa idea era stata incorporata da Bava, credo, grazie alle esperienze d’infanzia o dell’adolescenza. Non l’aveva mai chiarito, anche se a volte ne faceva cenno, ma penso avesse avuto dei traumi, avesse provato una fortissima paura, una fobia». Aggiunge Dardano Sacchetti, grande sceneggiatore che scrisse uno tra i film più spaventosi di Bava, Shock, in cui la povera Daria Nicolodi tentava disperatamente di sfuggire al fantasma assassino del marito: «Con Mario non si poteva nominare la morte. Ne aveva terrore. La paura di Bava era diffusa, creava uno stato di agitazione per cui la sua vita sembrava perennemente in pericolo, senza motivi precisi. Però viveva questa paura con grandissima ironia, che era la sua arma per vincere il disagio di vivere: cercava di non pensarci e ironizzare, magari attraverso metafore e iperboli». Quella di Bava era un’idea della vita che si nutriva di pessimismo e disillusione e che lo portava a concepire l’esistenza come un cumulo di menzogne, dove i pochi momenti di verità erano dominati dalla paura. «Quando ti trovi in un corridoio buio di fronte a una persona che ti guarda fissa e immobile» diceva, «ti accorgi che la vita è fatta anche di aspetti demoniaci». L’amore/odio di Bava per la paura e l’ossessione per le creature venute direttamente dall’inferno Bevilacqua li definì «religiosità demoniaca», intesa come terrore sacro che il lato demoniaco dell’uomo non fosse do – minabile. Non a caso molti titoli del cinema di Bava evocano il diavolo (da Diabolik a La maschera del demonio fino a Lisa e il diavolo). Questa profonda convinzione aveva un riflesso nello stile inconfondibile del suo cinema che non seguiva affatto una linea logica, perché per Bava a dominare la realtà non era la ragione, bensì l’irrazionale: certamente i rari momenti di felicità, ma soprattutto le ondate pazzesche della paura. «Aveva la capacità di sollecitare il subliminale» prosegue Bevilacqua, «quella parte di noi che è sempre pronta ad essere terrorizzata. Lui prolungava a lungo la sequenza nella normalità e subito dopo scatta – va, all’improvviso, il terrore». Il demoniaco nell’uomo avrebbe portato il mondo al disastro, pensava Bava. Per questo era ossessionato dall’apocalisse: le forze della natura che si ribellano all’uomo e che porta – no l’umanità al disastro. Uno dei progetti che non riuscì a ultimare, dopo la lettura di un testo di Lawrence, si basava proprio su questo tema: la vita di una famiglia di oggi all’interno di una casa mentre sta avvenendo l’apocalisse. La fine del mondo nel chiuso di quattro pareti. Quasi un presagio di quello che accade in questi tempi grami con la pandemia e il cambiamento climatico in corso.
Gabriele Acerbo ©Mistero gennaio 2022
LA BIBBIA DI BAVA
Per chi voglia sapere tutto sull’arte cinematografica di Mario Bava, la lettura imprescindibile è Kill Baby Kill! Il cinema di Mario Bava, scritto da Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni. Il volume (420 pagine, 22 euro, Bietti) è la versione aggiornata, arricchita di nuovi interventi e interviste, della ricca monografia che i due studiosi hanno dedicato al geniale regista, apripista e innovatore dei generi più disparati, dal giallo all’horror, dalla fantascienza al peplum. Tra le testimonianze eccellenti raccolte nel saggio, spiccano altri maestri del cinema di genere come Dario Argento, Sam Raimi, Quentin Tarantino… E i Manetti Bros, registi del Diabolik uscito nelle sale a dicembre 2021, sofisticato e filologicamente corretto (molto interessanti a tal proposito le ricostruzioni degli ambienti d’epoca). Ma come tutti i fan di Diabolik e di Mario Bava sanno, il mitologico fumetto delle sorelle Giussani – che nel novembre 2022 festeggerà i suoi primi 60 anni – era già stato portato sullo schermo nel 1968 proprio da Bava, in un film che nel tempo è diventato un’icona del cinema di genere e un manifesto programmatico della visionarietà ultrapop del regista.
Aldo Dalla Vecchia ©Mistero febbraio 2022