Sprazzi (di) Soavi nella fiction di prime time. Fuga dalla realtà, ovvero del gotico-mafioso in "Rocco Chinnici. È così lieve il tuo bacio sulla fronte"
Rocco Moccagatta
Un piccolo orto-giardino nella campagna siciliana, ormai abbandonato dall’incuria alle sterpaglie e alle erbacce e, subito accanto, una casa in pietra, semplice, spoglia, ancora attraversata dagli echi di una vita famigliare felice e serena. Lui e lei. Un padre e una figlia. Si guardano. In silenzio. Un sorriso ne rasserena i rispettivi volti. Lui è Rocco Chinnici (Sergio Castellitto), magistrato del pool antimafia a Palermo, appena ucciso barbaramente in un attentato esplosivo. Lei è sua figlia Caterina (Cristiana Dell’Anna, da Un posto al sole a Gomorra. La serie), magistrato a sua volta – e, per inciso, autrice del libro dal quale il tv movie è tratto. Lui è morto, lei è viva.
In questo raccordo reciproco di sguardi, che chiude il film Rocco Chinnici. È cosi lieve il tuo bacio sulla fronte (2018) e supera le barriere fisiche tra la vita e la morte, il passato che scivola nel presente, c’è molto di Michele Soavi, dei suoi film, della sua idea di fantastico. In barba ai soliti luoghi comuni coltivati da chi si dice addolorato, e pure un poco disgustato, dal lavoro del regista nella fiction televisiva, basta un campo-controcampo (impossibile) come questo a ricordarci che Soavi è sempre lui e continua a fare il suo cinema. Certo, non può che (ri)emergere carsicamente tra le pieghe del realismo assoluto della fiction d’impegno civile, sempre a rischio di essere impallato dall’attore principe di turno, ostaggio di una richiesta evidente di normalizzazione di uno stile acceso e visionario. Che, alla fine, non tocca tanto il periodo – molto stimolante per chi scrive, col senno di poi – della militanza alla corte di Pietro Valsecchi, l’uomo che lo rapì al cinema per il prime time thriller-poliziesco di Canale 5 e ne fece il regista per eccellenza della sua mini-major Taodue, da allora e ancora oggi, nel bene e nel male, prigioniera di intuizioni e di ritmi imposti proprio da Soavi (attenuati e attutiti il giusto per il piccolo schermo).
Piuttosto riguarda, subito dopo, i primi anni in Rai, tra decalcomanie poco ispirate delle squadre valsecchiane (La narcotici, Goodtime/Beta Production), biopic assolutamente anonimi (Adriano Olivetti. La forza di un sogno, Casanova Multimedia) e persino melò familiari incrociati con l’impegno civile (Questo è il mio paese, Cross Productions). In questo senso, Rocco Schiavone (ancora Cross Productions), nella spericolata parabola che spinge il giallo quadrato di Manzini fino a digressioni quasi fulciane (in certe crudeltà, in certe disperazioni…), con il buon Giallini a fare da garante per lo spettatore meno disposto a simili detours, è stato un compromesso pressoché perfetto, probabilmente il migliore possibile in quel contesto, in sintonia con la new wave Rai Fiction più recente.
Ovvio, Rocco Chinnici non è Schiavone. Non può e non vuole esserlo. D’altronde, nella testa dei dirigenti Rai funziona come prosecuzione di un discorso pedagogico-civile (la lotta alla mafia, i grandi martiri delle istituzioni) che questa volta si pone come prequel ideale dell’intera produzione di (sotto)genere, anche perché Chinnici è, di fatto, il precursore-maestro-prototipo dei vari Falcone e Borsellino (e, sul piano dell’immaginario fiction, Cattani, ecc.) e la sua storia dà il la a tutto, definizioni del fenomeno mafioso e dei suoi addentellati nella politica comprese. Ma, nella testa di Soavi, Chinnici è anche altro, oltre l’intenzione dichiarata dalla committenza (ché comunque è Casanova Multimedia, cioè Luca Barbareschi, piaccia o non piaccia, dietro a molti degli esperimenti più interessanti, anche quando non completamente riusciti, della fiction italiana recente; e attore storicamente sensibile al genere e al bis italiano). Innanzitutto è un’occasione, idealmente tangente a quei racconti di genere che Soavi ha dimostrato di saper padroneggiare così bene in passato, pur entro i limiti televisivi. Poi, nonostante una sedentarietà di fondo del personaggio, uomo d’indagine e di pensiero più che d’azione e di intervento sul campo, gli offre comunque la possibilità di rompere l’ordito realista e il piano di fondo del genere. A Soavi, infatti, basta pochissimo, in un’economia di mezzi e di capacità ormai più che ragguardevole: per esempio, quando Chinnici riceve la notizia della morte del generale Dalla Chiesa (indiretto preludio alla propria, ormai ineluttabile), la vertigine provata dal personaggio si traduce in un’inquadratura capovolta che a poco a poco si raddrizza, salvo poi proseguire il senso di straniamento e di dolorosa solitudine con un movimento continuo e avvolgente della mdp intorno a lui e alla figlia cui si abbarbica in un abbraccio disperato. Ma tutto Rocco Chinnici vive di queste fulminee accensioni, a rompere gli equilibri di una messa in scena di puro servizio e a indurre in tentazione (in errore?) il “delibatore” di cose soaviane nell’evocare suggestioni, ricordi, immagini. Quella ragazza, amica di Caterina Chinnici, morta per overdose e abbandonata con gentilezza tetra all’interno di una pianta gigantesca e mostruosa nel giardino botanico di Palermo, non stonerebbe tra certe visioni alla Bosch del Soavi degli horror che furono (magari proprio La chiesa, del 1989). E la distorsione istantanea dell’inquadratura nella quale si manifesta lo sguardo spaventato che si posa sullo spioncino e vede un paio di uomini armati al di là della porta di casa, sul pianerottolo, dialoga con l’armamentario thriller argentiano-baviano (e dunque) soaviano, come pure la ripresa in plongée della tromba delle scale, subito dopo l’uscita dallo spazio del sicario in fuga (e non può che seguire il controcampo sul volto turbato del custode che ha avvertito qualcosa). Piccoli segni, anche impercettibili, graffi consapevoli che increspano una superficie altrimenti troppo pacificata e risolta? Oppure spasmi e contorcimenti di un talento insopprimibile che, come un revenant di Dellamorte Dellamore (1994), non si rassegna alla «morta gora» di tanta fiction televisiva? Eppure, l’incipit – che prende le mosse dalla fine (la morte di Chinnici nell’attentato quella mattina del 29 luglio 1983) come in tanta fiction da prime time, ma anche come in tanti racconti neri, gialli e fantastici – è quasi una sequenza a parte, attraversata da un senso di minacciosa incombenza (la clochard per la strada, la luna sempre più vicina) e percorsa dai tipici vezzi stilistici soaviani (il ralenti, il sonoro acuito, certe inquadrature sghembe, come quella dal punto di vista dello scarico del lavandino, la dilatazione dei tempi e la convergenza concitata degli sguardi). E subito dopo, ad annunciare alla figlia Caterina l’assassinio del padre, un movimento di macchina vorticoso lungo un corridoio spazzato da un vento quasi soprannaturale si getta a capofitto sull’apparecchio telefonico, come se fosse la soggettiva impossibile di quegli squilli che accompagnano e portano la notizia. Esercizi onanisti di una fantasia analitica sovraeccitata, si dirà, magari anche eccesso di lettura per un testo molto meno complesso e ispirato di quanto si vorrebbe. Forse. Ma resta difficile negare una chiara e consapevole intenzione nel dialogo che Soavi mette in scena da subito, e di continuo, con un’eleganza ispirata da cinema fantastico d’altri tempi, tra una figlia e un padre, viva la prima e morto il secondo, anche a sancire un passaggio di testimone (nella vita, nella professione, nella sete di giustizia) tra i due. Questo rapporto impossibile, costruito sul campo-controcampo tra vita e morte, passato e presente, fino a suggerire un gioco di sguardi contraccambiati che non può darsi nella realtà, interessa evidentemente moltissimo a Soavi, oltre la pura esigenza di mise-en-scène di una sceneggiatura altrui. E, alla fine, emoziona e persino commuove.