Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano
Fabrizio Fogliato“Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”. Questa definizione del concetto di perturbante elaborata da Sigmund Freud in un suo celebre saggio del 1919 (Das Unheimliche) è una degli strumenti che, fin dall’introduzione, Fabrizio Fogliato offre al lettore quanto mai trasversalmente cinefilo (in un’accezione che andremo a vedere e che riguarda vari livelli nel rapporto tra lo spettatore e la produzione cinematografica esaminata e sviscerata) per approcciarsi alla lettura del suo torrenziale volume Con la rabbia agli occhi: itinerari psicologici nel cinema criminale italiano, che prende in considerazione un arco temporale, dagli anni ’50 ai primi anni ’80, attraversato dalle più profonde e laceranti mutazioni vissute dalla società italiana e, specularmente, segnato dal più prolifico e ricco fermento in una prospettiva intellettuale e culturale.
Tornando all’assunto freudiano, l’oggetto di studio del libro, ovvero il cinema criminale e nero realizzato in Italia nel periodo succitato, viene calato in una stratificazione di sensi, traiettorie/itinerari e questioni che superano immediatamente un primo livello di lettura cronachista, narrativa o strettamente collegati all’evento criminoso (la cronaca nera era una fonte abbastanza inesauribile di riflessione per scrittori e sceneggiatori). I fatti diventano espressione, anzi portano in emersione, seppur in una sorta di acquitrino stato melmoso, una tormentata, aggrovigliata, patologica psiche collettiva di una società, un flusso di immagini che arrivano fino alla soglia dell’upgrade edonistico degli anni ’80; una terra di mezzo che veniva letteralmente dilaniata negli strati più bassi e marginali dalla ceneri ancora fumanti di una miseria post bellica e dalla prossima venuta, altrettanto violenta e traumatica, del benessere economico che ridefinisce e riconfina i rapporti tra classi e individui.
Il libro procede dunque intrecciando una serie di piani che riguardano un epocale cambio di registro nell’aspetto formale e contenutistico, indicando dei momenti cruciali di questa trasformazione, di questo nuovo lunghissimo viaggio al termine di una notte che, restando nei termini di un linguaggio freudiano, appare terrificante e riconoscibile (forse terrificante perché riconoscibile) insieme.L’eloquente assunto è ben reso nell’ espressione “palazzo degli ori”, uno dei capitoli del libro, dal nome del trattamento cinematografico che Carlo Emilio Gadda aveva realizzato per una delle sue opere più innovative e potenti Quel pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), dove una doppia indagine per furto ed omicidio in una palazzina dell’alta borghesia nella Roma degli anni 20 si fa (pre) testo per immergersi in una fitta rete di collegamenti, incontri, legami non vincolati solo dalla nomenclatura parentale o dall’identità sociale; un crocevia di rapporti di potere, ridotti nella loro variante più schematica, riduttiva ma irriducibile, di servi e padroni, che catalizzano tutte le più aberranti e basiche pulsioni di possesso e violenza. Una brama contagiosa, un frutto bacato che dalla vittima, la ricca borghese Liliana Balducci, si allarga fino a toccare i lembi di un nucleo familiare sotterraneamente corrotto, perverso ed egoriferito , o riferito solo alla roba-oro che circola all’interno di uno spazio d’azione, focolare non domestico di un rimosso espulso dalla finestra del salotto e fatto rientrare dalla porta di servizio. Una febbre dell’oro che si espande e non risparmia nessuno dal contagio, in particolare i poveri e gli esclusi, un elemento che l’autore, parafrasando la visione gaddiana, identifica come “una spietatezza endemica e biologica insita nelle classi subalterne”.
La scelta di analizzare questa forma incompiuta, ulteriore esperimento rispetto alla già audace rivisitazione della forma romanzo che era stata il Pasticciaccio, a metà strada tra la letteratura e il cinema come lo script che Gadda trasse dal suo libro (asciugandolo nelle parti più speculative e introspettive relative l personaggio dell’ispettore Ingravallo) diventa fluviale movimento dentro anzi, diremmo, nelle profondità del quale Fogliato cerca di collocare trent’anni di cinema di genere: una definizione questa che , specialmente a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 , si faceva semanticamente malleabile perché riguardava anche la formazione e la trasformazione di una poetica post neorealista: ancora una volta Gadda è il punto focale di questo detour e un cineasta, nonché corpo attoriale, come Pietro Germi, colui che intercetta le tensioni di un immaginario in cosi stretta correlazione ed espressione con un racconto attaccato alla, anzi sotto la, pelle della realtà.
Da questo fecondo groviglio (“gnommero” scriverebbe Gadda) nasceva Un maledetto imbroglio, l’effettivo adattamento che Germi fece del Pasticciaccio brutto, realizzato nel 1959, nel quale lo stesso regista genovese non a caso interpreta il commissario Ingravallo (così come sarà ancora volta il commissario, ovvero la parafrasi dello sguardo sempre posizionato, immerso e (per)turbato nel voler conoscere e comprendere del regista-investigatore , ne Il rossetto, opera prima in venatura di cupa di indagine di costume diretta da Damiano Damiani, realizzata appena un anno dopo, nel 1960). Un’ opera quella germiana che arriva alla fine di un decennio in cui i tormenti esistenziali e la precarietà economica e sociale, residui del trauma post bellico che aveva reso una gioventù fragile e sperduta sempre più dissoluta e rapace ora per disperazione ora per spregiudicatezza (si vedano ancora due film analizzati da Fogliato come Roma ore 11 di Giuseppe De Santis e Febbre di vivere di Claudio Gora, che restituiscono l’eterogenea complessità della situazione), verranno sepolti dalla luccicanza (di latta, più che dorata) degli anni ’60; l’epoca di un boom che produce il (dis)valore di un mondo capovolto, dove risulta attraente, erotico e potente lo spazio identitario lasciato, a causa di un vuoto di valori, in mano alla deriva criminale ed antisociale.
E tra i passaggi di una cosi radicale mutazione antropologica , rispetto alla quale il cinema nella sua valenza più popolare e collettiva si fa immediatamente, in itinere, l’amplificatore di un febbricitante e non risolto disagio, Fogliato prende ancora in analisi una forma ibrida tra il filmico e il letterario: parliamo della sceneggiatura in potenza, poi pubblicata come racconto, de La nebbiosa di Pier Paolo Pasolini (commissionatagli dall’industriale milanese Renzo Tresoldi e poi diventata un film, Milano Nera, diretto da Gian Rocco e Pino Serpi, che nulla aveva a più a che fare con lo script originario pasoliniano). La prospettiva contenuta nei suo romanzi (il dittico Ragazzi di vita/Una vita violenta) e nei primi film (Accattone e Mamma Roma), dove erano i ragazzi del proletariato romano ad essere osservati, tra trasfigurante, dolente pietas e un’amara, premonitrice lucidità, “ragazzi privi di tutto-anche di rappresentanza politica, riconoscibilità di classe, prospettive virtuose – che si abbandonano facilmente a una deriva volgare e crudele in cui la violenza diventa l’unica violenza ascoltata dagli adulti, dagli altri” come scrive Fogliato, viene rovesciata; ne La nebbiosa si indaga l’altra gioventù, peraltro specularmente situata nell’altro polo geografico di questa mappa del male(ssere), Milano (l’emblematica dicotomia tra i due capoluoghi, quello laziale e quello lombardo, potrebbe essere definita un’ulteriore aspetto/espressione del freudiano elemento unheimlich alla base dello spirito e della pratica analitica di questo libro). Ne sono protagonisti i cosiddetti teddy boys, termine importato, anche se non del tutto pertinente e appropriato, da quella che sarebbe stata da lì a poco la english invasion, un fenomeno fortemente penetrato nella lingua, nel costume, finanche nei comportamenti e nelle abitudini (di cui qui si analizza criticamente l’aspettato degenerato e amorale di un giro di vite a perdere). Ragazzi dell’alta borghesia che galleggiano nel vuoto dell’oro /roba/materia, nella capitale della produttività, del pragmatismo e dell’industria, nell’oblio etico e morale del neocapitalismo liberalista avidamente focalizzato sul progresso tecnico come strumento di conquista e di espansione.
Individui che, secondo il pensiero di Pasolini riportato con precisione e puntualità da Fogliato, sono “il prodotto di un paternalismo sciocco e di una presunzione pedagogica”, “il parto deforme della società, simbolo di una omologazione fascista che ha origine dalla borghesia e produce selvaggi, superficiali e sadici”. Una sceneggiatura che raccontava dunque di una notte di Capodanno balorda e nebbiosa di un banda di teppisti benestanti che applicano la loro ingiustificata e gratuita violenza, in una descrizione cruda, desolata e non negoziabile su un piano di rappresentatività e visibilità (e dunque condannata a rimanere, almeno ancora, non rappresentabile e invisibile se non in una versione più ammorbidita e tollerabile). E a proposito di itinerari, proprio quelli contenuti nelle due sceneggiature gaddiane e pasoliniane sembrano condurre , tra il sottosuolo di una rabbia giovane e la superficie di un vitalismo mortifero, alla sempre più immediata, nucleare, necessaria brutale espressione di un genere che assume e modifica i connotati del proprio tempo, ne condensa la suddetta stratificazione letteraria e si fa istantanea-istant movie di un microcosmo cittadino, provinciale, di quartiere. Il tono è sempre più parossistico, allucinato, grottesco: né è lo stigma sgomento il dittico di Carlo Lizzani, Svegliati e uccidi (1966, sul bandito Luciano Lutring) e Banditi a Milano (1968, sulle azioni criminali di un gruppo di rapinatori di banche, la banda Cavallero) introduce l’abbrutimento e il disfacimento di un tessuto socio-politico-economico all’interno del quale l’istinto di sopraffazione, distruzione e caos prenderà il sopravvento, in particolare negli anni ’70, periodo di massimo rispecchiamento della realtà/cinema/ immaginario dentro al mood cromaticamente decrescente del poliziesco, del nero e del thriller.
Tutto si incupisce, si fa straniante e disturbante, non ci sono più connotazioni che differenziano un individuo dall’altro e ne inseriscono le azioni in un quadro, seppur in accelerato sfracello, com’ era ancora verificabile e tangibile nella società italiana e nel relativo cinema che la raccontava negli anni ‘50/’60. Si veda la centralità in tal senso che Fogliato conferisce a un film che definisce, a ragione, “opera obliqua e indecifrabile”, come Ingrid sulla strada (1973) di Brunello Rondi e la risonanza interna che ne svela, con Accattone di Pier Paolo Pasolini, nel passaggio da un paesaggio ancora arcaico e contadino a uno totalmente inghiottito e sfigurato dalla meccanicizzazione /automatizzazione . Identità corporea, mutati mutandis, di questa ulteriore transizione è Franco Citti che torna a fare il protettore e lo sfruttatore di giovani prostitute, ma questa volta all’interno una struttura dove il denaro ha assunto un peso specifico che va ben oltre il limite della sopravvivenza giornaliera e ed è la base per la costruzione di un fitto, laido sistema criminale, con il corpo, quello femminile in particolare, ridotto definitivamente a merce da vedere o, qualora mostrasse ancora un qualche sussulto di resistenza e indignazione, da sopprimere ( come accade appunto alla Ingrid del film di Rondi ) . Scrive, infatti, il nostro autore “I ragazzi di vita hanno perso ogni colpevole innocenza e, triturati dalla logica della società dei consumi, hanno intrapreso la via del crimine tout court attuando con efferata spietatezza le logiche del mercato, lasciando alle spalle ogni barlume di umanità”.
Un’ombra lunga che dai vicoli, dai marciapiedi e dagli anfratti si innalza ai misteriosi e oscuri palazzi del potere, quello più dichiaratamente politico e giudiziario. Uno Zenit dal quale ci osserva dalla copertina del libro, in un fotogramma tripartito, virato in basso e in alto nel bianco e nero del negativo che vuole riflettere, il volto più emblematico e mefistofelico: Gian Maria Volontè, nella maschera dell’innominato dirigente di polizia in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, geometrico e implacabile teorema della vittoria del male sul bene, della corruzione sulla virtù, del perverso individualismo sull’utopica collettività (la collaborazione tra Volontè ed Elio Petri verrà presa in considerazione sopratutto nell’incubo pamphlet senza ritorno e senza appello di Todo modo, pre annunciazione sciasciana del fatto nero e criminale per eccellenza, il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro).
E il processo, a tutti i livelli, si è compiuto anche per noi lettori e spettatori: quel salto nell’ abisso in cui , come scrive Fogliato, “Il cittadino- sia quello mostrato sullo schermo, sia quello che guarda lo schermo seduto in sala- subisce uno processo di regressione dai tratti ostentatamente autocommiserativi e si deresponsabilizza evidenziando tutta la propria immaturità. La sadica ferocia della massa (criminale e non) ha la stessa discendenza della vittima masochista , silenziosamente rassegnata, o scriteriatamente ribelle”.
Fabrizio Croce ©Closeup.info luglio 2023