Qualche incursione nel cinema delle grandi produzioni l’avevano fatta entrambi: Baumbach ha firmato insieme a Wes Anderson le sceneggiature di Le avventure acquatiche di Steve Zissou e di Fantastic Mr Fox, e, sorprendentemente è anche coautore di quella di Madagascar 3; Gerwig è apparsa in To Rome With Love di Woody Allen e in Jackie di Pablo Larraìn.
Solo tra i cultori del cinema indie statunitense però i nomi di Baumbach e Gerwig erano ben noti, per tutta una serie di film gioiellini, fatti di aspirazioni artistiche spesso frustrate e di microcosmi familiari e affettivi un po’ caotici e disfunzionali. Il loro sodalizio artistico e personale comincia nel 2010 con Lo stravagante mondo di Greenberg, un film in cui Gerwig interprete ruba la scena al protagonista Ben Stiller. Poi scriveranno insieme Frances Ha, nel 2012: un film incantevole sulla difficoltà del passaggio dalla prima giovinezza all’età adulta, sul trovare forma e posto nel mondo, nella vita professionale, nelle relazioni. Acclamato dalla critica e amato dai cinefili Frances Ha segna l’inizio di un periodo di grande fertilità nelle carriere di entrambi, ancora insieme in Mistress America nel 2015 e poi ognuno per conto proprio. Dopo i successi individuali di cui già si è detto, la coppia torna a lavorare insieme a due progetti ambiziosi che sono in fase di lavorazione mentre scriviamo: l’adattamento di Rumore bianco di Don DeLillo, diretto da Baumbach e interpretato da Gerwig e Barbie, scritto insieme e diretto da Gerwig. È in questo momento luminoso e carico di aspettative che Bietti edizioni, nella sua collana I Fotogrammi, dedica ai due cineasti una coppia di monografie sorelle, anzi spose dati i soggetti. Due manualetti agili e riuscitissimi che molto si prestano a una lettura parallela: Emanuele Rauco racconta Noah Baumbach, Cecilia Strazza racconta Greta Gerwig.
Strazza: Venivano tutti e due da un’impostazione di regia e di scrittura abbastanza circoscritta nei limiti e nei paradigmi dell’indie un po’ radicale. Da quando hanno cominciato a lavorare insieme ho visto ammorbidirsi lo sguardo, il modo di scrivere, di guardare al mondo, ai personaggi: molta più tenerezza e molta più cura, molto più amore. Se si pensa aStoria di un matrimonio questo discorso è lampante per quanto riguarda B. Per quanto riguarda G, anche nelle interviste non ha mai nascosto il fatto che essere cresciuta grazie a B. Dieci-quindici anni di carriera da attrice, diretta da registi molto bravi, sono stati la sua scuola di cinema, la sua palestra per quello che sarebbe arrivato dopo. Si sono incrociati benissimo e sarà curioso vedere, adesso che tornano a lavorare insieme come sceneggiatori con Barbie, se è cambiato qualcosa rispetto alla prima stagione della loro collaborazione.
Rauco: Quello che forse mancava ai film e allo sguardo di ciascuno l’hanno trovato insieme. G era soprattutto attrice prima di collaborare con B, aveva però anche scritto alcuni dei film in cui lavorava come interprete e dava una forma ai film a cui partecipava, che erano scelti secondo un preciso percorso già da cineasta. Il suo essere cineasta poi si è concretizzato nel momento in cui ha potuto coprodurre e scrivere lavorando con B. Come diceva Cecilia, B ha acquistato profondità grazie al rapporto con G, non solo nella cura e nella descrizione dei personaggi, ma anche in profondità di sguardo perché i film di B dal momento in cui c’è stata G hanno avuto un passo diverso. Greenberg, il primo film in cui collaborano, sembra semplicemente una collaborazione regista-attrice, eppure comincia ad avere una complessità filmica diversa, che poi in Frances Ha e in Mistress America diventa evidente e che B si porta appresso nei film successivi anche senza G. Allo stesso tempo mi sembra che G nei suoi primi due film da regista abbia un occhio e una professionalità cinematografici già completi e complessi. Se Lady Bird ha già una sua forma rispetto al percorso compiuto fino a quel momento come attrice, Piccole donne a prescindere da un discorso di superficie autoriale è il film di un’artista e di una regista americana, non solo hollywoodiana, che sa mettere la sua personalità anche in cose che a prima vista non le apparterrebbero. E questo potrebbe essere dovuto anche al lavoro fatto con B.
Leggendovi mi è sembrato che il punto d’incontro focale tra Gerwig e Baumbach sia il fascino, la tendenza all’irrisolto. Emanuele nel suo libro racconta la carriera di Baumbach come un susseguirsi di crisi, Cecilia scrive che i personaggi di Gerwig si costruiscono sulle loro mancanze, sulla loro incompiutezza. Siete d’accordo che questa poetica del provarci, possibilmente fallendo, sia il grande punto di forza che accomuna questi due cineasti?
Strazza: Nel libro ne faccio un discorso generazionale: non soltanto G, ma un po’ tutti gli autori che sono emersi negli ultimi cinque-dieci anni, trentenni e dintorni, vivono con questo senso di felice incompiutezza e sono sempre a un passo dal raggiungere l’obiettivo ma, come dici tu, poi non lo raggiungono mai. È una cosa che ha in comune con B e questo forse è il motivo per cui questo sodalizio è stato così meravigliosamente riuscito. Trovo il cinema di Greta Gerwig estremamente generoso nei confronti del pubblico, non credo che restituisca verità assolute, quindi questa incompiutezza sta anche nel compito che dà allo spettatore di completare le storie, i percorsi, gli sguardi dei personaggi con il proprio vissuto. La generosità fa rima con una grande umiltà: credo che G sia consapevole che è all’inizio di un percorso come autrice e come storyteller. Anche lei come i suoi personaggi è in viaggio, è ancora incompiuto, però è partita.
Rauco: Tra G e B ci sono quattordici anni di differenza, però appartengono alla stessa generazione cinematografica: vengono entrambi dall’indie, e per di più dall’indie molto spinto, quello definibile come mumblecore, [1] nel caso di B ancora prima che diventasse una corrente più o meno riconosciuta e da cui sono usciti anche dei personaggi che producono e creano serie per Netflix – penso ai fratelli Duplass. Si tratta di una scena indie che ha saputo accreditarsi verso un pubblico più ampio. Ancora prima, anche le generazioni del cinema indipendente americano fine anni Settanta inizio anni Ottanta – la No Wave, Amos Poe, oppure Jarmusch – facevano dell’irresolutezza uno strumento per contrastare lo stile di vita nordamericano. Nel cinema classico statunitense, facendo eco all’ideologia statunitense, i nodi dovevano venire al pettine, il protagonista irrisolto o la situazione dovevano compiere un percorso per poi risolversi, nel bene o nel male, a seconda dei registi, dei periodi della storia. Con la New Hollywood emerge una generazione di artisti e di registi che può permettersi di sfidare quel tipo di ideologia anche cinematografica, ed ecco che vengono raccontate storie di personaggi che girano a vuoto e che vogliono girare a vuoto, che rivendicano quel non risolversi come il loro modo di essere al mondo. Il non dover necessariamente sottostare a un percorso compiuto segna un passaggio politico, economico, culturale, sociale che trova il suo centro in quel vagabondaggio esistenziale. Questo vagare può assumere la forma delle chiacchiere infinite dei film di Kevin Smith, oppure del road movie senza meta di Jim Jarmush oppure, nel caso di GG e NB del piccolo ritratto, anche a suo modo completo, di personaggi che non sanno dove andare, che cercano il loro posto del mondo, non lo rifiutano, quindi tornano ad avere un dialogo, una dialettica con la società in cui vivono, ma che poi capiscono che forse trovarsi fuori posto è qualcosa che li fa stare bene. Penso a Frances Ha: una ragazza che si muove negli spazi alla ricerca del suo posto e quando pensa di trovarlo ne ha occupato troppo, infatti il suo nome non entra per intero nella mascherina sulla cassetta della posta.
Frances Ha è un successo, forse un punto di svolta nelle carriere di entrambi. Mentre il primo film che avevano fatto insieme, Il mondo di Greenberg, non aveva avuto riscontro, né di critica né al botteghino. Che significato ha Frances Ha nel percorso artistico di Baumbach e Gerwig, sia singolarmente sia insieme?
Strazza: Parlo dal punto di vista di G, facciamo i due avvocati come in Marriage Story: io sarò la Laura Dern di GG. Il mondo di Greenberg è importantissimo nella filmografia di GG perché è un film filtrato dallo sguardo di due uomini, il regista e il protagonista, ma alla fine lo sguardo che prevale, probabilmente su entrambi, è quello della protagonista femminile. Siamo a un punto della carriera di G in cui comincia veramente a fare proprio quello sguardo, che prima per una serie di vicissitudini non aveva mai conquistato. Se Frances Ha ha riscosso maggiore successo, credo che sia perché ha degli elementi legati alla sfera sentimentale ed emotiva molto più pronunciati.
Rauco: Come dice Cecilia Il mondo di Greenberg è il primo passo: in quella fase della sua carriera GG capisce di avere una sorta di potere, anche verso se stessa, una responsabilità rispetto alle scelte che fa e quindi anche rispetto al costruire il personaggio in modo che dica qualcosa rispetto alla storia che sta raccontando. B in quel momento sta ancora elaborando il successo di Il calamaro e la balena (2005), sta cercando di trovare una sua dimensione. I due capiscono che c’è una sinergia e quindi realizzano Frances Ha. È un’opera compiuta, sia nei rispettivi percorsi, sia in quello che riescono a dare al pubblico, per quanto il film riesce a comunicare, emozionare, divertire; e permette a entrambi un salto, un passaggio che non succede spessissimo, però nel cinema statunitense può succedere: quando la completezza artistica dà anche un immediato riscontro. Si parla di successo relativo, per film a budget così ridotto se si incassano più di 10-15 milioni nel mondo ci si può dire soddisfatti. È Frances Ha che fa fare un viaggio a tutti e due, che li accredita: G viene scoperta anche dagli spettatori non necessariamente cinefili e non appassionati di indie radicale e B si conferma dopo un paio di tentativi come un regista non solo di belle sceneggiature e di bei personaggi, ma che sa anche fare cinema.
Baumbach ha firmato più flop che successi al botteghino, eppure ha sempre trovato i finanziamenti per continuare a fare film e per di più film come li voleva lui, con una grande libertà autoriale, la stessa che poi ha contraddistinto i primi due film da regista di Gerwig. Questa libertà è un grande privilegio e non è così comune, quanto è importante nel definire questi due percorsi artistici, e quanto ne determina l’unicità?
Rauco: L’indipendenza è una risorsa in questo, perché non essere sottoposti agli interessi economici di una major permette di avere a che fare con produzioni il cui interesse è che il film sia bello, possa comunicare, che tu come artista riesca a dire ciò che vuoi dire. All’interno dell’industria quando vengono percepiti come autori d’interesse culturale, la casa di produzione (di solito medio-piccola e che investe un budget limitato) è quasi più interessata a far sì che il film sia una sorta di fiore all’occhiello che all’incasso: lo scopo è avere nel proprio portfolio film che vincono dei premi, che hanno un riscontro positivo ai festival e dalla critica. È una certa dose di furbizia che a un certo punto porta Baumbach a legarsi a Netflix, che gli mette a disposizione budget se non superiori, quantomeno più sicuri rispetto a produzioni che invece potrebbero ritirare all’ultimo momento il loro sostegno, come gli è successo a inizio carriera. Paradossalmente legarsi a una major – perché Netflix ormai di fatto lo è, però non ha un interesse economico così stringente – permette a Baumbach di avere ancora più libertà e di fare i film più complessi della sua carriera.
Strazza: La loro libertà è legata al privilegio di essere due artisti che per varie vicissitudini si sono sempre ritrovati a lavorare sui film che volevano, sulle storie che volevano raccontare: sono bianchi e di una certa estrazione, quindi hanno accesso un tipo di materiale diverso. Sarebbe molto interessante, vista anche la predisposizione che ha GG verso lo storytelling popolare, vederla in futuro affrontare un tipo di produzione in cui si ritrova a dirigere sceneggiature di altri con grandi produzioni. Finora ha avuto il privilegio di fare i film che voleva, di farli a modo suo, senza alcun tipo di limitazione, anche per Piccole donne nonostante la produzione sia la Sony, è stata Amy Pascal ad andare da G e a proporle di fare Piccole donne e di farlo a modo suo.
Strazza: Il primo motivo è perché non c’è nient’altro. Pregiatevi dell’onore di leggere la prima monografia italiana su Noah Baumbach. Il secondo motivo è che credo che Emanuele abbia una capacità di analisi che è la sintesi perfetta tra un modo di fare critica tradizionale, di stampo accademico, e un modo molto contemporaneo. Non trascura affatto la parte legata all’empatia e al sentimento. Lo consiglierei come lettura propedeutica per cominciare ad approfondire un cineasta su cui si è scritto poco e anche abbastanza male, per dei preconcetti quali per esempio il paragone molto banale con Woody Allen: finora l’attenzione è stata rivolta su quali siano i modelli cinematografici di B, sul trovare somiglianze e riferimenti, trascurando invece quello che rende B unico e indipendente a tutto tondo, non solo nel senso di indie.
Rauco: Nel panorama della saggistica e della critica cinematografica ci si concentra quasi esclusivamente sul lavoro del regista, e il lavoro dell’attore è sempre raccontato in relazione al lavoro che il regista fa sull’attore. I libri dedicati agli attori hanno sempre una dimensione biografica. Cecilia invece nel suo libro fa un lavoro su GG che restituisce dignità al mestiere dell’attrice, non semplicemente come mezzo per comunicare le emozioni della sceneggiatura o le idee del regista, ma come lavoro creativo autonomo: qualcosa che si fa pochissimo con l’attore. Si tratta in questo caso di un’attrice che, proprio per il tipo di scelte artistiche che fa, è anche una coautrice, a volte in maniera letterale, a volte per le capacità e idee creative che mette all’interno del progetto dei film. G mi sembra catalizzare alcuni dei temi più importanti dell’evoluzione del cinema contemporaneo, o quantomeno del discorso culturale che si fa intorno all’audiovisivo contemporaneo soprattutto statunitense: in particolare per quanto riguarda la costruzione di una figura di donna che ha un potere creativo e produttivo, e che lo usa in modo diverso da come lo userebbe un attore maschio. Fare un lavoro critico su un’attrice e farlo nel momento in cui questa attrice condensa intorno a sé tanti discorsi aperti nella contemporaneità mi sembra un ottimo motivo per leggere il libro e mi sembra anche coerente con il percorso critico che Cecilia porta avanti anche altrove nella sua produzione scritta – penso a Just Like Honey, il libro che ha scritto insieme a Martina Ponziani su Sofia Coppola.
Lasciamoci con uno sguardo al futuro: che cosa vi aspettate dai nuovi progetti in cantiere, da Rumore bianco e da Barbie con Margot Robbie?
Strazza: Di Rumore bianco ho appena acquistato il libro, non so che cosa aspettarmi, da quanto so sulle atmosfere di DeLillo ho un po’ paura. Per Barbie c’è grande entusiasmo da parte mia perché si sono combinati una serie di piani astrali: ci sono B e G, che scrivono insieme, lei dirige, Margot Robbie che recita e produce. Mi sembra una roba veramente detonante e non vedo l’ora. È stato descritto come un progetto assurdo, qualcosa per cui “reggetevi perché se pensate che sarete sopresi lo sarete di più”. La cosa che mi incuriosisce di più è il tono che useranno, perché sono artisti che hanno all’interno del loro arsenale tutte le armi possibili: commedia, dramma… Lo aspetto per Venezia 2022 o 2023.
Rauco: Rumore bianco potrebbe essere il salto dello squalo di B. DeLillo è uno scrittore infilmabile per antonomasia, ha cercato di sottrarre quella natura iconica che la narrativa statunitense ha e ha sempre avuto, che l’ha resa popolare in tutto il mondo, per restituire il peso della pura parola. Penso a DeLillo come a un Herman Melville del XX secolo e l’idea di mettere in scena un film da DeLillo richiede un lavoro sull’immagine e sulla negazione stessa dell’immagine che non mi immagino da uno come B. Tuttavia nel momento in cui un regista è arrivato a più di vent’anni di carriera, anzi quasi trenta, e ha una sua credibilità presso lo star system, presso l’industria e presso la critica (che ha già il proiettile in canna perché si va a toccare De Lillo), immagino che perlomeno un’idea di come uscirne vivo ce l’abbia, poi magari non gli riesce però non mi pare il progetto di uno che si butta a corpo morto. È talmente ambiziosa come idea che forse la sfanga anche.
Per Barbie mi aspetto l’esaltazione di tutto ciò che racchiudono i cultural studies, tutto quello che abbiamo predicato per anni: che la cultura pop e il giocattolone – a partire dal giocattolo fisico la Barbie fino ai film giocattolo – potessero dire qualcosa sul mondo e sul cinema stesso; e questo vale anche per la musica e per le serie tv. Tutto questo potrebbe trovare in Barbie il sugello perfetto.