White Trash Zombie Blues. I redneck di Zombie tra cinema, musica e letteratura

Mauro Gervasini
Rob Zombie Reloaded n. 8/2019
White Trash Zombie Blues. I redneck di Zombie tra cinema, musica e letteratura

Vigilia di Halloween 1977. Il canale 68 trasmette il programma horror del sedicente Dr. Wolfenstein, tra i preferiti del clown pazzo Captain Spaulding (Sid Haig), che paga spot per pubblicizzare il suo tunnel degli assassini e la sua rivendita di pollo fritto. Tra una visione e l’altra, prima che si consumi la mattanza d’inizio film, dispensa memorabili massime, tipo: «Tutti vorrebbero solo mangiare e scopare». L’inizio di La casa dei 1000 corpi (d’ora in poi solo con l’originale House of 1000 Corpses) è la dichiarazione d’intenti del pastiche che seguirà. Vecchi film horror della Universal (in particolare parecchi spezzoni di Al di là del mistero di Erle C. Kenton, scritto dal grande Curt Siodmak nel 1944) e un’estetica – anche dei corpi – che richiama in modo netto due classici successivi (e coevi all’ambientazione): Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper e Le colline hanno gli occhi (1977) di Wes Craven, il cui protagonista, Michael Berryman, interpreta Clevon nel sequel di House of 1000 Corpses, La casa del diavolo (d’ora in poi solo con l’originale The Devil’s Rejects, “gli scarti del demonio”). Due immaginari a confronto: quello classico in bianco e nero e quello moderno del New Horror, richiamato da icone del periodo come Ken Foree (interprete di Zombi di Romero, 1978, e Charlie Altamont in The Devil’s Rejects) o la mitica Karen Black, protagonista negli anni della nuova Hollywood di un sacco di belle cose tra le quali Ballata macabra di Dan Curtis (1976), che del filone haunted house resta, per chi scrive, il capolavoro.

L’orizzonte di Rob Zombie, anche sceneggiatore della saga in due parti della ferocissima famiglia Firefly, non si limita ai pur evidentissimi rimandi cinematografici, ma spazia tra letteratura e (più compiutamente in The Devil’s Rejects) musica affondando mani e sguardo nel cosiddetto white trash, pseudocultura di una categoria sociale precisa – quella del sottoproletariato bianco degli stati del sud – che su grande schermo ha ultimamente trovato voce e narrazione grazie a un regista italiano, Roberto Minervini, in grandi film come Stop the Pounding Heart (2013) e The Other Side (2015). Il termine stesso – spazzatura bianca – viene usato per la prima volta da uno scrittore, non da un sociologo; lo inventa infatti Sherwood Anderson nel suo romanzo Il povero bianco, scritto nel 1920, di cui nel 2011 è uscita un’edizione italiana rinnovata nell’ottima traduzione di Eugenio Ponzilli. Il protagonista, fiero sudista, si definisce «poor white trash». La definizione viene recuperata in altre due opere classiche: La via del tabacco di Erskine Caldwell (1932), dalla quale John Ford trae uno splendido e ancora sottovalutato film nel 1941, dove è white trash lo scenario di piccoli agricoltori bianchi schiacciati dalla rivoluzione industriale; e Il buio oltre la siepe di Harper Lee (1960), dove è definita «white trash» la famiglia Ewell. I valori politici white trash sono semplici: Dio, patria (come riferimento astratto, mai vera e propria comunità) e soprattutto famiglia; identità razziale (bianca), richiamo a un edenico passato sudista (la bandiera confederata campeggia come etichetta dei jeans sul clamoroso fondoschiena di Baby Sheri Moon Firefly e sul berretto di Otis Bill Moseley), bassi standard morali e abitudine all’abuso di alcol e junk food (da cui il pollo fritto del Capitano), musica country e rock sudista. Infine domina il culto delle armi da fuoco. I Firefly di Rob Zombie sono l’estremizzazione grottesca di questa categoria sociale, dei suoi riti e miti, compiuta però non attraverso una elaborazione ironica, quindi critica, come quella (per esempio) che nel Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman (1975) viene fatta dello stereotipo familista puritano e conservatore, immortalato dal quadro American Gothic di Grant Wood (1930). Zombie non prende le distanze dai suoi redneck (alla lettera “colli rossi”, perché dei contadini bruciati dal sole: in italiano “bifolchi”), anzi partecipa con il furore del suo sguardo alle loro imprese, mettendoli in scena nella delirante e violentissima follia, ma anche rendendoli empatici, a tratti irresistibili, al contrario delle giovani vittime borghesi antipatiche a pelle (soprattutto i maschi, va detto). Non a caso, a braccare l’empio mucchio selvaggio in The Devil’s Rejects è un loro pari, lo sceriffo John Quincy Wydell, interpretato magnificamente da William Forsythe. Ha pronta per i Firefly una cura sudista: «100% Alabama ass kicking». Indaga sulla famigerata famiglia anche per vendicare il fratello ammazzato come un cane da Karen Black nel primo film. A un certo punto riceve in ufficio un sedicente critico cinematografico che richiama Kenneth Anger, pronto a svelare il segreto dei nickname degli assassini: da Captain Spaulding a Otis Driftwood, e persino lo stesso cognome Firefly, derivano da personaggi dei Marx, intesi come fratelli. Però il critico si lascia andare a un’eccitata lamentazione: «This sneering, rotating, gyrating pelvis son of a bitch, he died three days before Groucho, stole all the goddamn headlines… That goddamn, fucking Elvis Presley». Elvis che, essendo morto tre giorni prima di Groucho, ha oscurato la notizia della scomparsa del comico. Mai nominare invano il nome del Re in presenza di un sudista, si rischia la pelle.

Se Wydell ha il culto del Re, Captain Spaulding ha quello del Duca. Un tatuaggio di John Wayne campeggia sul suo braccio, pronto a ingrandirsi quando guizza il bicipite.

Va qui fatta una precisazione. Il termine white trash è altamente offensivo, mentre il (quasi) corrispettivo redneck viene sventolato spesso come bandiera identitaria (un po’ come il nigger degli afroamericani, ovviamente solo se lo dicono tra loro). Il cantore (spesso acido) della cultura redneck, a livello letterario, è stato Harry Crews, di cui ricordiamo soprattutto il capolavoro La fiera dei serpenti (1976). Ambientato in Georgia, «dove i bianchi sono feccia e i neri chiamano ancora questa feccia “padrone”», il libro, pur non essendo alla lettera un horror (anche se…), pone le fondamenta dell’immaginario di Rob Zombie (case mobili, fattorie malmesse che sembrano discariche, sangue, violenza, sesso, Jack Daniel’s e pollo fritto…). Immaginario non estraneo ad altri suoi compari della scena rock, punk e hardcore, dato che per esempio Kim Gordon dei Sonic Youth fa un tour tra il 1988 e il 1989 con un trio che denomina… Harry Crews. Altro titolo significativo di Crews è Lucidi corpi (1990). Finalista a un concorso di culturiste in un esclusivo hotel di Miami, la protagonista del libro Shereel assiste impotente all’irruzione dei propri familiari, contadini della Georgia, pronti a rompere tutti gli schemi appariscenti del suo nuovo mondo di bodybuilder plasticosi. Lucidi corpi è più programmatico e meno potente di La fiera dei serpenti, ma sottolinea un elemento fondante dell’identità white trash: il confronto aspro, violento, con gli “altri”, di solito gli americani altolocati della East Coast o dell’odiata California. Un tormentone di House of 1000 Corpses è il disprezzo settario dei Firefly per i quattro ragazzi un po’ saputelli che girano «la provincia» in cerca di bizzarrie e vengono poi fatti a pezzi dai redneck come da copione. Una costante del genere, certo (era già in Non aprite quella porta, per tacere di Un tranquillo weekend di paura [1972] di John Boorman), che però ha un legame preciso con il sentimento antiborghese della cultura rurale bianca, soprattutto sudista. Rob Zombie chiude la saga con il Capitano, Otis e Baby, ultimi superstiti della famiglia, lanciati a bomba contro il posto di blocco di poliziotti pronti a massacrarli di pallottole. Tutta la lunga sequenza è contrappuntata dalle note eterne di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd. Ma c’è un’altra canzone degli Skynyrd che offre forse la migliore narrazione dello spirito redneck. Si intitola Red White & Blue (i colori della bandiera, anche e soprattutto quella confederata) e comincia così: «We don’t have no plastic L.A. friends». Prosegue ancora meglio, con un ritornello che è un programma (su note peraltro tra il melodrammatico e l’epico): «My hair’s turning white, my neck’s always been red, my collar’s still blue». Conclude poi trionfalmente: «Yeah we love our families, we love our kids, you know it is love that makes us all so rich. That’s where were at, if they don’t like it, they can just get the HELL out!». Gli scarti del diavolo di Rob Zombie, invece di mandare all’inferno in senso figurato quei generici «they», si premurano di farlo sul serio.

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