The Zombie Horror Picture Show. Un comune mortale che ci rende mortali senza catene

Matteo S. Chamey
Rob Zombie n. 1/2015
The Zombie Horror Picture Show.  Un comune mortale che ci rende mortali senza catene

I dettagli penetrano l’inconscio come uno spillo pungola la carne, a un livello sottocutaneo quasi impercettibile. Quando la realtà assume le sembianze della finzione, noi spettatori-attori possiamo cavalcare lo spazio-tempo switchando tra le varie conscie opzioni fisico-chimiche del nostro cervello adrenalinizzato: osservando impassibili (assimilando in silenzio), agitando i muscoli con frenetica e/o ritmica irruenza, partecipando collettivamente all’abbraccio-applauso di massa con l’intento di scandire i brani dall’alto della più fanatica conoscenza dei testi musicati. Il tutto con Rob Zombie davanti. The Zombie Horror Picture Show è il primo film dell’autore registrato dal vivo in Texas, tra effetti speciali, robot, fuochi d’artificio, mega schermi LED e un impianto luci che, molto probabilmente, ha lasciato al buio mezzo Stato. Potenza di una band che comprende John 5, Piggy D e Ginger Fish alle prese con i classici di Rob: Teenage Nosferatu Pussy, Superbeast, Super Charger Heaven, Living Dead Girl, We’re an American Band, More Human than Human, Sick Bubblegum, Never Gonna Stop, Ging Gang Gong De Do Gong De Laga Raga, Meet the Creeper, Angry Red Planet, Mars Needs Women, House of 1000 Corpses, Lords of Salem, Dead City Radio and the New Gods of Super Town, Thunder Kiss ‘65 e Dragula. L’atmosfera da Titty Twister (il localaccio vampirizzato in Dal tramonto all’alba [1996]) accende gli entusiasmi come il sentore del fuoco una miccia pronta a esplodere. L’attenzione per gli effetti visivi edulcora e deodora l’ambiente circostante anestetizzando la brutalità e l’oscenità riflesse negli elementi di rifrazione del prisma umano, qui vivace fautore di molteplici contatti orgasmici degli elementi terra-aria-fuoco. Le diapositive in movimento (effetto Polaroid) si intersecano con grande commistione di genio e sregolatezza, alternandosi al vivo e brillante HD dalle accese tinte rosso e blu. La fusione organico-metallica sgorga in ogni istante dalla pelle sudata dei corpi estasiati, mutilati dalla quotidiana repressione, liberi di evaporare tra le braccia di zio Rob. L’asta del microfono è un demone crocifisso che impala musica nel cervello degli astanti, il calore emanato dal palco è una fiamma perpetua a cui accostarsi volontariamente per lasciarsi beatamente scottare. Fotogrammi e istantanee di un film-concerto (non documentario) improntato sull’interrelazione stretta tra immagini, musica e pubblico: canti balli e pogo pre-live con schieramenti di genere (femminile al ballo di gruppo, maschile al pogo); tette al vento ritmicamente sensibili ai cameramen e gioiosamente proiettate sui maxi-schermi; un bambino in prima fila stoicamente presente per raccontare a se stesso (fra qualche anno) che Rob Zombie non è (per fortuna) Marilyn Manson; eterna schitarrata finale con Zombie-passerella nella folla abbondantemente sfinita; making of e titoli di coda con accompagnamento metal-industrial onirico. In memoria scenica degli Iron Maiden, con uno sguardo “oltre” sulle proiezioni filmiche messicane degli Hocico (ma qui l’horror è fatto in casa), la performance di Rob è un costante crescendo di emotività, tecnica, coinvolgimento globale dei sensi ed empatia con il suo pubblico. Non si nasconde un certo distacco robotico iniziale, figlio dell’impostazione on the floor abituale o forse dell’emozione e della lenta integrazione artistico/ambientale. Il pesante trucco e la vivacità degli effetti visivi tendono a sovrapporsi alla costante ricerca della perfezione alchemico-musicale dell’attimo (che sfugge) e la percezione che qualcosa non stia andando per il verso giusto è netta almeno fino alla metà del concerto, quando anche le mura sembrano due enormi polmoni che aspirano metal. La regia cinematografica sottrae la lenta e cruda esperienza fisica per una maestrale e frenetica sovrapposizione di “cose” che avvengono tutte nel medesimo atto. La partecipazione collettiva della band è priva di sbavature, come se avesse suonato a occhi chiusi in ologramma dalle Hawaii. Gli oltre 70 minuti scivolano via come il sangue dalle suole, saldando negli occhi e nei cuori degli spettatori quell’immagine-icona che regna attorno a Rob: è uno di noi. Ed è proprio questo fattore a emergere tra le anime texane dell’occasione, un comune mortale che ci rende mortali senza catene. Il messaggio apparentemente elargito dal classico sex, drugs and rock‘n’roll si traduce esotericamente in un fuck, freedom and sex‘n’roll, che significa fottitene delle limitazioni, sentiti libero di essere (anche americano, come ama sventolare in un frame) e ama/scopa con ritmo. Con questa live performance ufficiale Rob Zombie mette a tacere qualunque detrattore, esalta ogni aspetto di sé e della sua creatività, celebrando musica parole e cinema sotto uno stesso tetto. Schiaccia l’acceleratore del metal-industrial dal groove a tratti cadenzato e ossessivo ed entra di diritto nella storia della musica come presenza imprescindibile dell’eclettismo artistico interpersonale. Ci nutre ancora una volta, donando un organo di sé per il cannibalismo intelligente di noi esseri culturalmente (ben)pensanti.

Cast & Credits

Titolo originale: The Zombie Horror Picture Show; regia: Rob Zombie; origine: Usa, 2014; durata: 81’; home video: dvd e Blu-ray Universal.

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