Editoriale: cronache di inizio millennio
Andrea Scarabelli
Crisi. Tutti ne parlano, ovunque sentiamo queste parole: dai telegiornali alle pagine dei quotidiani, dai talk-show alle conversazioni al bar. La crisi. Chi l’avrebbe mai detto? Pare il suo avvento sia stato imprevedibile. Non c’è dubbio: ci ha colti di sorpresa. Ed ognuno pensa a come sopravvivere ad essa, a come potersi permettere il lusso di un fine settimana al mare, l’ultimo modello di televisore, cellulare o automobile: come a poter fingere che in fondo, sì, la vita continua. Quando va bene; altrimenti, la realtà è di chi, a causa del comportamento iniquo di una finanza irresponsabile e di una politica accondiscendente, arranca fino alla fine del mese per ripetere l’esperienza in quello successivo. Certo è che la priorità assoluta, questo è poco ma sicuro, è ora come ora uscirne. Così ci dicono. Stringere i denti e resistere, di modo che, una volta superata, noi si possa (o forse solo chi ci ha condotto in questo baratro) continuare come prima.
Ma probabilmente non è sufficiente. Per presentare il conto a chi ci ha fatto arrivare sin qui bisogna prima comprende la crisi sino in fondo, capire da dove e da cosa è stata generata. Imparare a dialogare con essa, insomma. Ogni crisi ci insegna qualcosa di più su noi stessi, rivela la presenza di un volto notturno del presente, che i periodi di “salute” spesso nascondono. Dispone di una sua sapienza, ha da impartirci una lezione sua e solo sua che occorre imparare, sia per attraversarla, sia per non compiere in futuro i medesimi errori che l’hanno generata. Si tratta di un’occasione, insomma, per capire qualcosa di più su chi tiene le redini del nostro presente – basta riconoscerla come tale e il gioco è fatto.
Prima di cercare di attraversarla, occorre pertanto domandarsi: cosa è entrato in crisi? Di che modello si tratta? Non è forse un tipo di sistema che richiede periodici momenti di criticità come sua possibilità di evoluzione? In altre parole: la crisi che stiamo attraversando è episodica – dipende cioè da circostanze esterne e imprevedibili – oppure strutturale, implicita nelle premesse?
Abbiamo posto queste domande ad una serie di economisti e filosofi dell’economia, cercando di donare attraverso le loro risposte – assai diversificate, data l’eterogeneità – un affresco del nostro tempo, che ne restituisce la complessità e le intime contraddizioni. A queste conversazioni sono affiancati brevi saggi, atti ad illustrare differenti paradigmi economici, modi alternativi di interpretare il rapporto tra l’uomo e il denaro rispetto a quello che si è imposto ai nostri giorni.
Quando Ezra Pound si trovò a dirigere il Supplemento letterario del Mare di Rapallo, come esergo ai fascicoli pose una frase di Carducci: “Chi dice in dieci parole quello che può dire in due è capace di uccidere suo padre”. Una citazione assai emblematica, scelta da un poeta che sempre denunciò chi mischia le carte in tavola per rendere complicato agli occhi dei popoli ciò che in realtà non lo è. Anche questa è una strategia del potere. Mai fidarsi di chi ci dice che la situazione è complicata o di chi si esprime consapevolmente con terminologie oscure. È quanto sostiene un grande economista come John Kenneth Galbraith, recentemente ricordato da Luca Gallesi: “Noi economisti ci proteggiamo dal mondo esterno adottando un nostro linguaggio specifico e amiamo vederci come una classe sacerdotale con un sapere o una mistica inaccessibili all’uomo comune. E se un economista ti chiede di accettare le sue opinioni come Vangelo perché poggiano sulla sua sapienza, non credere a una parola di quello che dice” (C’era una volta l’economia, Bietti, Milano 2012). Che dire? Più chiaro di così…
In passato, gli alchimisti, per comunicare tra loro, utilizzavano un linguaggio cifrato, esoterico, le cui espressioni solo loro conoscevano. Un “profano” guardava i loro trattati e non ci capiva un’acca. Lo scritto arrivava poi in mano ad un altro alchimista, che, in possesso delle chiavi di lettura giuste, lo decifrava. Lo stesso accade oggi, con i moderni alchimisti del denaro. Ma se l’oro degli antichi corrispondeva ad una realizzazione interiore, era un oro solare, quello di oggi, volgare, nero (petrolifero) o virtuale (finanziario), annuncia lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo – altro che realizzazione!
Questo numero si muove in direzione contraria. La persuasione che lo anima è fornire elementi per comprendere l’economia che siano semplici e chiari. Non è diretto agli specialisti, ma a tutti coloro – come chi scrive, d’altra parte – che non sono “iniziati” ai moderni misteri dell’economia. Di un’economia, per la precisione, la nostra.
Poiché è anche di questo che si tratta. Non è crollata l’Economia né la Politica ma una economia e una politica fra tante. Per ogni civiltà, ce n’è una, come c’è una matematica, una filosofia, una numismatica, e via dicendo. Sono tante quante sono le civiltà. Usare le maiuscole è fare pessime astrazioni: l’economia non è separata dal resto della realtà ma obbedisce alle leggi della civiltà che – volente o (come spesso accade) nolente – l’ha adottata. L’essenza dell’economia non è crematistica (monetaria, finanziaria o virtuale che sia) ma culturale, antropologica.
È crollata l’economia della modernità, e solo essa. Quale il suo nome, che i tecnocrati hanno paura di menzionare? Il Capitale. Esso ha dichiarato bancarotta. La presente crisi, come tutte le altre, non rappresenta alcunché di imprevedibile ma è implicita nelle premesse del capitalismo, come lo stesso Karl Marx aveva già denunciato. La globalizzazione del mercato, la riduzione di qualsiasi attività, relazione ed essere umano alla natura di merce, operatasi sotto il segno del denaro livellatore: questo già venne indicato dal filosofo di Treviri quale rischio congenito del capitalismo. Eppure, nonostante il nome di Marx venga spesso e volentieri citato – sovente a sproposito, anche da taluni che volentieri strizzano l’occhio al capitalismo – continuiamo a ripeterci che non eravamo preparati a tanto.
Il volto della modernità, a seguito del suo ingresso in questo circuito suicida, è intanto profondamente mutato. Una mondializzazione realizzata sui presupposti del liberismo più sfrenato – oggi dogma non passibile di discussione alcuna, come sottolineato da Antonio Venier nel suo contributo – le delocalizzazioni che prosciugano le risorse lavorative dei popoli, un capitalismo selvaggio che, come intuì profeticamente sempre Marx, considera ogni limite come ostacolo alla sua realizzazione totalitaria, una dittatura finanziaria avversa a qualsiasi controllo da parte dei poteri politici, i piani intrapresi per salvare quelle stesse banche che ci hanno fatto precipitare nel baratro. Questi i fenomeni del nostro tempo, che non possono che rivelarne il carattere parossistico e declinante. Da qui occorre prendere le mosse a che questa impasse sia superata.
A ciò va aggiungendosi una gestione biopolitica – per dirla con Foucault – a carattere planetario delle risorse umane. Lo smistamento e smembramento delle comunità segue le maree dei flussi di denaro che, in ogni istante, si spostano fulmineamente da una parte all’altra del globo. Da qui un’immigrazione selvaggia il cui fine, come ha scritto recentemente Alain de Benoist, ben lungi dall’essere la solidarietà e l’umanitarismo, si risolve nel controllo dei salari, affinché rimangano i più bassi possibile. Un terrorismo umanitario realizzato su scala globale. Le “truppe di rincalzo del capitale” vengono accolte da una parte da una xenofobia retrograda e dall’altra da un ipocrita umanitarismo da sradicati. Pochi si sono resi conto che i flussi migratori sono consustanziali al capitale, alla sua vecchia idea di sopprimere le frontiere nazionali per una “libera” circolazione della merci. E la merce umana viene sottoposta alla medesima formula.
Questa crisi ha riportato alla ribalta anche la vecchia questione dei rapporti tra politica ed economia. Ci ha rivelato l’essenza apolide del denaro, naturale nemico del limite, anche politico. Il suo potere svuota le democrazie, le relega ad essere braccio secolare della finanza, come intuì Giano Accame negli anni Novanta.
Ma non fu certo l’unico. Inutile ricordare le voci di tutti coloro che rivendicarono il primato della politica sull’economia, facendosi profeti della catastrofe delle tecnocrazie al potere e dei vangeli delle austerity. Il ricordo di taluni di questi critici può forse dimostrare che, anche in tempi non sospetti, qualcuno – regolarmente inascoltato – ci ha messo all’erta innanzi ai pericoli di una economia scatenata. Così, ad esempio, Oswald Spengler (Forme della politica mondiale, Ar, Padova 1994, pp. 79-80) ebbe a scrivere: “Qualsiasi vita economica priva di una giusta guida politica del Paese è destinata alla rovina. Questo è ciò che l’orgoglio del dirigente economico non vuole accettare. Egli nutre l’accentuata tendenza a rifiutare l’operato e il modo di agire del politico come dettati da eccessiva arroganza e nocività, per poi chiamare immediatamente in soccorso la politica quando e fintanto che crede di poterla usare per i propri interessi (…). Anche se oggi questa è la regola in tutto il mondo, si tratta ugualmente di un atteggiamento meschino, superficiale e sbagliato, che diventa una sciagura quando la politica stessa è debole e malata, priva di fini propri e senza orgoglio, esposta così agli interventi dell’economia, concepiti in modo disordinato, estemporaneo, e privo di lungimiranza. La vita economica di una nazione necessita di una guida politica sempre sovraordinata, non di una politica subordinata e accondiscendente”. Un’autentica profezia di quanto sta succedendo, che il filosofo colse nella sua forma aurorale negli anni Trenta. Sarebbe sufficiente leggere certi libri, invece che metterli all’indice, come spesso accade. Potremo così evitare di fare spallucce e dichiararci “impreparati”.
Per poi non parlare del già citato Ezra Pound (Lavoro e usura, Scheiwiller, Milano 1996, p. 82), che vide nell’asservimento del potere politico delle banche una modernissima schiavitù: “Il sistema democratico è di questa natura: due o più partiti si presentano al pubblico, tutti al comando dell’usurocrazia”. Secondo toni analoghi, in un altro suo scritto (Jefferson e/o Mussolini, Il Falco, Milano 1981, p. 134), il poeta americano – che già aveva processato gli istituti di credito per la creazione del denaro dal nulla, ex nihilo – notava: “«Nessuno possiede un diritto innato alla funzione di prestatore di moneta, tranne chi ha denaro da prestare». Così ovvio, così semplice, così prevedibile anche dal lettore profano, da rappresentare anche oggi un reale stato di fatto, e nello stesso tempo un impedimento così rovinoso per le illecite pratiche bancarie come è abituale in tutto l’arco della nostra vita presente”.
E il romanziere Robert Heinlein? In uno dei suoi due romanzi ispirati al Credito Sociale (A noi vivi, Urania, n. 1505, p. 193), scriveva, in merito al rapporto tra potere pubblico e privato: “Alle banche non doveva essere affatto permesso di creare denaro, poiché esse, di necessità, sono interessate soltanto ai profitti. Inflazioneranno o deflazioneranno la valuta per fare profitti, senza riguardi per i bisogni monetari della nazione”. Subordinare la gestione della cosa pubblica a privati comporta numerosi rischi. Può capitare, infatti, che questi ultimi decidano di non agire per conto di tutti ma solo per se stessi. Così elementare…
E sul valore del denaro e il suo rapporto con le merci, ennesimo tema – molto antico – riproposto da questa crisi? Tra gli eretici del pensiero economico ricordiamo anche che il Maggiore Douglas (I principi del credito sociale, in A. R. Orage, Il lavoro debilita l’uomo, Greco&Greco, Milano 2008, pp. 82-83) sottolineò, con notevole anticipo, che “il denaro non ha alcuna realtà intrinseca (…). La cosa che lo rende denaro, di qualsiasi cosa sia fatto, è puramente psicologica, e di conseguenza non c’è limite alla quantità totale di denaro, tranne che un limite psicologico”. Il denaro è una risorsa simbolica: rimanda sempre ad altro. Sottomettere i popoli alla sua autorità è tanto insensato come, parafrasando un detto famoso, affermare che non si possono costruire strade perché mancano i chilometri. Non eravamo forse stati avvisati? Chi, alla luce di queste testimonianze, alle quali potremmo aggiungere quelle di Jünger, Simmel, Sombart, Anders e tanti altri, può ancora fingersi sorpreso?
Esse convergono verso un nocciolo centrale, sul quale bisogna soffermarsi e meditare, non solo perché questa crisi sia superata, ma anche affinché non sia seguita da altre, ancora più terribili, come è prassi comune in quelle regioni sottomesse ai Diktat del Capitale. La si può oltrepassare solo discutendo le basi stesse del capitalismo, moderno Caronte che ci ha traghettati verso la nostra fine. Non scendere a patti con esso, come vorrebbero molti dei cosiddetti “contestatori” o “indignati” ma ridiscuterne interamente le basi, sterrare le sue radici per coglierne i presupposti, e salvare così quella terra che la sua dittatura ha fatto avvizzire. Affinché questa operazione vada a buon fine, non occorre ingannarsi ulteriormente: non è di revisione che occorre parlare, ma di rivoluzione, nel senso etimologico del termine, ossia come distruzione dell’errore e reintegrazione. Ma, si badi!, senza per questo cadere in assurdi primitivismi, che propongono il ritorno ad una realtà preindustriale, basandosi sull’assurdità della “bontà naturale dell’uomo” al di fuori della società. Si tratta di rifondare un modus vivendi alieno da una modernità usurocratica e sanguinaria, luogotenente di un progresso sempre meno sostenibile e di una globalizzazione intesa come imposizione totalitaria di un solo paradigma, quello occidentale, che ora sta dichiarando pubblicamente, in prima serata, il suo fallimento.
Questo l’insegnamento della fase storica che stiamo vivendo; questo il vantaggio più grande che possiamo trarre da quella crisi di cui, più o meno seriamente, andiamo blaterando da anni.