"Thomas… gli indemoniati". In medium res

Luca Pallanch
Pupi Avati n. 10/2019

Negli anni Settanta il cinismo dei cinematografari romani aveva coniato per una lunga schiera di registi, spesso improvvisati, il detto «Il primo e l’ultimo film», mirabile sintesi di un’intera carriera. Qualche fortunato alimentava la schiera, anch’essa nutrita, dei registi di un paio di titoli che avrebbe annoverato anche il nome di Giuseppe Avati detto Pupi, se il destino non avesse scompigliato le carte.
Siamo però sicuri che le prime due opere di Avati avrebbero comunque attirato l’interesse degli studiosi, a distanza di cinquant’anni, anche se avessero giaciuto solitarie, come fiori in un cimitero abbandonato. Troppo eccentriche, visionarie, strabordanti per non essere notate da quegli «ipotetici, spericolati, cinespigolatori a venire» ai quali Giovanni Buttafava avrebbe consegnato, alla fine del decennio, il destino del cinema italiano sommerso. «Qualcosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure», cantava Francesco De Gregori.
I titoli di testa di Thomas… gli indemoniati (1969) scorrono sui monumenti funebri del cimitero della Certosa di Bologna. Bambini vestiti di bianco cantano e suonano. Un uomo, anche lui vestito di bianco, si aggira con un mazzo di fiori tra le tombe: «Eccomi di nuovo qui come gli altri anni. […] Tutti oggi hanno il loro morto da festeggiare. Io… niente. […] Anch’io una volta tanto ho il diritto di avere il mio morto. […] So che non sarà facile. Devo trovarti. […] Un’idea folle, ma un’idea».
Un’idea folle, ma un’idea: in questa frase c’è il senso dell’intera operazione realizzata, a Bologna, da un gruppo di amici capitanati da Pupi Avati, fuori dai consueti canali produttivi, dalle logiche delle sovvenzioni statali, dai miraggi dell’art. 28, dalle certezze dei minimi garantiti dai distributori. Cinema autarchico, prima di Moretti e del morettismo, lontano da Roma, come piaceva a Ermanno Olmi, nella provincia fertile che avrebbe potuto salvare il cinema italiano, se avesse avuto la forza di restare decentrata. Avati, come l’Olmi di Il tempo si è fermato (1958), si inventa regista dal nulla ed edifica la sua carriera sulle ceneri di due colossali, quasi magistrali, insuccessi (la società di distribuzione di Thomas fallì e il film fu visto solo al festival di Locarno 1970). Eroici, come eroica fu la ricerca di capitali, la lavorazione, la creazione di professionalità in una città che non masticava cinema.
Balsamus, l’uomo di Satana (1968) e Thomas sono i film di Avati prima di (diventare) Avati. Idee folli, ma che idee! La seconda racconta una compagnia di guitti che portano in scena la storia di un bambino mai nato, prima della Fallaci…
L’uomo vestito di bianco compare all’improvviso nell’immensa sartoria (in realtà, una chiesa sconsacrata), in cui stracci pendono dall’alto come fantasmi. Lì un gruppo di attori sta provando la nuova commedia: la protagonista crede di avere avuto un figlio, ma è solo frutto della sua fantasia. «L’immaginazione è una cosa pericolosa», sentenzia il più celebre di loro – nella finzione e nella realtà – Marcus, interpretato da Edmund Purdom, attore inglese di casa in Italia dopo una parentesi hollywoodiana. Tutti temono un clamoroso flop, che per molti di loro significherebbe porre fine alla carriera. L’uomo vestito di bianco porta un po’ di luce nel pessimismo cosmico che avvolge l’intera compagnia: «Il futuro può essere rischiarato interrogando chi vive fuori dal tempo». È un medium e per sapere come andrà la prima teatrale propone di fare una seduta spiritica. I vestiti appesi cominciano a muoversi, i bicchieri a tintinnare, la macchina da cucire a battere i tasti da sola. Squilla il telefono, ma non si sente alcuna voce. All’improvviso si materializza un bambino, Thomas, il figlio evocato nella commedia. Tutti gli attori lo vogliono per sé e per risolvere la contesa decidono di passare ognuno una giornata con lui, che potrà così scegliere liberamente.
Si recano alla stazione diretti alla città della prima, ma li attende un treno fantasma, senza passeggeri, che in piena campagna si imbatte in un vecchio sospeso su un albero. È anche lui un attore, unico sopravvissuto alla prima della sua compagnia, barbaramente trucidata dal pubblico inferocito. Il più giovane del gruppo, Adam, suona l’allarme urlando: «Voglio scendere». Ritroviamo il vecchio sull’albero. Ride e augura un sarcastico «Buon viaggio».
Arrivati a destinazione, Thomas trascorre giornate infelici con alcuni attori: Laura lo porta a vedere la sua nuova casa, un ospizio, dove gli anziani muoiono come mosche; Bob si fa accompagnare al quarto congresso di sessuologia applicata (siamo in piena rivoluzione sessuale), dove è ospite d’onore.
Dopo essere stato Balsamus/Cagliostro nel precedente film, Tonelli assurge a dongiovanni regalando perle memorabili: «Per un vero uomo la violenza è il vero modo di fare l’amore… Dopo di me non si dirà più sadismo, ma bobismo». Dialoghi folli, ma dialoghi (la sceneggiatura porta anche la firma dell’etologo-entomologo-scrittore Giorgio Celli). Tonelli bacia una ragazza del pubblico con tale maestria che lei sviene. Tutti applaudono.
Al povero Thomas non va meglio con Pintus, il regista della commedia, che si incontra di notte con l’affascinante Zoe. Insieme si recano in una specie di cimitero, dove al posto delle lapidi sono collocate centinaia di bottiglie. Si sentono delle voci, le paure che Pintus cerca di scacciare. «Il passato è la nostra vera dimora».
Poi è la volta di Marcus, che si confida con Thomas, sentendo in lui qualcosa di familiare. Viene interrotto dalla telefonata di un medico, il quale si lamenta perché la moglie Lola è la quarta volta che gli chiede di interrompere una gravidanza inesistente. In realtà, Marcus è ancora innamorato di Giorgia e alla sua storia con lei si è ispirato per scrivere il testo teatrale. Confessa a Thomas di non essere riuscito a parlare con Giorgia e di essere finito a letto con Lola. Thomas scappa e si rifugia da Giorgia, la madre mancata e mancante.
Intanto la folla in teatro, come preannunciato dal vecchio del treno, cerca di squarciare la saracinesca che protegge il palco. Finalmente inizia lo spettacolo. Giorgia parla a Thomas della sua nascita. Escono da una porta luminosa in cerca di un posto perduto: camminano nel bosco e si ritrovano in un bar. A servirli è il cameriere la cui foto, a inizio film, campeggiava su una lapide. Era lui il prescelto dal medium per quel giorno dei morti. Passato e presente si intrecciano. Il tempo non muore mai: il cerchio non è rotondo. Giorgia è desiderata al telefono, ma nessuno parla. Come per l’ennesima magia, siamo di nuovo nella sartoria, durante la seduta spiritica, nel momento in cui era giunta la telefonata. «Morire, dormire… Sognare forse», come nell’Amleto. Gli attori sono seduti attorno al tavolo e la macchina da presa si ritrae pudicamente, fino a confondersi con gli stracci bianchi sospesi nel vuoto.
Dietro la rimozione di un figlio (e di un film) si celano sempre fantasmi.

 

CAST & CREDITS

Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati, Giorgio Celli, Enzo Leonardo, Antonio Avati; sceneggiatura: Pupi Avati, Giorgio Celli, Enzo Leonardo; fotografia: Antonio Secchi; scenografia: Claudio Giambanco, Guidobaldo Grossi; costumi: Silvana Bigi; montaggio: Enzo Micarelli; musiche: Amedeo Tommasi; interpreti: Lola Bonora (Lola), Anita Sanders (Giorgia), Pina Borione (direttrice), Gianni Cavina (Adam), Giulio Pizzirani (Pintus), Ines Ciaschetti (Laura), Graziano Giusti (medium), Mariangela Melato (Zoe), Edmund Purdom (Marcus), Daniele Samory (Thomas); produzione: Cidierre Cinematografica; origine: Italia, 1969; durata: 98’; home video: Blu-ray inedito, dvd 01 inedito; colonna sonora: inedita.

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