Tarocchi glaciali. Affinità e divergenze tra Nicolas Winding Refn e il movimento panico

Andrea Bruni
Nicolas Winding Refn n. 4/2017

«E io giudico la vita

Sul fil d’una lama futura

Come una Papessa impazzita

Amante di letteratura»

(Max Morise)

OUVERTURE PANICA

Nella cosmogonia che tutti noi sogniamo, il Valhalla dei Registi non è l’unico Parnaso agognato. No, fra siderali e arcaiche nebbie, oltre le colonne di Tenebra dell’Universo conosciuto, è tutto un pullulare di Empirei sognati: il Pianeta dei Matematici (anime lunghe simili ai diafanoidi di Margheriti), la Nebulosa dei Letterati (da lontano, un abnorme mostro marino, sorta di Leviatano così ben descritto da Melville); ma a noi oggi interessa in particolare il Gran Labirinto degli Avanguardisti. Un immane cubo di Rubik, i cui ingranaggi sono mossi, in una ridda di cachinni scomposti, dai Pallottini di Jarry e da un corteo di vescovi in fiamme. Ciò che non ci è dato sapere, causa la nostra umanissima inadeguatezza, è che fra questi mondi, sovente, avvengono scambi diplomatici. Per esempio, un bel giorno, grazie al paziente lavoro burocratico di Fellini, amicone di Roland Topor che fece da annoiatissimo tramite, nel Valhalla giunse Stanislaw Ignacy Witkiewicz, il folle teorico-pagliaccio del formismo. Bellissimo, con la sua maschera antigas, circondato da 40 Berlinguoni, abbracciato alla Contessa Maria degli Obrapali, Witkacy fece il suo ingresso nel Valhalla per essere subito bloccato da Artaud, non si comprendeva se per pura adorazione o per sincero odio.

«Strane montagne e strane persone, qui» disse Witkacy. «Io non sono strano» replicò l’austero Antonin. «Ma so che voi siete un artista. E se tu ti senti strano, è solo perché Tu sei immenso in questa stranezza».

Il suono di una fisarmonica sfiatata interruppe il dialogo. Curioso: era Majakowskij che cantava alle stelle: «Sempre più spesso penso/ Se non sia meglio porre/ il punto di una palla alla mia fine».

I VASI COMUNICANTI

«E non dimentico nulla. C’è ancora una bottiglia di sangue per chi si impegna a vivere con le immagini che ho fiutato»

(André Breton, Paul Eluard)

Nel 1926, alla sua prima discesa in quel di Parigi, un imberbe Salvador Dalì per prima cosa corse in udienza dal Dio Picasso, il magnus pictor di ogni avanguardia. Dice lo stesso pittore catalano nel suo imprescindibile La mia vita segreta: «Fu Manuel Angelo Ortiz, pittore cubista di Granada e grande amico di García Lorca, che mi presentò con una lettera a Picasso. Ortiz seguiva il lavoro di Picasso alla distanza di un centimetro. Giunsi alla casa in rue La Boétie, dove Picasso abitava allora, profondamente commosso, e pieno di rispettoso zelo, quasi dovessi recarmi dal Papa. “Sono venuto a trovare lei”, dissi, “prima ancora di visitare il Louvre”. “E hai fatto benissimo” mi rispose lui». Dalì aveva portato con sé solo un quadretto, La ragazza di Figueras, che il Maestro osservò per vari minuti con la muta concentrazione di un segugio. Poi, in una sorta di balletto privo di dialoghi, fu la volta di Picasso a mostrare al giovane adepto pile e pile di tele, sempre senza proferir parola. Continua Dalì: «Sul pianerottolo, al momento del congedo, ci scambiammo semplicemente un’occhiata che significava esattamente: “Hai capito?” – “Capito!”». Un’empatia silente, sincera, che si protrarrà anche negli anni del Dalì poseur, ottenebrato (ma che spasso, a onor del vero) dalle sue teorie sulla percezione “paranoico-critica” del Reale. Un reciproco “sentire”, il loro, un’affinità (s)elettiva che si trova sovente anche fra gli uomini-cinema. Basti pensare all’amore di Truffaut per Hitchcock, alla scabra, bellissima liaison fra Godard e Lang, o al trottare contro i mulini a vento di Orson “Don Chisciotte” Welles e di Jesús “Sancho Panza” Franco.

Ma questo non doveva essere un saggio sulle affinità che uniscono lo psicomago Alejandro Jodorowsky e Nicolas Winding Refn, talentuosissimo auteur cinefago? Sì, ma siccome il danese è uno strenuo navigatore alla perpetua ricerca del Male e del suo cuore di tenebra, e il cileno è un funambolo delle Avanguardie, questo sarà uno scritto panico.

ENTR’ACTE PANICO

«Il panico (nome maschile) è un modo di essere retto dalla confusione, lo humour, il terrore, il caso e l’euforia. Dal punto di vista etico il panico ha per base la pratica della morale al plurale e, dal punto di vista filosofico, l’assioma “la vita è la memoria e l’uomo il caso”. Il panico trova la sua espressione più concreta nella festa panica, nella cerimonia teatrale, nel gioco, nell’arte e nella solitudine indifferente»

(Fernando Arrabal)

«Nel dio Pan incontriamo l’assenza delle dualità bene-male, bello-brutto etc… È un Dio dei boschi e nonostante questo, in quanto caprone, si nutre divorando ciò che protegge. È il dio delle capre, però protegge anche i cacciatori. Provoca il terrore e a volte il riso…»

(Alejandro Jodorowsky)

Il Panico, quindi, altro non è che una costola nata dalle ceneri del surrealismo, con un’ombra d’anarchico humour dada, fra lo scalpitar di zoccoli del dio Pan, caprino protettore del Caos e, appunto, del terrore (in un’accezione che non sarebbe dispiaciuta affatto all’Artaud di Il teatro e il suo doppio); un “effimero” (termine usato per tutte le prime performance di Jodorowsky) circense, dalle mille facce ghignanti. Dogma morale ed estetico che, all’acme del furore panico, porterà il regista cileno a dichiarare: «Il nostro corpo di tutti i giorni è trasformato in un maiale. E questo maiale racchiude (grande paradosso) il diamante della Verità, sprofondato nel pantano intestinale. Dio è strangolato dal duodeno e dal piloro di quel mite orco che è il cittadino d’oggi». In altre parole, pensando alla Sacra Trimurti panica, se per Roland Topor il Panico ha solo superato di qualche passo il furore iconoclasta di Tristan Tzara – senza dimenticarne il monocolo; se per Fernando Arrabal è un rituale misterico, da chiesa sconsacrata; per Alejandro Jodorowsky il Panico è una fumisteria alchemica che si deve manifestare in ogni gioco di prestidigitazione dell’Artista. Dalla vita stessa al teatro, dalla psicomagia alla lettura dei Tarocchi, dalla composizione di versi al Cinema: «Credo si debbano fare film come si fanno dei poemi. Alcuni registi fanno film come racconti: Truffaut. Altri li fanno come forma politica: Godard. Bene! Altri ancora sviluppano storie metafisiche: Bergman. Ma io voglio fare poesia. Possiamo, dobbiamo fare poesia. Poesia dedicata a un pubblico di poeti».

Detto nel 1968, ai tempi del suo primo film, quel Paese incantato tratto dall’omonima pièce dell’amico Arrabal.

FORMISMO PANICO

«Viviamo con esseri che noi stessi abbiamo creato, baciamo fantasmi, difendiamo spettri: discutiamo d’arte con lupi mannari, trattiamo d’affari con spiriti, andiamo in giro con ombre di persone mai esistite»

(Contessa Maria degli Obrapali)

Alla luce di quanto enunciato sinora, possiamo definire Nicolas Winding Refn un autore panico? Parafrasando il bellissimo Duma Key di Stephen King: forse yes, forse no. Propendendo maggiormente per la seconda ipotesi. Gli organi dei sensi e l’uso delle cellule grigie forniscono all’essere umano un rosario di immagini attraverso le quali egli prende contatto con la realtà. Per comunicare tali impressioni ai suoi simili, l’uomo è costretto a utilizzare un vocabolario iconico che sia, grazie a Dio o chi per lui, intelligibile a tutti. Dalla rappresentazione squisitamente soggettiva, giunge quindi una nuova rappresentazione a uso altrui. È così che la realtà tende a tramutarsi in un insieme di dati apparentemente scissi e indipendenti dall’individuo e privi di ogni elemento soggettivo. Ritrovare la sensazione e l’immagine originale sotto le apparenze convenzionali e fissate dalla quotidianità, approfondire tali apparenze e fornire una “forma concreta” alle realtà nascoste, questo è il compito affidato a coloro per i quali la visione diviene una veggenza: gli inventori, gli artisti e i poeti. Alejandro Jodorowsky è nato all’ombra di André Breton da cui ha attinto gli ultimi, estremi sospiri. Nicolas Winding Refn è nato nella crudele Danimarca sotto l’ombra possente e acuminata di Carl Theodor Dreyer. Ma entrambi son poeti, e pure veggenti. L’uno partorito da un oscuro villaggio del Cile, sempre rappresentato come una Città di Dite in terra, l’altro da una Copenaghen della medio-alta borghesia arty. I natali antitetici sono il sigillo delle reciproche divergenze, o meglio, distanze fra i due artisti. In altre parole: Jodo ha sempre guardato la Realtà attraverso gli specchi slabbrati di un immaginario Panopticon Avant Garde. Refn, quei film seminali, li ha guardati in videocassetta. Prendendo appunti. Si osservi – per esempio – il caso di Valhalla Rising. Regno di sangue (2009), forse il capolavoro del danese, e una delle visioni più radicali del cinema contemporaneo. Quest’opera – di ferina, brutale intensità – va vista per quel che è: un capolavoro (vicino a certe ardite, impossibili odissee alla Herzog), lontano da ogni neo-paganesimo o da facili lusinghe da cinema “di genere”, in grado di assurgere allo status di un cinema ascetico, assoluto, metafisico. O vogliamo forse parlare di Bronson (2008), altro capo d’opera del giovane Maestro danese? Un pamphlet sulla violenza indotta, che guarda a Kubrick come alle stranianti maschere clownesche, in bilico fra Brecht e il Deutsche Kabarett negli anni delle Repubblica di Weimar? Già si è detto che Refn è, generazionalmente parlando, un autore cinefago (come dimostrava nel 1999 l’esilarante scena del videonoleggio di Bleeder) e la dedica al collega (mentore?) Jodorowsky nel glaciale “mélo” Solo Dio perdona. Only God Forgives (2013) non può che essere un sentito omaggio a chi ha saputo, più di altri, farsi vessillo di un nuovo, inusitato “sguardo”. Ma, come dimostra soprattutto la siderale venustà di The Neon Demon (2016), Refn ha raggiunto le vette acuminate di un Cinema oltre il Cinema. Un’opera più vicina alle teorie della Forma Pura agognata da Stanislaw Ignacy Witkiewicz, profeta e teorico del Teatro dell’assurdo, che non cercava certo trame (o senso) per le sue allucinate sarabande teatrali. Il critico Luigi Locatelli arriva a dire: «Refn non vuole raccontare nessuna storia, se mai usarne il corpo per dare vita all’idealtipo della bellezza, alla dea della bellezza, letteralmente. Il resto è indagine sulla nuova religione dell’Occidente che è il culto del corpo perfetto e dell’immagine. Sondandone i legami visibili e sotterranei con il sangue, la violenza, il sadismo, il voyeurismo, il feticismo, la necrofilia, il sacrificio rituale. La bellezza è somma e insieme elemento scatenante di perversioni. È potere esercitato da chi ce l’ha, e oggetto di violento desiderio da parte di chi non ce l’ha. La bellezza come un dono del demonio».

 

 

 

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