La Montagna Sacra di Alejandro Jodorowsky
Mitsuharu Hirose
Un cammino iniziatico, che porta un reietto dal fango di un’esistenza comune e degradata fino alla vetta, inviolabile dai profani, della Montagna Sacra, attraverso un percorso di ininterrotta ri-creazione e trasmutazione interiore, allo scopo non solo di dominare la morte e diventare uno dei Nove Saggi, ma anche di venire a conoscenza del segreto della vita. Un itinerario attraverso simbologie esoteriche, religioni sia occidentali sia orientali, unico mezzo di creazione ed elevazione dell’Anima in un mondo distopico e grottesco, dove regnano fanatismo, edonismo, povertà materiale e spirituale. E non solo: La Montagna Sacra – lettera aperta contro la Modernità – è inoltre un percorso cinematografico, dove ogni fotogramma è una metafora, una citazione, uno spunto di riflessione su politica, morale, sulla distinzione tra sogno e realtà.
Il regista, Alejandro Jodorowsky Prullansky, nato in Cile nel 1929 da una famiglia ebrea di origini ucraine, dagli anni ‘50 vive a Parigi, dove ha fondato assieme a Roland Topor e a Fernando Arrabal il movimento di teatro panico, corrente di ispirazione post-surrealista, che suggerisce una nuova ma indefinita idea di uomo. Nel saggio Panico e Pollo Arrosto del 1964 (incluso in Panico! di Arrabal, Jodorowsky e Topor, Giunti Editore, Firenze, 2007, p. 173), il regista stesso afferma: “L’uomo panico, dato che pensa strutturalmente, che sostiene una logica di eliminazione di possibilità e dato che è capace di vivere molte idee contraddittorie allo stesso tempo, ripartisce il calore secondo la molteplicità dei suoi principi, in modo tale che ogni sua idea-azione venga portata a una normalità sopportabile e benefica […]. L’uomo panico non fa né economia né progetti, produrrà un’architettura instabile (luoghi di aggregazione metropolitana come il celebre fiume di Eraclito; l’uomo non abiterà due volte nella stessa città), opere d’arte non conservabili e teorie in continua trasformazione, dato che tutto il suo sistema ideale si fonda su una metamorfosi di se stesso e degli oggetti che lo circondano”. La stessa idea di contraddittorietà, indefinitezza, molteplicità dei principi, costituisce la base della fondazione della casa cinematografica Producciones Panicas, con la quale Jodorowsky trasferisce nel cinema i suoi ideali di teatro surrealista, culminanti proprio nel film La Montana Sagrada, presentato al Festival di Cannes del 1973 e realizzato grazie ai finanziamenti di John Lennon e Yoko Ono.
Il film è suddiviso in tre momenti, identificabili come “Smarrimento”, “Iniziazione” e “Scalata”. Un ladro senza nome, dall’aspetto fisico riconducibile all’iconografia occidentale del Cristo, senza una ragione apparente viene crocifisso e lapidato da un’orda di bambini macilenti, incitati da un nano senza braccia. Il ladro/Cristo si libera, allontana i piccoli carnefici con un urlo e, impietosito dal nano mutilato, stringe amicizia con lui fumando marijuana, in una scena che pare un piccolo tributo a Freaks di Tod Browning. Qui comincia il suo cammino disperato che, senza la presenza illuminante di una guida, lo trascina privo di meta per le strade di una Città del Messico grottesca, degradata e militarizzata, come in una sorta di caotica distopia. Il ladro si ritrova tra parate di soldati che portano in processione pecore scuoiate e crocifisse, come a simboleggiare una percezione fanatica e tribale di Cristianesimo, fucilazioni di massa riprese con le telecamere da ricchi e perversi turisti nordamericani, e spettacoli surreali, tra cui quello memorabile della conquista del Messico, dove un plastico pieno di iguane adornate con ornamenti aztechi viene preso d’assalto da un esercito di rospi armati di lance e corazze, mentre una marcetta nazista suona in sottofondo.
Il cammino del reietto prosegue confusamente, portandolo ad imbattersi in un’altissima torre, dove l’Alchimista (interpretato da Jodorowsky in persona), gli chiede se ciò che stia cercando sia l’oro. Il reietto, schiavo della sua animalità e del suo materialismo, non può che rispondere affermativamente. L’Alchimista rinchiude quindi il nuovo discepolo in una grande ampolla, l’atanòr alchemico, alla cui base viene acceso un fuoco, ed a cui viene collegata un’ampolla più piccola, contenente le sue feci e i liquidi corporei. Essi, simboleggianti l’opera al nero (nigredo) dell’alchimia occidentale, vengono sottoposti a un trattamento di purificazione tramite cui, sublimandosi in un gas bianco (opera al bianco o albedo), si fissano in una pepita d’oro che emerge da un liquido rosso (opera al rosso o rubedo). Accanto al marchingegno si trova un pellicano, animale capace di lacerarsi il petto per nutrire i suoi piccoli, che veicola il profondo significato allegorico di passaggio dell’essenza vitale tramite il proprio sacrificio, nonché simbolo della trasmissione del sapere iniziatico. A procedimento completato l’Alchimista consegna la pepita al reietto ma, irritato dall’avidità che quest’ultimo dimostra, lo invita a guardare oltre la mera ricchezza materiale, offrendogli di tramutare in oro l’intero suo corpo. Attraverso un ulteriore processo di “ricreazione dell’anima”, Il Maestro dona al neofita quattro oggetti, corrispondenti ai semi dei tarocchi tradizionali: un bastone, una spada, una coppa e un medaglione d’oro. Essi simboleggiano rispettivamente i quattro doveri dell’iniziato secondo Eliphas Levi: sapere, osare, volere, tacere, nonché gli Elementi fondamentali, Acqua, Aria, Fuoco e Terra. Dopodiché l’iniziato viene introdotto al cospetto di sette personaggi, ognuno associato ad un pianeta del Sistema Solare, che si uniranno a lui nella scalata.
Il primo di essi e Fon (Venere), edonista impresario di protesi anatomiche, cultore dell’apparenza a scapito dell’essenza. Marte è simboleggiato da Isla, produttrice di armi. Klein, creatore di opere d’arte costituite da corpi umani, rappresenta Giove. Il corpo e il sesso sono da lui ridotti ad oggettistica, produzione di massa di una sorta di pop art vivente. Saturno è identificato da Sel, incaricata dal governo di plasmare le menti dei bambini in accordo alle previsioni politiche di un misterioso computer. Urano è Berg, consigliere di un presidente-dittatore di stampo sudamericano, mentre Nettuno è Axon, tirannico comandante di polizia, i cui seguaci sono paramilitari castrati. Plutone, infine, è Lut, un architetto che concepisce la casa ideale come una bara, spazio di soggiorno puramente temporaneo, da utilizzare durante le pause del lavoro.
La scalata, con l’aiuto dell’Alchimista, può finalmente iniziare. Il ladro, simbolo dell’Io primitivo ed egoista, si unisce spiritualmente ai compagni, oltrepassa i limiti imposti dalla corporalità individuale, rinnega (con dolore) le convinzioni errate che gli erano state imposte e che si erano impossessate della sua mente. Il gruppo, nel suo percorso, supera delle prove e viene iniziato all’utilizzo di erbe e funghi allucinogeni, sulla scia delle pratiche sciamaniche sudamericane, grazie alle quali impara ad ascoltare la voce della Natura. Sbarcati sull’Isola del Loto, il Maestro e i Discepoli raggiungono il “Bar del Pantheon”, luogo di perdizione che raccoglie coloro che, a differenza degli altri uomini, partirono alla ricerca dell’Isola stessa ma, credendo di essere arrivati a destinazione, rinunciarono a procedere fino alla Montagna. Uno di essi, forse parodia di Timothy Leary, sostiene che la Verità si trovi nelle droghe (“La Croce è un fungo!”), un altro crede nella possibilità di attraversare la materia in senso orizzontale. Il gruppo non bada ad essi, li disprezza e non si lascia intimorire: ormai è pronto per avviarsi con decisione verso l’ultima parte del tragitto.
Il raggiungimento della vetta, con tanto di sconvolgente colpo di scena metacinematografico, non è la meta di questo viaggio ma l’inizio di un nuovo ambizioso percorso, che il regista ci invita a seguire anche dopo aver lasciato la sala cinematografica: “Noi non siamo che immagini, sogni, fotografie. Non dobbiamo restare qui, prigionieri. Romperemo l’illusione. Questa è Maya. La vita reale ci attende.”
Maya nient’altro è che che il velo illusorio della filosofia Vedanta, metafora delle limitazioni imposte dalla nostra condizione di uomini, che ci avvolge impedendoci di percepire il mondo nella sua interezza, o facendoci pervenire ad una visione distorta di cui dobbiamo liberarci se vogliamo comprendere la realtà.
Liberamente ispirato alla Salita del Monte Carmelo di San Giovanni della Croce ed a Il monte analogo di Rene Daumal, La Montagna Sacra offre una moltitudine di riferimenti a diverse credenze elencateci dall’Alchimista stesso poco prima dell’ascensione: “La montagna Meru, dell’India. La montagna Kuen-Luen dei Taoisti. Il Karakorum dell’Himalaya. La montagna dei Filosofi. La montagna dei Rosacroce. La montagna cabalistica, di San Giovanni della Croce. Vi sono molte altre montagne sacre, la leggenda è sempre la stessa”. Il film condensa queste leggende, cosi come il libro di Daumal, secondo il quale il “Monte Analogo”, alto fino al cielo, si trova su una grande isola, invisibile ai più; chiunque riesca ad individuarla può già essere considerato un vero e proprio “iniziato”, in quanto si e dimostrato in grado di rompere le barriere della fisica, ottenendo l’accesso ad un’altra dimensione. Legato indissolubilmente al monte sacro di ogni tradizione troviamo proprio il cammino spirituale, o pellegrinaggio, elemento comune ad innumerevoli religioni.
Il film stesso può essere considerato il punto di arrivo di un altro cammino, questa volta reale, che Jodorowsky organizzò e compì assieme a quello che sarebbe stato il cast del suo film. Il parallelismo di questa esperienza con l’esito cinematografico finale è evidente: nella sua autobiografia, intitolata La danza della realtà (Feltrinelli, Milano 2006, p. 179), Jodorowsky ebbe a dichiarare: “Dopo due mesi di preparazione chiusi in casa senza mai uscire, dormendo soltanto quattro ore al giorno e facendo esercizi iniziatici per il resto del tempo, più altri quattro mesi di lavoro intenso viaggiando per tutto il Messico, avevamo perduto ogni rapporto con la realtà. Il suo posto era stato preso dal mondo cinematografico. Io, posseduto dal personaggio del Maestro, ero diventato un tiranno. Volevo ad ogni costo che gli attori raggiungessero l’Illuminazione. Non stavamo facendo un film, stavamo filmando un’esperienza sacra. Ma chi erano quei commedianti che, vittime anch’essi dell’illusione, avevano accettato di essere miei discepoli? Uno, un transessuale, l’avevo scovato in un bar di New York, un altro era un attore di telenovelas, e poi mia moglie, con le sue nevrosi da fallimento, e un ammiratore americano di Hitler, e un milionario disonesto che era stato espulso dalla Borsa, e un omosessuale che era convinto di parlare in sanscrito con gli uccelli, e una ballerina lesbica, e un comico da cabaret e un’afroamericana che, vergognandosi dei suoi antenati schiavi, diceva di essere pellerossa. L’idea di scritturare quell’accozzaglia di persone mi era stata ispirata dall’alchimia: il primo stadio della materia e il fango, il magma, la “nigredo”. Da esso, per successive purificazioni, nasce la pietra filosofale, che trasforma il vile metallo in oro. Queste persone prese nel mucchio, in nessun caso artisti teatrali, alla fine del film avrebbero dovuto diventare monaci illuminati”. Queste sorprendenti parole ci dimostrano l’intenzione di Jodorowsky di compiere sugli attori un processo alchemico di purificazione interiore, scegliendo deliberatamente degli scarti della società e facendo emergere il “panico” annidato dentro di loro, cioè il pensiero imprevedibile, multiforme, illuminato, che si adatta ad ogni situazione e che si libera dalle convenzioni. La materia grezza, cioè il cast del film, attraverso questo cammino intriso di arte e spiritualità, sarebbe stata trasformata in oro. Sempre ne La Danza della Realtà, Jodorowsky descrive come effettivamente ogni attore (incluso egli stesso) abbia subito una trasformazione, si sia identificato nel personaggio interpretato anche durante la vita reale, lontano dai “ciak”.
Il film e di conseguenza una dimostrazione di come ogni uomo, anche il più abietto, sia in potenza “panico”, e che possa effettivamente diventarlo, perché anche il mondo, in sé, è “panico” (per ulteriori approfondimenti, dello stesso autore, si vedano anche Psicomagia – Una terapia panica, Feltrinelli, Milano 2005 e Le pietre del cammino, Giunti Editore, Firenze, 2009).