Quando Charles Baudelaire se ne andò, lasciando una lunga scia di dolore, ma anche nell’indifferenza dei più, il 31 agosto 1867, a poco più di quarantasei anni, aveva già scritto tutto. Di più avrebbe potuto fare, ovviamente, ma i suoi “Fiori del male”, unitamente all’edizione francese in cinque volumi dell’opera di Edgar Allan Poe ed innumerevoli scritti di arte e letteratura, oltre ad occasionali contributi sparsi su giornali e riviste, dimostrarono al pubblico colto, e poco dopo anche a quello meno avvertito, la sua grandezza. Un prodigio di creazione fu la sua vita che “a caldo” la descrisse, sotto l’impeto dell’emozione e della disperazione, il suo più caro amico, Charles Asselineau (1820-1874), che quasi ne raccolse l’ultimo respiro dopo essergli stato fedele per tutta la vita, soprattutto quando i sedicenti estimatori abbandonarono il poeta perché così esigevano l’opportunismo e lo spirito del tempo. Asselineau, bibliofilo coltissimo, critico d’arte e novelliere, è una figura di spicco della letteratura francese del Novecento, in Italia pressoché sconosciuto. Ancor più meritevole, dunque, che le edizioni Bietti ne abbiano pubblicato il libro su Baudelaire del quale, come disse Théodore de Banville, sodale di entrambi, se lo si vuol conoscere bisogna leggere la biografia di Asselineau. Che non è una biografia “classica”, va detto, piuttosto è la presa in diretta di una lunga e sedimentata emozione lasciatagli nell’animo dall’autore dei “Fiori del Male”. Ma sbaglierebbe chi ad essa si accostasse immaginando che si tratti soltanto di una apologia in memoria dell’amico defunto. Asselineau, paventava il pericolo di una “minimizzazione” simile e prudentemente, come spiega Massimo Carloni nella puntuale e ricca introduzione, “alle vicende biografiche il libro alterna un primo studio critico dell’opera che annuncia l’avvento della modernità nella cultura del tempo, delineandone i soggetti, i luoghi, le forme e, per certi versi, il destino, segnato da una visione metafisica che in Baudelaire rimane profondamente antimoderna”. Non è poco. Anzi, è moltissimo. Ed è ragionevole ritenere che se Asselineau ha inteso marcare questi caratteri dell’opera e del pensiero baudelairiani è perché intimamente convinto della fisionomia umana e culturale dell’amico, trasparente oltre che dalle opere anche dalla sua vita privata e di relazioni a cui prese parte dal 1850 come comprimario, confidente, “consolatore”. Tanto da poter dire, sulla sua tomba: “Ha patito tutti i dolori e le agonie; e, per di più, lo ha fatto nobilmente, degnamente, da filosofo rassegnato e forte. E’ stato debole, abbattuto, spezzato, miserabile: insensato mai!”. E’ questa la sintesi, riuscitissima, della vita di Baudelaire. Se anche non avesse scritto altro, Asselineau avrebbe potuto trasmettercela con queste poche, eloquenti parole. Ed infatti cos’altro si può dire dell’ascesa e della caduta e della rinascita e della fine di un poeta la cui parabola, per quanto breve, è stata folgorante come poche altre non solo nell’Ottocento tanto che ancora oggi è uno dei poeti più studiati ed indagati, dal momento che la sua poesia è continua fonte di ispirazione per gli “spiriti liberi”, i non convertiti, gli amanti delle “negazioni assolute e delle affermazioni sovrane”? Senza mezzi termini Baudelaire si esprimeva su tutto e tutto giudicava passeggiando con Asselineau per i boulevard, frequentando trattorie malfamate e sontuosi salotti, rintanandosi in appartamenti microscopici dove c’era posto soltanto per i suoi libri ed i suoi pensieri, a Parigi come nella amata Honfleur davanti al mare dove si perdeva il suo sguardo. Ma chi era Baudelaire? Un sognatore, forse un mistico, magari un rivoluzionario? Niente di tutto ciò. Era un uomo che prima di tutto “viveva”, dice il suo biografo. E che, dunque, amava la vita in tutte le sue forme fino ad imbarcarsi, pur di goderla, nelle avventure più spericolate al punto di subire rovesci economici dai quali non si sarebbe mai più ripreso e guadagnare anche la via dell’esilio, a Bruxelles, amata e odiata, dove la sua decadenza rapidamente si accentuò per portarlo poi alla morte. “Curioso, contemplatore, analitico – scrive Asselineau -, portava a spasso il pensiero, di spettacolo in spettacolo, di conversazione in conversazione. Lo nutriva d’oggetti esteriori, collaudandolo con la contraddizione; l’opera, così, era il compendio della vita o, piuttosto, il suo fiore”. Definizione migliore non si potrebbe trovare. Resta soltanto da aggiungere che quei “fiori”, ancora e per sempre profumatissimi, subirono l’onta del processo, dell’irrisione, della censura. A testimonianza che ogni tempo ha i suoi imbecilli e perfino nella patria della dea Regione si poteva mettere in discussione alla metà del secolo del progresso, la forza di un’anima che gli spiriti migliori dell’epoca ponevano “sotto la tutela di Dante”. I “Fiori del male” non ne uscirono malconci; al contrario, il processo contribuì alla consacrazione di uno dei più grandi poeti francesi per il quale nessuno poté dimostrare ciò che l’ipocrisia imperante dettava, vale a dire di aver scritto componimenti blasfemi, depravati, irrispettosi della religione. Leggiamo oggi e sorridiamo. Baudelaire ne fu disgustato, per quanto il pubblico ministero fosse imbarazzato nel sostenere l’accusa. Asselineau provò un lancinante dolore. I “Fiori del male” vinsero il processo d’appello al tribunale della letteratura e dell’opinione pubblica. Ne gioirono Gauthier, Hugo, Saint-Beuve, de Banville, Deschamps. Fu un “malinteso”? Chissà. Dopo un secolo e mezzo nessuno ricorda né gli inquisitori, né perché Baudelaire venne processato. Le parole non s’imprigionano, figuriamoci i sentimenti. E, comunque, nessun poeta è un mostro da mandare alla sbarra.
(Gennaro Malgieri, «BlitzQuotidiano», 25 ottobre 2016)