Chi è Jason Blum, fondatore e amministratore delegato della Blumhouse Productions, che paragona il proprio lavoro a quello dei cercatori di gemme e segue due semplici motti (“Less is more” e “High concept, low budget”)? Il re Mida dei film thriller e horror a basso budget, mercato di cui è il leader assoluto dal 2009? Il nuovo Roger Corman, capace di generare il massimo profitto con la minima spesa, nonché il pigmalione di Mike Flanagan, Damien Chazelle, Jordan Peele e di tanti altri giovani autori rampanti? L’uomo che ha restituito il botteghino a M. Night Shyamalan, fatto vincere l’Oscar a Spike Lee, convertito Ethan Hawke all’horror e permesso a James Wan e Leigh Whannell di emanciparsi finalmente da Saw? Il pioniere delle strategie di marketing e distribuzione 2.0?
Colui che sa (quasi) sempre intercettare i gusti del pubblico, ma che, al tempo stesso, concede massima libertà (e persino il final cut) ai propri registi? Il produttore lungimirante, che, “mentre Hollywood continua a parlare dell’importanza di dare più spazio a registe e minoranze etniche”, ha capito da tempo che “un ambiente multirazziale favorisce freschezza di idee ed energia”?
Tutto questo e probabilmente molto di più, come spiega Matteo Marescalco in Blumhouse Productions. La casa americana degli orrori (Bietti, pagg. 296, € 20,00), il primo volume dedicato alla factory cinematografica che, citando la prefazione di Patrick Brice (regista, sceneggiatore e attore, lanciato proprio da Blum), “si è fermata come brand in un periodo in cui molte case di produzione hanno faticato a trasformarsi in marchio riconoscibile per il pubblico. Mentre alcune hanno nicchie di spettatori devoti, Blumhouse è stata in grado di dare vita a prodotti per il pubblico di massa. […] Ha condotto un lavoro fantastico nell’ambito dell’immaginario di genere e, allo stesso tempo, è stata capace di rinnovarlo: Blumhouse rispetta le aspettative dei fan dell’horror dando vita a film dai budget molto contenuti, ma rilegge anche le tradizioni, rivoluzionando soggetti e toni”.
In effetti, leggendo il libro, se da un lato si comprende appieno l’attualità dei temi (l’istituzione familiare, l’elaborazione del lutto, i diritti umani e politici, le disuguaglianze sociali, l’attenzione all’ambiente, la mascolinità tossica, i problemi dell’adolescenza, il concetto identitario e, soprattutto, la complessità delle figure femminili), dall’altro, al di là dell’efficacia dell’high concept (ovvero trama basata su un’idea immediata, accattivante e riassumibile in una frase), si resta colpiti dalle poche, ma efficacissime regole stilate dalla Blumhouse per contenere i costi: privilegiare un’unica location (meglio se un appartamento), condensare le riprese in un lasso di tempo compreso tra i 22 e i 25 giorni, evitare sequenze d’azione che prevedano grossi effetti speciali, limitare le “parti parlate”, pagare gli attori con salario base (più eventuali bonus direttamente proporzionali al successo commerciale del film) e creare dei collaudati team di lavoro, favorendo così una sorta di atmosfera familiare che porta i membri della troupe a capirsi al volo.
“Nel migliore dei casi, Hollywood potrebbe finalmente decidersi a dare concreto spazio a persone che hanno sempre dovuto muoversi nell’ombra, e in Blumhouse hanno trovato un posto al sole” dichiara Marescalco, ma “una cosa è certa: il futuro del cinema horror e della diversità a Hollywood passa (anche) da Jason Blum”. Dopo un’introduzione che contestualizza lo sviluppo del cinema horror, sia a livello di rapporto col pubblico (e con le sue paure ancestrali), sia a livello di specifiche correnti (ovvero il Gothic Revival, 1896-1931, il Depression Horror Cycle, 1931-1938, l’Age of Anxiety, 1942-1967, il New American Horror, 1968-1978, l’horror seriale, 1980-1999, il Torture porn, 2004-2007 e l’Elevated Horror, 2008-2022), il volume racconta prima la parabola professionale di Blum (segnata dallo smacco di essersi lasciato sfuggire The Blair Witch Project) e poi analizza con dovizia i vari ambiti tematico-stilistici affrontati, vale a dire l’escamotage del mockumentary (Paranormal Activity, 2007), il topos della casa infestata (Insidious, 2010, Sinister, 2012, e Oculus, 2013), l’attacco socio-politico lato più oscuro dell’America (dalla saga transmediale de La notte del giudizio, 2013-2021, al caso The Hunt, 2020, passando per Scappa. Get Out, 2017, e Noi, 2019), i drammi indipendenti da Oscar (Whiplash, 2014, e BlacKkKlansman, 2018), la dimensione spaventosa del Point of View (Creep, 2014, e The Visit, 2015), le
insidie della tecnologia (Unfriended, 2014, e Upgrade, 2018), il teen horror (Auguri per la tua morte, 2017, e Obbligo o verità, 2018), il multiverso secondo Shyamalan (Split, 2016, e Glass, 2019), il remake/reboot (la nuova trilogia di Halloween, avviata nel 2018), le implicazioni del movimento #MeToo
nel genere home invasion (Black Christmas, 2019, e L’uomo invisibile, 2020) e la (mini) serialità televisiva, con focus su Sharp Objects (2018), The Purge (2018-2019), Into the Dark (2018-2021), The Loudest Voice (2019) e The Good Lord Bird (2020).
E ora che, grazie a Bietti, il ghiaccio delle pubblicazioni italiane su Jason Blum è stato rotto, che la festa (da incubo) continui. Perché il nostro non ha certo intenzione di fermarsi.