Cattive, irresistibili

Ilaria Floreano
Walt Disney – Il mago di Hollywood n. 10/2015
Cattive, irresistibili

Biancaneve che canta tutto il giorno, Cenerentola col suo corteo di topini adoranti, Aurora dai biondi capelli: le principesse del primo ventennio di fiabe Disney, si sa, sono stucchevoli (come le voci italiane scelte per doppiarle quando cantano). Al punto che, nel 2007, in Shrek 3 la Dreamworks le “vendica”, per contrappasso caricaturale, facendone irascibili guerriere ninja. Se quest’ultima rielaborazione assume sfumature femministe (le principesse sono indipendenti, fanno squadra, se ne fregano di Principe Azzurro, un irrimediabile cretino pure mammone), il trattamento disneyano potrebbe apparire – al netto delle considerazioni sulla struttura archetipica dei personaggi fiabeschi – piuttosto misogino: Biancaneve, Cenerentola e Aurora sono sottomesse e graziose, prede cedevoli di principi assertivi, inclini all’innamoramento fulmineo, buone. Nessuna sfumatura è loro concessa: non si arrabbiano, al massimo piangono, non si ribellano, tutt’al più dormono. Quanto alle antagoniste, Regina Cattiva, Matrigna e Malefica, sono puri concentrati dei peggiori vizi femminili – vanità, ambizione, gelosia – ma anche tra i personaggi più amati di sempre dai cultori di Disney, seconde solo, forse, alle spalle, come Brontolo/Cucciolo, Fata Madrina e Serenella. È Disney a renderle tali: tolta Grimilde, nelle fiabe originarie le cattive sono poco più che comparse, funzioni drammaturgiche ascrivibili al rango di pretesto, che scompaiono al secondo paragrafo per non tornare mai più.

Qui però il dibattito sul sessismo delle opere Disney, acceso e feroce negli anni Settanta, estremista in un senso o nell’altro, non ci interessa. Prendiamo piuttosto in considerazione tre fiabe che hanno per protagonista una principessa e le loro rispettive traduzioni disneyane, per osservare la trasformazione che le controparti negative subiscono nel passaggio all’animazione (in termini di accrescimento o diminuzione di cattiveria) e, una volta di più, riflettere sull’adagio nel bene non c’è romanzo (nel nostro caso, film): le streghe di Disney sembrano essere molto più affascinanti delle principesse.

La prima “buona” a fare la sua comparsa sul grande schermo è, nel 1937, Biancaneve in Biancaneve e i sette nani: caschetto cotonato nero corvino, bocca a cuore, semi-gorgiera inamidata e mantello sollevato con vezzosa leggiadrìa, è una principessa (anche del kitsch) che, perso il padre all’improvviso, accetta serafica le angherie della matrigna. La Regina Cattiva (il nome Grimilde mai viene pronunciato nella versione disneyana) è una strega in cui arde il demone della vanità, pronta a uccidere chi la superi in bellezza. Risparmiata dal cacciatore, Biancaneve trova rifugio presso i sette nani, che da freak perturbanti (nella fiaba la fanciulla si spaventa nel vederli, «ma essi si dimostrarono amichevoli») diventano, nelle mani degli animatori americani, buffi ometti – grandi lavoratori e pessimi casalinghi –, ciascuno dotato di una precisa connotazione. Ci sono il saggio, l’arrabbiato, il tenerone, il timido, e il loro nome coincide con le rispettive peculiarità “psicologiche”, secondo la regola della costruzione archetipica.

Per realizzare il primo lungometraggio in cel animation della storia del cinema, il primo film d’animazione americano e il primo completamente a colori, Disney sceglie la settima versione di Schneewittchen, elaborata dai fratelli Grimm nel 1857: la più edulcorata e adatta ai bambini – anche se molto più cruenta di quella che spopolava al tempo a Broadway, cosa che gli procurò non poche critiche – in cui scompare la madre naturale afflitta da istinti infanticidi, è smorzato il desiderio cannibale di mangiare la bambina (tale è, nella fiaba, Biancaneve) e viene attenuata la tendenza necrofila del principe. Questi cambiamenti decisivi rendono conto della violenza della fiaba originale, che di fatto si mantiene ma in modo tale da non essere percepita: nel cartone animato la Regina Cattiva è prima molto bella ed è quasi incredibile possa nutrirsi del cuore di una ragazza, poi talmente brutta che non si vede l’ora scompaia (1). Magra e sinuosa, fasciata da un abito viola e avvolta da un mantello nero cangiante (si immagina di velluto), ha sopracciglia perfette ad ala di gabbiano e occhi dimezzati: ricorda molto la Greta Garbo de La tentatrice (1926).

Nella fiaba dei Grimm di lei si dice: «Ogni volta che incontrava Biancaneve il suo cuore si infiammava di rabbia […]. Orgoglio e invidia crebbero sempre più, come una gramigna nel cuore, finché non trovò più pace, né giorno, né notte». Non crea pozioni magiche, semplicemente si maschera «da vecchia venditrice ambulante» e tenta di soffocare Biancaneve con un nastro, poi di avvelenarla con un pettine, infine con la mela. La fiaba condanna impietosamente la sua freddezza di cobra – «Il suo cuore invidioso ebbe pace, per quanto un cuore invidioso possa trovarne» – imponendole una morte tremenda: Grimilde deve assistere al matrimonio di Biancaneve col principe e camminare indossando scarpe di ferro roventi fino a creparne.

Filologi dell’epica medievale e della saga, i Grimm avevano già intuito come «la fiaba fosse non solo l’espressione di un gusto del tutto remoto dal quotidiano, ma soprattutto incarnasse la figura di un mondo giusto e coerente; fosse esempio e modello etico» (2), al punto che l’insegnamento, archetipico e non “morale”, le risulta connaturale. In quanto storia simbolica, la fiaba riflette una struttura psicologica umana basilare, dunque universale, e i suoi personaggi, più che astratti, sono «immagini di processi archetipici alle quali manca il contesto umano, la vita reale individuale e concreta», come scrisse Marie-Louise von Franz (3). Nei suoi primi film d’animazione Disney osserva con rigore i princípi simbolici, tanto che, fino a La bella addormentata nel bosco (1959), le sue “cattive” non hanno nemmeno un nome: sono la “Regina Cattiva” e la “Matrigna”, punto.

Cenerentola è una fiaba probabilmente originaria della Cina o addirittura dell’antico Egitto, di cui esistono centinaia di adattamenti. Per il suo dodicesimo classico Walt adotta la versione seicentesca di Charles Perrault, la meno sadica. Per l’autore francese le sorellastre «fecero tutto il possibile per far entrare il piede» nella scarpetta, «ma non vi riuscirono», riconoscono in Cenerentola la misteriosa gran dama del ballo, le si gettano ai piedi chiedendo perdono e vengono accolte a corte e maritate a nobiluomini (nella variante riportata dai Grimm una sorellastra si taglia la punta del piede e l’altra il tallone, entrambe ingannano il principe ma, lungo la strada verso il castello, vengono aggredite e accecate da due colombe).

Ciò che più conta, però, è la scarsa pregnanza della Matrigna nella fiaba e l’assoluto dominio conferitole nel film. Se in Perrault, nella traduzione del 1910 di Verdinois qui considerata, della moglie si dice «che più superba non s’era mai vista» e che «non potea soffrire le doti della giovanetta, che rendevano ancor più odiose le sue figlie», per poi sparire a vantaggio delle sorellastre – avversarie invero assai blande –, per Disney la Matrigna diventa l’occasione di realizzare la prima, vera cattiva. Sebbene ancora priva di un nome (a differenza delle sorellastre, Anastasia e Genoveffa), è infatti una donna con precise caratteristiche fisiche e morali, calata in un contesto storico meno fiabesco di quello in cui si aggirava la Regina Cattiva. Per abbigliarla Disney s’ispira alla moda femminile fin de siècle (Perrault vestiva i suoi personaggi secondo quella francese del XVII secolo): la strizza in un corsetto che intuiamo essere di stecche di balena, le raccoglie i capelli in una pettinatura che risalta i ciuffi grigio più chiaro, anticipando di decenni il grey pride sdoganato dall’americana Anne Kreamer col best-seller Io non mi tingo. Di origini nobili, altéra e a tratti sarcastica come Maggie Smith in Downton Abbey, la Matrigna non alza volentieri la voce (le doppiatrici italiane delle cattive hanno sempre timbri bassi e suadenti), non perde mai la calma, con cinismo fa della figliastra una serva (Victor Hugo docet), ha intensi occhi verdi e si prodiga affinché le sue «bambine» quasi zitelle vengano impalmate. Alla sua prima apparizione è poco più di un’ombra alla finestra che osserva minacciosa dall’alto, mentre accarezza voluttuosamente il gatto (la mente, per associazione anacronistica alla Petrolini, corre a Blofeld, l’arcinemico di James Bond: quando al cinema qualcuno accarezza un gatto difficilmente ha buone intenzioni, e infatti Disney fa del felino il contrappunto di ogni malazione della Matrigna, il suo servetto infame – e il perché i gatti al cinema siano tendenzialmente malvagi, con buona pace dei gattofili, sarebbe un altro interessante argomento di discussione).

La madre di Anastasia e Genoveffa appartiene all’illustre galleria di arrampicatrici sociali, per sé e per procura, determinate fino alla spietatezza, espressioni ante litteram di sogni da media borghesia. È la progenitrice di tutte le ex reginette di bellezza o ex campionesse di pattinaggio che, a lustri o decenni di distanza, costringono le figlie a vincere nuovi concorsi e nuove gare, lasciando in eredità, deformata e deformante, la necessità di ricercare compulsivamente la perfezione estetica e il successo di pubblico (chimere postmoderne che in parte hanno sostituito il principe azzurro), con risultati che negli Stati Uniti sono spesso parossistici e più volte vengono messi a tema da Hollywood e dalla letteratura (vedi Sorella, mio unico amore di Joyce Carol Oates).

A ogni azione di Cenerentola corrisponde una reazione della Matrigna: il confronto tra le due è serrato e costante come tra due pugili sul ring, con la differenza sostanziale che Cenerentola attua una strategia inconsapevole (la solita bontà, che si fa muro di gomma) e la Matrigna ai guantoni preferisce fazzolettini intrisi di essenze profumate.

Nove anni dopo Cenerentola, Disney torna a saccheggiare Perrault per il suo sedicesimo lungometraggio, La bella addormentata nel bosco. Come nel precedente caso, assistiamo a una notevole metamorfosi dell’antagonista, che oltre a un nome acquista una propria carica seduttiva.

Nella versione italiana, tradotta da Collodi, le fate invitate al battesimo della figlia tanto cercata da Re e Regina sono sette (tredici per i Grimm), mentre sempre una è quella non invitata, che si vendica dell’affronto condannando la principessina a morire per la puntura d’un fuso (4). Secondo Perrault questa fata è vecchia ed è stata dimenticata senza malizia «perché da cinquant’anni non usciva più dalla sua torre e tutti la credevano morta». Qual che sia il motivo della svista, la reazione resta la stessa: la fata si offende a morte e, pur essendosi sottratta alla compagnia degli altri per anni, non accetta che gli altri si siano dimenticati di lei. Scaglia una maledizione che solo l’intervento di una fata buona attenua, convertendo la condanna letale in sonno secolare. Nella fiaba, poi, l’intervento salvifico del principe non ha niente di eroico: dopo che, per anni, chiunque si sia avvicinato all’intrico di «arbusti, sterpi e pruneti» che proteggono il sonno della principessa è rimasto ineluttabilmente trafitto, trascorsi cent’anni al Principe (senza nome) basta infiammarsi al pensiero della bella dormiente e decidere di raggiungere il castello; lì giunto, «ecco che subito tutti […] i roveti si tirarono da parte, da se stessi, per lasciarlo passare». Tale risoluzione è apparsa così inconsistente a Perrault e compagni da suggerire l’aggiunta di una seconda conclusione: ormai sveglia, la Bella s’innamora del Principe, che decide di vivere con lei e farci due figli, senza dirlo ai genitori. Solo alla morte di suo padre il Principe esce allo scoperto: conduce la famiglia al cospetto della madre, discendente da una stirpe di orchi, e parte per la guerra. Presa da un impeto ancestrale, la suocera vorrebbe mangiare nuora e nipoti, che solo il buon cuore del cuoco salva. «Il tema classico della liberazione della principessa è seguito da quello, altrettanto tipico, della suocera crudele che perseguita la madre e i figli» osserva la von Franz (5).

Tutto questo in Disney non c’è: l’equilibrio narrativo viene raggiunto conferendo all’antagonista una presenza poderosa e facendo del Principe (Filippo) non più il salvatore arrivato casualmente al momento giusto, ma un personaggio con una propria dignità che si innamora di Aurora quando lei è ancora sveglia e, per salvarla, deve affrontare rovi tremebondi e un drago sputafiamme, armato solo di spada e coraggio. Nella Bella addormentata di Disney tutti i personaggi hanno un nome e precise caratteristiche psicologiche. Così Malefica non è una vecchia fata inacidita, bensì una strega magra e lunatica (una luciferina fata caduta). Ha la pelle verdognola ma liscia, lineamenti marcati ma belli, è truccata con cura. Coperta da un lungo mantello nero che ne esalta l’altezza, indossa un copricapo biforcuto dagli inquietanti echi satanici, è assistita da un corvaccio e uno stuolo di maiali su due zampe le cui feste ricordano sabba medievali e notti di Valpurga, vive arroccata in un castello che cade a pezzi, incede maestosa poggiandosi su un alto scettro magico, all’indice porta un anello grande e rotondo di ossidiana che Bette Davis avrebbe apprezzato.

Rispetto a Biancaneve e Cenerentola, nel 1959 Disney non ha paura di spingere sui toni scuri: le sequenze al castello di Malefica, l’aggressione di Filippo nella capanna nel bosco, la salita lungo la scala a chiocciola di Aurora ipnotizzata (esempio di cinema in 4D: si sente il freddo quando il fuoco si trasforma nel malefico bagliore verdastro che la condurrà all’arcolaio) e la battaglia finale tra il principe e la strega-drago contengono accenti di tensione, violenza e pericolo inediti. Per la prima volta si accoglie nella narrazione anche l’aspetto oscuro intrinseco a tutte le fiabe che trattano di un complesso materno negativo (6), prima dell’edulcorazione imposta dal marketing a metà del XIX secolo. La storia della ragazza benedetta da alcune figure materne e maledetta da una di loro richiama «il mito di Core, la cui scomparsa non è dovuta alla madre Demetra: costei è una figura dall’aspetto duplice e variabile, è la dea della fecondità, assiste le donne partorienti […] ma, dopo aver perduto sua figlia, diventa una divinità della vendetta e del dolore. […] Se prendiamo in considerazione il caso di queste antiche dee-madri che odiavano le loro incarnazioni umane, notiamo che il conflitto può caratterizzarsi nel modo seguente: le dee […] non fanno che seguire le loro reazioni emotive elementari» (7). Malefica asseconda una reazione elementare, e Disney asseconda Malefica dando spazio alla sua cattiveria, rendendola sublime in senso romantico: è la cattiveria della Madre (Natura).

La calma con cui le buone – tutte orfane o con madri dal peso ininfluente (Aurora nasce «miracolosamente») – accolgono le vessazioni delle cattive (sostitute delle madri naturali che, in origine, danno la vita e vorrebbero toglierla) assume così un contorno diverso: chiosando ancora la von Franz, se la madre muore, la figlia prende simbolicamente coscienza dell’impossibilità di identificarsi con lei, nonostante la permanenza della relazione positiva essenziale. «La morte della madre è l’inizio del processo d’individuazione» di junghiana memoria: «La figlia desidera diventare un essere femminile positivo, ma in modo personale» (8) e ciò implica l’obbligo di passare attraverso tutte le difficoltà di questo ritrovamento (le matrigne, le streghe, i sonni eterni).

Per definirsi, la donna deve riconoscere la propria debolezza ed entrare in conflitto. È il grande problema della psicologia femminile: come la madre-mantide narrata da Irène Némirovsky in Jezabel nel 1936, Malefica, la Matrigna e la Regina Cattiva sono necessarie ad Aurora, Cenerentola e Biancaneve per esistere. La luce si staglia sul buio.

Tale è il rilievo dei negativi (al cinema il fotogramma positivo è il complemento chimico del negativo) e tale l’evoluzione della tavola valoriale nell’epoca contemporanea che nei quattro film live action realizzati tra il 2012 e il 2015, ispirati alle tre fiabe qui considerate, le cattive Disney sono impersonate da dive che da anni accendono le fantasie degli spettatori, in un grandioso ribaltamento che vede le bellissime interpretare le cattive e le buone affidate ad attrici carine. Julia Roberts e Charlize Theron sono le Regine Cattive rispettivamente in Biancaneve e i sette nani di Tarsem Singh e Biancaneve e il cacciatore di Rupert Sanders. Cate Blanchett è stata scelta da Kenneth Branagh come Matrigna di Cenerentola. Nel caso della Bella Addormentata, tale è il carisma di Malefica che per la sua versione live action si è deciso di venire allo scoperto e manifestarne la superiorità con uno spin-off ad hoc: in Maleficent Angelina Jolie, alias Malefica, è la protagonista della storia (la strega offesa ha acquistato un titolo, dopo il nome). Roberts, Theron, Blanchett e Jolie sono ciascuna, singolarmente presa, archetipo di dolcezza, bellezza, fascino ed erotismo (sembrerebbero i doni delle fatine al battesimo di Aurora): il fatto che proprio loro incarnino le cattive non può essere questione meramente anagrafica.

Nella bifronte Hollywood si perpetua insomma l’idea che la cattiva sia più intrigante della buona. Pazienza se farà sempre una brutta fine. Si consolerà dominando l’immaginario collettivo.

 

  1. E la potente immagine del cuore mangiato riecheggia tra secoli e nazioni, fino a tornare nel film di Matteo Garrone Il racconto dei racconti (2015), ispirato alle opere di Giambattista Basile.
  2. Alex Voglino, Alle radici della fiaba, in «Antarès», n. 9, Lune d’acciaio. I miti della fantascienza, Edizioni Bietti, Milano 2015, p. 24.
  3. Marie-Louise von Franz, Il femminile nella fiaba, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 24.
  4. Annota a proposito di tale scelta la von Franz: «Il fuso è l’analogo della spina o dell’ago che in molti racconti popolari maghi e streghe conficcano nella testa, nell’occhio o dietro l’orecchio o ancora nel dito della loro vittima, provocando il sonno o la morte. Psicologicamente, una parola pungente può effettivamente uccidere. L’osservazione tagliente è la forma abituale dell’aggressività femminile e dell’Anima. Le donne non sbattono generalmente la porta, non imprecano, ma lanciano qualche osservazione sottile; è la ferita della strega che colpisce precisamente il punto debole dell’altro» (ivi, p. 49).
  5. Ivi, p. 21.
  6. Sul tema del complesso materno negativo e sulle sue implicazioni psicologiche, storiche e culturali si veda il già citato libro di Marie-Louise von Franz, in particolare i capitoli dedicati a Rosaspina e Vassilissa la bella.
  7. Ivi, pp. 29-30.
  8. Ivi, p. 158.

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