Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano
Fabrizio FogliatoVi proponiamo, per gentile concessione dell’editore, uno stralcio dal nuovo libro di Fabrizio Fogliato, “Con la rabbia agli occhi” (Bietti, pp. 762, € 24)
Il cinema criminale è un incrocio di letteratura (Gadda, Pasolini, Albinati), storia (Piazza Fontana, i “golpi bianchi”, la P2), cronaca nera (“la Banda della Magliana”, il massacro del Circeo). Matura e prende forma nel conflitto tra cittadini e delinquenti che squarcia la società italiana dal Secondo dopoguerra e genera sperequazione, fame, delatori, profittatori e parassiti. Prendendo in considerazione oltre 200 film e 85 opere letterarie, e accumulando trame, battute di sceneggiatura, stralci di romanzi o verbali della polizia, resoconti psicanalitici, dichiarazioni di giudici e commissari (veri e finzionali) Fogliato, con la benedizione di Romolo Guerrieri che firma la prefazione, assembla un tomo definitivo e caleidoscopico sulla Storia del nostro Paese, così come si è originato da una “scena primaria” felice e insidiosa: il boom del benessere ha creato mostri che ancora imperversano.
Fabrizio Fogliato (Torino, 1974) è coordinatore didattico e docente all’I.S. Starting Work di Como, è autore di saggi su Ferrara, Haneke e Jacopetti. Collabora con “L’Ordine” con articoli di storia del cinema dal 2016.
Redazione ©L’ordine febbraio 2023
A metà degli anni ’70 un’ondata di preoccupazione e sdegno attraversa tutta l’Italia in merito a sanguinosi episodi di violenza in cui gli uomini della Pubblica Sicurezza hanno perso la vita o so-
no stati gravemente feriti. Il sentimento comune ha trovato espressione nella protesta, inconsueta e legittima, che gli uomini della P.S. hanno sollevato in varie città d’Italia richiamando ognuno alle proprie responsabilità.
Alla base di tale ferma e decisa manifestazione c’è la richiesta che lavoro e sacrifici non siano vanificati, che non si moltiplichino, all’interno della società, i fattori di rischio capaci di rendere inefficace la loro azione.
La più importante di queste richieste è indirizzata a sveltire le procedure e a renderle congrue
– nei modi e nei tempi di applicazione – affinché la delinquenza non possa profittare delle smagliature presenti per poterne uscire indenne. In quest’ottica gli uomini della P.S. chiedono che,
senza violare la legge, si torni ad usarla per i fini per cui è stata concepita: la tutela dell’ordine comune e dei diritti dei cittadini.
Le richieste degli uomini di P.S. hanno, lentamente, fatto breccia nel cuore delle istituzio-
ni, trovato punto di convergenza, sia in un rinnovamento delle predisposizioni di tutela all’ordine
pubblico, sia in un cambiamento, strutturale e istituzionale, della Polizia stessa.
Sul piano della riforma strutturale l’impatto più grande – anche dal punto di vista visivo – è quello sulla Volante, «la più giovane e spericolata specialità della Pubblica Sicurezza» (così, ufficialmente, definita da “Polizia Moderna”). Molti neo-arruolati chiedono di far parte di tale squadra, ma per entrarvi necessitano due anni di anzianità nel Corpo, particolari doti di coraggio e reattività. Rappresenta l’acceleratore di ogni intervento di Polizia: la chiamata al “113” attiva le pan-
tere della Squadra Volante; si accende il lampeggiante blu, si attiva la sirena e, bloccandolo, si at-
traversa il traffico per giungere, il prima possibile, sul luogo della
rapina o del delitto – contro la persona o la proprietà – in atto.
Auto e pericoli
L’automobile è un’Alfa Romeo Giulia 1600 (col motore potenziato) e dotata di radiotelefono; l’equipaggio è formato da tre uomini: un appuntato e due guardie. L’autista ha frequentato un corso di cinque mesi per apprendere caratteristiche e trucchi della guida veloce. Gli uomini so-
no armati di pistola calibro 7.65 modello 34 e le due guardie hanno in dotazione anche il mitra MAB cal. 9 lungo mod. 4.; entrambe vengono, poi, sostituite con la pistola mitragliatrice Beretta mod. 12 cal. 9 parabellum e con la Beretta “Brigadier” mod. 51 cal. 9 parabellum.
Per la Squadra Volante è costante il contatto radio con la sala operativa della Questura. Lo
stesso equipaggio – grazie alla memoria del computer – riceve una serie di foto, con foto del-
l’esterno e planimetria della banca, in modo da consentire agli agenti di intervenire tempestiva-
mente e in sicurezza. Pertanto, quando un agente della Squadra Volante inizia il suo turno è con-
sapevole che potrà essere chiamato ad operare su più fronti: guidare ai 180 Km/h, diventare bersaglio di revolverate o raffiche di mitra, fronteggiare esplosioni. Egli è consapevole delle re-
sponsabilità che gravano su di lui e della prontezza di riflessi – nonché tempestiva e fredda valuta-
zione dell’evento che deve fronteggiare – con cui reagire in modo appropriato e professionale: non
è chiamato a comportarsi come un agente con licenza di uccidere, bensì ad utilizzare le armi con
prudenza e raziocinio. Anche sul piano estetico il cambio dei colori della livrea delle automobili
della Polizia rappresenta, non solo un cambio di prospettiva nella visibilità e riconoscibilità,
ma, anche, l’imprinting di un nuovo modo di operare e di intendere l’azione di Polizia. La presentazione avviene a Villa Miani a Roma il 23 gennaio 1976.
Nuovo modello
La nuova linea entra in vigore con gradualità e – come mostrano bene molti film del periodo – si
assiste, a partire dalla seconda quindicina di febbraio ’76, ad una commistione di auto verdi mili-
tari e azzurro-bianche che, col passare del tempo, si uniforma attorno al nuovo modello. Pro-
prio il modello cinematografico: sviluppa una serie di ragionamenti attorno alla figura del commissario di Polizia, del poliziotto e del relativo modo di operare degli stessi che, certamente,
non collima con la realtà; ridisegna l’immaginario collettivo, intorno al mondo della Polizia, su
caratteri iperrealisti, ideologizzati, letterari, strumentali e popolari, per restituire un’immagine corrispondente a quella della finzione e, quindi, in grado di solleticare, soddisfare – ma anche
urtare, disattendere – le aspettative dello spettatore (cittadino). Il primo tassello di questo per-
corso è rappresentato da “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (1969) di Elio Pe-
tri. Friedrich Dürrenmatt – a proposito del suo “Der Verdacht” (“Il sospetto”, 1951) – postula che
un delitto distinto è la premessa ad un mondo grottesco. Per l’autore svizzero è la quinta del dramma a generare la farsa; lo sguardo esterno, sottecchi rispetto al palcoscenico, restituisce – attraverso le vicende umane rappresentate – il tono grottesco al racconto. Si può giungere alla giustizia autentica solo spogliandosi di tutte quelle sovrastrutture che la società civile ha definito per perseguire un disegno ideale della stessa: il risultato non può che essere un gioco, una farsa in
cui l’alternanza di colpa e consapevolezza delinea il processo.
Quelli di “Indagine” sono anni aspri, attraversati da conflitti sociali laceranti; il terreno ideale per consentire – in termini dürrenmattiani – un’attenta riflessione sulla giustizia e sul potere che la regola. Il risultato non può che essere che, all’interno di questo dramma, al di là delle peculiarità giuridiche, sia l’assunzione consapevole della colpa, temprata dalla declinazione parodica, a definire la maschera grottesca (del commissario) che, della legge e delle sue dinamiche, se ne fa interprete distorto.
Potere e dialetti
La marcata onomatopea, unita ad una gestualità forte e barocca, ma anche ridicola e ridondante,
lo accompagnano nel delirio di onnipotenza che lo conduce alla strutturazione di una messa in scena teatrale in cui egli deve risultare – secondo l’inversione paradossale della parodia – il solo e unico colpevole. Elio Petri utilizza il dialetto in rapporto alla koinè linguistica italiana come uno spazio di azione che consente di definire, secondo scarti linguistici, la tipizzazione del personaggio endemico al discorso sul potere.
La rigida maschera del potere è intrinseca alla figura del “dottore” in quanto entità generica e astratta, ed è necessaria per occultare la sua indole infantile, fragile: la sua forza si manifesta nel ruolo che esercita pubblicamente (Questura), la sua virilità è vilipesa nel luogo in cui vorrebbe esercitare privatamente la sua forza (l’alcova – «Vicino a lei ogni giorno di più si rivela il mio in-
fantilismo, la mia incompetenza umana»). Ciò determina che la scena del crimine è lo spazio di realtà: il palcoscenico su cui agire una performance liberatoria attraverso un’onnipotenza che nasconde l’impotenza.
Per il protagonista, l’accesso alla limitatezza del reale passa attraverso la trasgressione della legge (prima), l’assunzione della colpa (poi), l’accettazione della punizione (infine).
Fabrizio Fogliato ©L’ordine