"Zeder". Nulla ci ha mai fatto più paura

Davide Pulici
Pupi Avati n. 10/2019

In quel tempo – fine anni Settanta – Pupi Avati teneva sul comodino, come livres de chevet, Il mistero delle cattedrali e Le dimore filosofali di Fulcanelli. Il pio Pupi covava curiosità di ordine ermetico, sapienziale, alchemico, cui era arrivato attraverso Il mattino dei maghi di Bergier. Fulcanelli, nome a chiave e nome-parlante, cabalistico – “Il Vulcano del Sole”, “Vulcan Elios” – rimandava, tra le altre cose, alla teoria che i templi gotici del Medioevo fossero enormi libri di marmo, nelle cui decorazioni era stato nascosto il grande segreto della Pietra filosofale, «colei che i costruttori abbandonarono e disprezzarono ma che divenne pietra d’angolo, sostrato di ogni edificazione sapienziale». Pupi, che è allo stesso tempo mistico e pragmatico, mosse dall’apolide Fulcanelli per forgiare la personalità dell’ugualmente apolide Paolo Zeder, scopritore dell’esistenza di terreni in grado di ridare vita ai defunti. Nella backstory del film tutti sanno che gravitava la fola, che gli Avati si sentivano ripetere da piccini, di un cane che era morto, era stato interrato ed era riapparso in paese uggiolando in modo sinistro, gli occhi pieni di terra e di sangue. E c’era, per gli Avati come per tutti noi, il racconto spaventoso e intimidatorio che facevano le nonne contadine a proposito dei morti che, se non stavi buono, arrivavano di notte per tirarti i piedi nel letto.
Zeder è un pianeta completamente allotrio rispetto agli zombi di Zombi (1978), che nel 1983 era l’unico film sui morti viventi che avesse senso pensare Pupi e Antonio Avati conoscessero. Fulci, in questo mondo, non esisteva ancora. Ma a ben considerare, forse non esisteva nemmeno il Romero citato. Zeder esce dalla testa, dagli occhi e dal ventre di gente per la quale i morti risorgenti sono come quel don Costa che cammina nella struttura di cemento armato della colonia abbandonata e, in qualche modo, sorride, ammiccante e lubrico, all’indirizzo di Lavia che lo sta inquadrando nell’obiettivo del suo binocolo: una delle visioni più terrificanti e malsane che il cinema dell’orrore abbia mai regalato – non mi riesce di essere più icastico anche se quella situazione, quel personaggio, quella faccia, quell’ambientazione, quell’atmosfera, quella luce, lo reclamerebbero.
Il film comincia con un atto di forza la cui forza risiede nel non spiegare nulla di ciò che stiamo vedendo: cerimonia, esperimento, sacra ed esecranda rappresentazione. Nella dimora francese, che cela la tomba di Zeder, si producono eventi meravigliosi e incomprensibili. Vi è condotta una bimba che è una sorta di furetto parapsichico, in grado di stanare la misteriosa sepoltura. Poi non si capisce come appaiano sagome aliene, grandi e minacciose; come il morto, cioè il mostro, cioè Zeder, sbrani il polpaccio alla ragazzina che diverrà la zoppa Paola Tanziani; perché si verifichi un movimento tellurico che pare la reazione del terreno di fronte al disvelamento della verità. Pupi narra questo antefatto come se si trattasse di raccontare la messa sul fuoco e in cottura di uno strano manicaretto, nelle ombre pietrose di una cucina della Bassa. Racconta l’ignoto assoluto contestualizzandolo nel noto domestico. Il colmo dell’irrealismo con le mandibole di Zeder che riemergono dalla terra grassa e nera di Chartres, collocato nel colmo del realismo, tra credenze che sanno d’antico e dolci rosolii. Zeder, quindi, rende subito chiaro come il cinema gotico e l’arte gotica di Avati (che è anche ar-gotique, cinema a chiave, settario, cifrato) proseguano imperterriti e coerenti lo stile che era in La casa dalle finestre che ridono (1976). Il sovraumano e il sovrasensibile spaventoso Pupi li racconta così e non avrebbe possibilità di raccontarli se non in questa maniera, mescolando i piani, intersecando la terra e il cielo, le cose più grevi e il sublime. Zeder, a ogni buon conto, trasuda una minacciosità che nella Casa era più contenuta. Qui le connessioni si aprono ai massimi sistemi, anche: i terreni K, che garantiscono il ritorno, non garantiscono, però, l’attitudine – feroce, ferina, spietata – in cui si rientra dalla sfera del Dopo, dell’Oltre, che deve essere una selvaggia terra di nessuno dai colori molto simili all’azzurro livido e crepuscolare intravisto attraverso i vuoti della struttura della colonia, quel mostro di cemento, antico e scheletrico, che comunica, sopra, sotto, dentro, fuori, di fianco, direttamente col Nulla.
Il filo di Arianna che conduce nel labirinto dei risorti è assai ben trovato. Un nastro di macchina da scrivere che dischiude frasi tenebrose: «Il mio corpo sepolto attenderà l’ora… Le frontiere della morte saranno finalmente abbattute…». Pupi sfrutta l’aneddotica del proprio privato: aveva comperato una macchina da scrivere dal suo montatore e si era ritrovato a sbirciare una notte i sedimenti delle battute rimasti incisi sul nastro. E se una storia fosse cominciata così, con uno studente fuori corso che dentro il nastro di una macchina da scrivere inceppata trova il primo frammento di un puzzle sovrannaturale e mostruoso, che metterà insieme la locazione degli antichi oracoli pagani e la necropoli di Spina, la sorte reversibile di Lazzaro e l’amore oltre la morte, in un epilogo agghiacciante che è stato messo in rapporto mimetico addirittura con il finale di Pet Sematary di Stephen King, uscito quello stesso 1983? Ovviamente è folle pensare che per qualche oscura via il Re possa avere copiato Avati, così come il contrario. Sta di fatto che Louis, in attesa del ritorno di Rachel sulla pagina kinghiana, e Lavia che abbraccia la rediviva Anne Canovas – prima del morso, prima dell’urlo – in Zeder, sono una omologia piuttosto impressionante. Ma la vittoria, alla resa finale dei conti, è tutta quanta delle atmosfere dalle quali il tagliente sovrannaturale redivivo e carnivoro viene enfatizzato e reso in qualche modo ancora più osceno, nel senso classico dell’irrappresentabilità.
L’idea più incredibile del film, a ben considerare e dando ragione, in questo, a Pupi, è quella di avere messo una telecamera all’interno di una bara per monitorizzare la morte, per spiarne il segreto più segreto, per rispondere a quella domanda che viene prima di ogni altra. La visione più ardita, quella che non si dovrebbe mai tentare e mai restituire. L’obscenum, sic et simpliciter. Zeder ha dentro di sé, ben piantato, questo seme di disagio che è lo stesso dal quale germogliano i sogni terribili dove i nostri cari morti ritornano vivi e sono loro stessi ma allo stesso tempo non lo sono, perché la loro sostanza si è fatta aliena. E hanno disegnato in viso quella specie di sorriso strano che è lo stesso, sul punto di diventare ghigno e rictus, che Lavia spia nella figura di don Costa mentre cammina in quel suo doppiopetto nero ammiccando terribile all’occhio dell’osservatore remoto. Niente ma proprio niente nel cinema ci ha mai fatto più paura…

 

CAST & CREDITS

Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati, Antonio Avati, Maurizio Costanzo; fotografia: Franco Delli Colli; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa; costumi: Steno Tonelli; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Gabriele Lavia (Stefano), Anne Canovas (Alessandra), Paola Tanziani (Gabriella Goodman), Cesare Barbetti (dottor Meyer), Bob Tonelli (mister Big), Ferdinando Orlandi (Giovine), Carlo Schincaglia (don Luigi Costa); produzione: Antonio Avati e Gianni Minervini per A.M.A. Film, Rai; origine: Italia, 1983; durata: 95’; home video: Blu-ray X-Rated (Germania), dvd 20th Fox; colonna sonora: Gdm Music.

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