"Autobiografia involontaria": intervista a Maurizio Nichetti sul Corriere del Trentino
Maurizio NichettiNel 1989, Maurizio Nichetti viene invitato al festival del cinema di Mosca per presentare Ladri di saponette. Mentre attraversa la Piazza Rossa viene riconosciuto da tre elettricisti di Como in trasferta per lavoro. I tre vorrebbero assistere alla proiezione del film ma di biglietti non se ne trovano più. Racconta Nichetti: «Ho detto loro: non c’è problema, entrerete con me. Alle sera i tre si presentano puntuali all’entrata degli artisti: «Italia Delegatia!» esclamo e così passano insieme a me e a mia moglie, come previsto. Solo che i responsabili della sicurezza non ci mollano un momento, ci tengono sempre uniti, ci spingono verso il palco: «Italia Delegatia…Italia Delegatia», insomma non riesco a farli sedere in platea. Così mi ritrovo sul palco davanti a duemila spettatori con tre elettricisti di Como applauditi come George Clooney». È uno dei tanti aneddoti raccontati
dal famoso regista nel suo primo libro: Autobiografia involontaria (Bietti Heterotopia, 232 pagine, 16 Euro), da pochi giorni in libreria. Un’autobiografia decisamente fuori dagli schemi. Intanto perché non segue un ordine cronologico: aneddoti, fatti, personaggi (da Charlie Chaplin a Jacques Tati, da Bruno Bozzetto a Nanni Moretti) si susseguono secondo un criterio emozionale piuttosto
che cronologico. Spiega Nichetti: «Ho cercato, in tutti i miei film, di trasmettere storie e raccontare
personaggi, ma soprattutto di descrivere emozioni. Quel mare di emozioni che ognuno di noi vive sin dalla nascita e che a volte riaffiorano, come e quando vogliono, dentro un pensiero, un’inquadratura, una pagina di libro». La seconda anomalia è che l’autobiografia si presenta anche come una sorta di Zibaldone di pensieri. Pensieri sul cinema come espressione artistica, ovviamente, ma anche sul contesto sociale e culturale in cui il cinema italiano ha operato dal dopoguerra ad oggi. La terza anomalia è data da un’inedita interazione fra testo e immagini. Grazie a una app gratuita, l’autobiografia diventa multimediale, con nove filmati che integrano ed esplicitano il racconto.
Nichetti, lei ha cominciato come pubblicitario e come mimo. Poi ha fatto l’attore, lo sceneggiatore e infine il regista. Oggi dirige la sezione milanese del Centro sperimentale di cinematografia e comincia a scrivere libri. Sta pensando di cambiare mestiere un’altra volta?
«Prima di Ratataplan ho fatto varie cose. Dopo ho continuato a fare il regista di cinema ma non ho mai smesso di fare anche quello che facevo prima: la pubblicità, il teatro, la lirica, l’insegnamento».
Le piace insegnare?
«Sì, mi è sempre piaciuto. Ho cominciato a 27 anni fondando la scuola di mimo Quellidigrock e continuo adesso con il Centro sperimentale».
È stato anche direttore del Festival del cinema della montagna di Trento…
«Sì, sono arrivato a Trento nel 2004 come giurato e sono stato nominato direttore artistico nel
2005. Nel 2001 avevo girato Honolulu Baby, il primo film europeo con una post produzione
digitale. Ero arrivato al massimo della sperimentazione, da lì in avanti avrei avuto bisogno di molti soldi per fare film come Il signore degli anelli, Harry Potter eccetera. Arrivando a Trento sono
rimasto affascinato dall’opposto, cioè dal fatto che una persona potesse andare in giro per il mondo girando, da solo, lungometraggi».
È stato tentato di diventare anche documentarista?
«No, no. Se mai la scoperta che il digitale stava diventando fondamentale anche per i documentari:
non potendo competere con l’industria cinematografia digitale, potevi diventare competitivo su altri fronti. Infatti oggi nessuno si stupisce se un documentario vince a Berlino a viene candidato all’Oscar».
A Trento ha fatto anche il regista di opere liriche.
«Sì, ho fatto il Barbiere di Siviglia nell’99, all’Auditorium Santa Chiara. L’ultima opera è
stata il Don Pasquale, messa in scena al Teatro Sociale».
Uno dei capitoli più interessanti del libro riguarda il trentino Fortunato Depero.
«Mi sono laureato in architettura con una tesi su Futurismo e avanguardie artistiche del Novecento.
Mi sarebbe piaciuto raccontare la vita artistica di Depero, genio creativo che anticipò i temi dell’arte applicata: arredamento, grafica pubblicitaria, packaging. Ad esempio l’inconfondibile forma conica della bottiglietta del Bitter Campari».
Forse in Italia non ha avuto il successo che meritava perché il Futurismo italiano viene identificato con Marinetti e con il fascismo.
«Già. Mentre il Futurismo russo veniva identificato con il comunismo. Sono i paradossi della storia, il Futurismo è stato in realtà un movimento autenticamente rivoluzionario, non riconducibile
a un’ideologia. Il mio interesse per Depero andava al di là del fatto artistico: il personaggio si prestava per raccontare la bellissima storia d’amore tra lui e Rosetta Amadori, storia sopravvissuta a due guerre mondiali, una dittatura, il crollo di Wall Street. A Rosetta, fra l’altro, si devono tutte le applicazioni su stoffa dei temi grafici del marito e la realizzazione dei famosi “arazzi”. Sui Depero
ho anche scritto una sceneggiatura per la Rai, che pubblico integralmente nel libro».
Che fine ha fatto?
«Dispersa nell’etere».
Spesso si scrivono autobiografie per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Non nella sua.
«Premesso che non ho molti sassolini da togliermi e che quei pochi me li tengo volentieri, penso che sarebbe stato molto banale scrivere un libro per attaccare chi non si è avuto il coraggio di attaccare nel momento giusto«.
Tra le cose più interessanti del libro ci sono sicuramente gli episodi che riguardano alcuni personaggi famosi, come Tati, Chaplin, Moretti.
«Ne avrei potuto raccontare molti di più. Mentre giravo a Cinecittà, Antonioni è venuto di
persona a chiedermi se per favore gli cedevo per qualche ora la sala in cui stavo lavorando. Ne
sono rimasto basito e onorato. Ma la cosa è finita lì, non sarebbe stato giusto spacciarla oggi
come chissà che cosa».
Vittorio Borelli ©Corriere del Trentino, 15 aprile 2017