Il Venerdì di Repubblica: «Al cinema con Carrère»
2015-04-22 15:47:50Emmanuel Carrère ha trascorso buona parte degli anni 70 a disprezzare il rock, a non ballare e a sbronzarsi come un grande scrittore americano sognando di diventare un grande scrittore francese. “Nell’attesa sono diventato una specie di bimbo prodigio della critica cinematografica” ricordava senza pleonastiche modeste a metà di Limonov, il suo romanzo più celebrato e riuscito. Del Carrère cinéphile, almeno in Italia, non è che si sapesse granché. Eppure tra il ’77 e l’86 lui pubblicò 150 testi di formato vario su Positif, valorosa rivista che, tra l’altro, salvò l’onore della critica nell’epoca in cui i Cahiers du Cinéma s’erano smarriti tra le tenebre del maoismo, del marxismo-leninismo e altri paradisi artificiali d’antan. Adesso, accompagnata da una pattuglia di saggi firmati da importanti studiosi, una scelta di quegli articoli è stata raccolta nel libro Emmanuel Carrère. Tra cinema e letteratura (Bietti Heterotopia, pp. 169, euro 14, con prefazione di Goffredo Fofi e postfazione di Michel Ciment), a cura di Daniela Persico e Carlo Chatrian, direttore artistico del Festival di Locarno. Che a Carrère ha appena dedicato l’ultima edizione di L’immagine e la parola, quattro giorni di incontri, workshop e film, suoi o scelti da lui.
Prima di diventare un bimbo prodigio della critica è immaginabile che Carrère sia stato un bimbo e basta, perciò ti viene da chiedergli subito qual è il primo film di cui si ricordi. Mumble mumble… “Dev’essere stato Ventimila leghe sotto i mari. Quello versione Disney, regia di Richard Fleischer, con Kirk Douglas e James Mason che faceva il capitano Nemo. Poi, verso gli undici anni, il papà di un amico ci portò a vedere 2001: Odissea nello spazio. Capimmo pochissimo, però fu una grande emozione. Ore a chiedersi: ‘Che voleva dire?’. Magari ci sarà passato anche lei…”. Come no. Ma da ragazzino i film li guardava in sala o alla televisione? “Sala, sala. In casa non avevamo tv. I miei erano contro. Dicevano che nuoceva alla lettura”. Incoraggiato da un professore di latino “che ci parlava con la stessa foga di Lucrezio, dei film di Ozu e delle commedie musicali”, è al liceo che Carrère inizia a trescare con la cinofilia. A 19 anni si fa coraggio e manda a Positif un pezzo su Complotto di famiglia, l’ultimo film di Hitchcock. Il testo non sarà pubblicato però viene apprezzato dal leggendario Michel Ciment, anima della rivista, che lo contatta: “Un giorno, rientrando da scuola, mia sorella mi disse che mi aveva cercato al telefono. Per me fu come se mi avesse chiamato il Papa”.
Il primo articolo esce nel ’77. A partire da I duellanti di Ridley Scott, è un’analisi forbita sulle scene di battaglia o di scontro one-to-one nel cinema. Idoli del giovane Carrère sono Tarkovskij, Kubrick, Resnais, Bob Rafelson, ma soprattutto Werner Herzog, a cui nell”82 dedica uno studio monografico. E a Cannes, dove è in concorso Fitzcarraldo, riesce persino a consegnargliene una copia. Però – uomo notoriamente ispido – il regista lo tratta a pesci in faccia. Il libro? Bullshit. Merda. Con l’ego sanguinante, lo spavaldo freelance ripiega traumatizzato. Oggi confessa: “Da allora non ho più rivisto Herzog. Dicono che col tempo sia diventato più umano. Anche se l’idea mi terrorizza, sarebbe bello incontrarlo di nuovo. Comunque trovo i suoi lavori successivi molto meno convincenti. Per questo, quando mi hanno chiesto una versione aggiornata del saggio, ho rifiutato. Secondo me, lui è innanzitutto un grandissimo documentarista e quando nei suoi film l’aspetto documentario si indebolisce, il risultato è più scadente”.
Dandy allergico alla politica e, semmai, vagamente inclinato a destra, negli anni universitari Carrère ha in antipatia psicologismi e sociologici. Propende per il fantastico: “Mandavo racconti a piccole riviste di science-fiction”. In seguito scriverà una biografia di Philip K. Dick. Con gusto che oggi definisce “un po’ snobistico” stravedeva pure per i film de paura. Le parodie raffinate tipo Per favore non mordermi sul collo! di Polanski (“Tra le cose a cui resto ancora più affezionato”), ma anche i b-movie alla Terence Fisher. L’orrore, l’orrore… Una passionaccia. Per un dizionario dei personaggi cinematografici, redigerà le voci Cadavere, Macellaio, Profanatore di tombe, Dracula, Frankenstein…
Sfogliandoli in traduzione italiana, Carrère giura di non aver mai riletto prima d’ora i suoi scritti giovanili. Come li trova? “Divertenti, pretenziosi”. In effetti erano un bel concentrato di intuizioni vertiginose, ermetismo, burbanzosa erudizione. Ciò detto, chiunque sia rimasto ipnotizzato da quel capolavoro dimenticato, si sentirà meno solo dopo aver letto le pagine ditirambiche che l’esegeta in erba dedicata a L’australiano di Jerzy Skolimowski (1978). Ma, predilezioni a parte, a Carrère il cinema piace tutto: “Ad affascinarmi è il fatto che quanto vedo sullo schermo sia accaduto, e poi conservato. Che un uomo o una donna abbiano compiuto un certo gesto, pronunciato una certa frase, in un punto preciso dello spazio e del tempo, e che io possa vedere quel gesto, udire quella frase oggi. Che un atteggiamento, un ciottolo, una sigaretta, la patina di un oggetto, una certa condizione meteorologica ormai dimenticati – o quantomeno passati a un altro stadio dell’evoluzione – siano stati catturati e mi vengano restituiti” argomentava in una dichiarazione d’amore data 1981.
Gli interventi del Carrère critico iniziano a diradarsi negli anni 90. Perché? “Dovevo guadagnarmi da vivere. Con le recensioni non ce la facevo”. Malgrado discenda da ottima famiglia, gli tocca mantenersi. Perciò si butta sulle sceneggiature tv. “Come professionista mercenario scrivevo piccole serie. Niente di che, ma mi assicuravano entrate fisse”. Intanto collabora ai copioni di film tratti dai suoi romanzi (La settimana bianca, L’avversario). Poi, nel 2005, decide di fare da sé misurandosi con la regia di Baffi, adattamento del suo primo libro di successo risalente a quasi vent’anni prima. Il risultato non è indimenticabile: “Un film dignitoso, scolastico, senza errori marchiani” giudica oggi. “Quello del regista di fiction non è il mio mestiere”. Il documentario gli riesce meglio. Lo dimostra Ritorno a Kotelnitch, toccante reportage intimo in territorio russo.
Grazie a tutto il talento e l’ambizione di cui era provvisto, Emmanuel Carrère si è da tempo emancipato dal pungolo della necessità: ormai sceneggia serie di culto come il ciclo fantastico-mortuario Les Revenants e i suoi romanzi sono campioni d’incassi (90 mila le copie vendute di Limonov in Italia; oltre 600 mila in Francia, mentre l’ultimo romanzo, Il regno, è da noi già alla seconda ristampa). Dentro l’immancabile maglioncino a V portato senza camicia, Carrère ha l’aria di un circa sessantenne arrivato, ma ancora fremente di quella che Goffredo Fofi chiama la sua “intelligenza onnivora”. Sarà pure un bobò, un bourgeois-bohémien fatto e finito, però è con verve istrionica da grande incantatore che a Locarno lo vedi tenere banco per ore davanti a un centinaio di studenti in cinema non solo svizzeri. Gli chiedono di tutto: Quando costruisce una trama si aiuta con post-it colorati? Come si muoverebbe se dovesse girare un documentario in Ruanda? Lui non cicca una risposta. Fin quasi a preoccupare, rende interessante qualsiasi tema sfiori. Parla delle cose che gli sono riuscite e dei fallimenti dai quali ha ricavato comunque ispirazione. Vedi lo sfortunato incontro con Catherine Deneuve che divenne un pezzo intitolato Come ho mandato a monte la mia intervista a Catherine Deneuve e che gli permette una digressione sulle interviste in genere: “Trovo che quelle a domanda e risposta siano artificiali. L’interrogatorio è un dispositivo paralizzante. Non favorisce la confidenza. Spesso è inevitabile, ma in sede di stesura preferisco scrivere le interview in forma di mini-ritratti”. Registra? “No, detesto sbobinare. Al limite prendo qualche appunto”. Cita Truman Capote: “Lui si vantava di non usare taccuini. Diceva che a memoria poteva immagazzinare l’80 per cento di una conversazione. Il margine di infedeltà si riduceva così a un 20”. Caspita. Chapeau.
In pausa pranzo resta il tempo per chiedere a Carrère quale sia oggi il suo rapporto con il cinema: “Non ci vado molto. I film li guardo a casa”. Tutto fuorché nostalgico: “I discorsi sulla perduta magia della sala, del grande schermo, mi hanno sempre lasciato freddo. Il cinema non è morto, ha solo preso altre forme. Non faccio differenze tra un film e una buona serie tv”. Nel romanzo Il regno Carrère rievoca, tra l’altro, gli anni nei quali, in crisi spirituale, divenne cristiano fervente. C’era qualcosa di religioso anche nella sua fanatica cinofilia? “Ma no. Non mi forzavo mica a fare il critico. Per me era un piacere. Ero un edonista eclettico”. Non è detto che non lo sia rimasto.
di Marco Cicala ©il venerdì di Repubblica
17 aprile 2015