Il cinema del disorientamento. Intervista a Rob Zombie

Manlio Gomarasca
Rob Zombie n. 1/2015
Il cinema del disorientamento. Intervista a Rob Zombie

Parliamo della genesi di Le streghe di Salem. Sappiamo che hai tratto ispirazione da un libro e che inizialmente volevi farne un comic book.

La storia si basa in parte su un fatto realmente accaduto, cioè il processo alle streghe di Salem avvenuto in Massachussets al centro del libro a cui vi riferite e che mi ha fornito lo spunto per la storia. Nonostante l’idea, non sapevo come svilupparla. Da qui l’intenzione di farne o una graphic novel o una canzone. Poi ho iniziato a scrivere una sceneggiatura, 30 pagine, non di più. Ma non mi convinceva, così l’ho archiviata e non ci ho più pensato per cinque anni. Poi, un paio di anni fa, sono stato contattato dai produttori del film. Erano in cerca di un progetto poco costoso, mi hanno chiesto se avessi un’idea da sottoporgli e mi sono ricordato di Le streghe di Salem. All’inizio, però, non doveva essere così low budget.

Le streghe di Salem non è solo un horror. La possessione ha quasi gli stessi effetti di una tossicodipendenza, tanto che la trasformazione che subisce la protagonista, il suo rinchiudersi in casa, sembra quella di un drogato…

Fin dall’inizio non volevo fare un horror qualsiasi. Dopo i due Halloween, che sono film horror nel senso più stretto del termine e rivolti a un pubblico di amanti del genere, per Le streghe di Salem ho pensato più a un dramma dai risvolti psicologici in grado di lasciare delle porte aperte: è la protagonista sprofondata di nuovo nella tossicodipendenza? Sta forse perdendo la ragione? O quello che si vede sta accadendo per davvero? Mi piaceva l’idea di fare un film dove chi guarda non è mai del tutto certo di quello che sta vedendo. I miei film preferiti sono quelli dove non capisci proprio un cazzo di quello che sta accadendo. Poi li guardi una seconda volta e iniziano ad avere senso. Anche Le streghe di Salem ha senso, è disseminato di molti indizi, sebbene abbia sempre saputo fin dall’inizio che molti spettatori non l’avrebbero capito al primo colpo. Cosa che è puntualmente successa al Toronto International Film Festival. In molti si aspettavano un film sulla linea di La casa del diavolo o Halloween. The Beginning, mentre io ho fatto un film opposto. Anche stilisticamente. Anziché agitare la cinepresa come fossimo in un documentario, ho privilegiato inquadrature statiche e imponenti. In un certo senso questa lentezza nel ritmo lo avvicina di più al cinema italiano e in generale europeo. Non so, forse voi siete più pazienti, ma nel cinema americano tutto accade in un attimo e se ci mette un po’ di più la gente si alza ed esce dal cinema. Pensate a Suspiria, dove in pratica non succede quasi nulla, ma basta un po’ di pioggia e vento per rendere terrorizzante il tragitto in macchina dall’aeroporto (accade nel prologo, ndr). È la stessa cosa che ho voluto fare io, accumulare tasselli uno sull’altro fino a dare l’impressione di essere stati in un sogno. Ecco anche perché ho voluto chiudere il film con la scena in cui la protagonista gioca con il cane, quasi a dire: è veramente successo? È lei che non ricorda? Siamo noi? In pratica ho preso per il culo il pubblico (ride).

Qual è la tua relazione col cinema horror italiano?

Molti tra i registi che preferisco sono italiani: Argento, Fellini, ce ne sono tanti. Di tutti loro mi piace il fatto che concepiscono un film come un’opera d’arte e non come una qualunque cazzata da vendere come i pop corn. Suona un po’ arrogante, ma io il cinema americano di oggi lo detesto. Guardi un film e, anche se non l’hai mai visto, riesci ad anticiparne le battute. Secondo me il cinema americano, oggi, si rivolge a un pubblico di età non superiore agli undici anni. Spider-Man, Batman, Thor: chi cazzo se ne frega! Nel cinema che vedo io e che arriva dall’estero noto ancora il piacere di andare contro le regole. Non so se abbia senso quello che sto dicendo, ma nei film stranieri riesco ancora a vedere l’arte. Se solo ti azzardi a usare il termine “arte” di fronte a un produttore americano, ti sbattono fuori dall’ufficio a calci: «Non ci provare a usare quella parola!». Si arrabbiano sul serio, non la vogliono sentire. Mentre adorano la parola “soldi”. Che per carità, va bene, però a tutto c’è un limite. Ed è il motivo per cui prima di fare questo film ho preteso un contratto che mi garantisse carta bianca e l’ultima parola sul final cut. Sapevo che, se mi fossi trovato ad avere a che fare con gli studios, non l’avrebbero mai approvato, mi avrebbero fatto tagliare il finale, l’avrei dovuto rendere più comprensibile, qualcuno sarebbe arrivato a salvare la protagonista all’ultimo momento. Insomma, avrebbero mandato a puttane il mio film.

Una domanda d’obbligo, a questo punto. Vedremo mai il director’s cut di La casa dei 1000 corpi?

Temo di no, per il semplice motivo che alla Lionsgate, la società che detiene i diritti del film, non interessa. Sto cercando di trovare un modo per portarglielo via e darlo alla Anchor Bay, in questo modo si potrebbe fare la deluxe edition e vedrebbe la luce la versione integrale. Il problema sono sempre i soldi. Non credono valga la pena rischiare. Se poi lo sanno dov’è, il film, probabilmente si sarà perso da qualche parte. Non mi sorprenderebbe. Forse potrei averne una copia io nel mio garage (ride).

Nel film è molto suggestiva la contrapposizione tra gli spazi aperti, ripresi con lunghe panoramiche, e gli spazi angusti dove vive la protagonista.

Salem in quel periodo dell’anno è avvolta in questa atmosfera magica che ho voluto catturare il più possibile. Il vento, le cascate di foglie che cadono dagli alberi. Ma è vero, c’è anche questo aspetto claustrofobico dato dalla condizione di reclusa della protagonista, mentre fuma crack tutto il giorno. Ed ecco di nuovo il dubbio se il raggio di visione sia reale o solo nella sua testa. Ecco perché, quando usciamo dall’edificio, cerco di riprendere l’esterno nel modo più ampio possibile, stando sempre all’interno del budget. Il budget è stato un problema.

Hai sempre avuto in mente Sheri Moon per il ruolo della tua eroina?

Sì, per il ruolo dei tre dj ho sempre pensato a Sheri, Ken Foree e Jeff Daniel Phillips. Tutti gli altri li ho scelti in seguito. All’inizio Bruce Dern avrebbe dovuto interpretare il ruolo che poi è andato a Bruce Davison. Ma la cosa non è andata in porto a causa di un reading del copione dove non si è dimostrato molto amichevole (ride). Così l’abbiamo sostituito. Adoro Bruce Dern, è sempre stato uno dei miei attori preferiti ed ero elettrizzato ad averlo, ma… va be’… Patricia Quinn l’adoro, è completamente fuori di testa. Mentre la vera scoperta è stata Judy Geeson. Si presentò per la parte della tenutaria e, non appena iniziò a leggere, fu fantastica. Ma non avevo in mente quasi nessuno.

È vero che alcuni personaggi sono stati espunti dal montaggio finale?

È vero. Per la prima parte, con le streghe nel 1696, avevo girato molto materiale. C’erano Sid Haig, Michael Barryman, Richard Lynch. Dopo avere girato un giorno intero, Richard Lynch è morto e non ho più potuto ultimare le riprese. Ho dovuto rimontare tutto ed eliminare molto di quel materiale perché non avrebbe avuto senso. Non potendo più usare quel girato in costume, ho concepito un altro plot in cui tutte le vittime delle streghe erano collegate con gli abitanti originari di Salem, ma anche qui mi sono ben presto accorto che non avrebbe funzionato comunque. Allora ho deciso di togliere quasi completamente quella parte. Non avrei mai voluto, ma non avevo scelta.

Parliamo dell’aspetto surreale del film e della componente religiosa che ha causato polemiche.

Ho sempre pensato che fosse un buon pretesto per fare incazzare la gente (ride). È sempre un argomento che disturba. A me personalmente no. Fin da bambino non ho mai creduto in niente, anche se i miei genitori mi hanno fatto studiare in scuole cattoliche. E siccome anche adesso non ci credo, mi diverto a stuzzicare gli altri, provocandoli.

All’inizio, quando ascoltano la musica dei Lords of Salem, sembrerebbe che tutte le donne di Salem vengano possedute, ma poi il film cambia direzione e si concentra solo su Sheri Moon…

Il fatto è che tutte quelle donne che si vedono sono legate agli abitanti originari di Salem e quindi reagiscono in quel modo, ma, dal momento che lei è la diretta discendente del reverendo che ha mandato le streghe al rogo, diventa automaticamente il fulcro della storia. È questa la ragione della loro vendetta. Il suo discendente sarà colui che porterà direttamente Satana nel mondo. La peggior forma di umiliazione, secondo il loro punto di vista.

È bello il modo in cui concludi la storia d’amore tra Sheri Moon e il suo compagno, con quella porta che si chiude come a sottolineare l’impossibilità di seguirla in un mondo a cui lui non potrà mai appartenere. Parlaci della componente romantica del film.

Ecco, questo è uno dei principali aspetti che è stato difficile fare accettare ai produttori perché nella loro ottica, lei sarebbe dovuta tornare indietro o lui andare a salvarla. Mi piaceva la loro relazione, ma ho anche pensato: una volta che la porta si chiude, lei è perduta, il suo cervello andato ed è entrata in un’altra dimensione. Se lui fosse sopraggiunto per salvarla, il pubblico si sarebbe fatto delle grasse risate. In ogni caso, con tutto quello che di tremendo accade dopo, di lui ci si dimentica completamente. Insomma, si può credere in questa relazione e si può anche sperare che ci sia un debito da pagare, ma interromperla mi è parso più realistico.

Perché da musicista non componi mai le colonne sonore dei tuoi film?

Uso canzoni altrui perché, in un certo senso, la mia musica non mi dice niente. Non è che quando ascolto una mia canzone provi qualcosa. Le canzoni degli altri, invece, mi contattano a livello emotivo. Se fai qualcosa è raro emozionarsi di se stessi. Oddio, magari qualcuno lo fa (ride), ma io no. I brani dei Blinded by the Light o dei Velvet Underground mi evocano qualcosa e a livello emotivo posso trovargli un posto in un film. Per quanto invece riguarda la musica originale, l’ha composta John 5 che suona nella mia band. Siamo molto vicini e quindi ho pensato di coinvolgerlo. Credo però che se avessi sentito la mia voce all’interno della partitura sarebbe stata fonte di distrazione e in un certo senso fastidiosa. Se davvero avessi sentito che poteva trovare un suo posto l’avrei inserita, ma non è stato così.

Però usi i titoli dei tuoi film nelle canzoni che scrivi…

Sì, perché mi piacciono talmente tanto quei titoli, che ho sempre paura che qualcun altro possa appropriarsene. Così scrivo una canzone e mi garantisco la paternità del titolo. Metto il timbro (ride).

 

 

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