Pusher atto secondo, ovvero il purgatorio tra i due inferni, ovvero Tonny (Mads Mikkelsen) che cerca di reinserirsi nella propria esistenza e nella propria famiglia. Ma la madre è morta mentre lui era al gabbio – lo apprende via citofono da un’inquilina dello stabile – e il padre Smeden, il Duca in nero (Leif Sylvester), è uno stronzo patentato che lo reputa una nullità. Sangue sulle mie mani recita il sottotitolo italiano, ma è come se dicesse «sangue del mio sangue», seppur negletto, marcio, contaminato.
Si capisce che aria tira già dall’incipit in medias res, con asserzioni che fungono da proemio e da epitaffio tombale rivolte alla progenie umana. Ma non si tratta di gesta epiche: «Strillano come maiali scannati e poi sono crepati, quei bastardi». Quindi il codice morale, lo stile di vita: «Se cerchi di fottermi, io fotto prima te». La violenza come esorcismo inevitabile e propedeutico al superamento delle proprie paure. È questo che Tonny non riesce a fare: ricacciare indietro le proprie insicurezze con un mitragliatore… No, lui no. Lui preferisce strafarsi di coca e alcol, magari guardare qualche video porno che lo sproni a un contatto con l’altro sesso. Ci prova infatti con due tizie del ramo – in una sequenza tra le più scabrose e discusse, con esposizione di genitali e dell’hard on screen – ma niente, l’umanità lo respinge. Prova con il lavoro, nell’officina di padre e zio che, invero scettici, gli affidano il ruolo di fattorino per le consegne. L’istinto però non svanisce e non mente: Tonny finisce per fregare una Ferrari a due piccioncini che litigano nella buia notte danese. Voleva essere un cadeau per il Duca, che lo ringrazia tirandogli appresso una chiave inglese. Smeden è tutto preso a istruire Valdemar, la nuova prole (concepita con un’altra compagna), un piccoletto biondino che sembra uno spaesato, inconsapevole atollo di buoni sentimenti in una Pantalassa nero pece. E allora lo scontro di Tonny, già in partenza impari per la sagoma soverchiante del genitore, si fa improbo, eroico, titanico: oltre al complesso paterno, c’è quello filiale nei confronti del nuovo arrivato, già “meglio di lui” anche se fuori dal giro dei furti, della roba, degli omicidi. Ogni singola azione di Tonny, dunque, è nel senso della Riconquista: di un briciolo di amor proprio ma soprattutto del Tiranno, origine del suo sangue. Azzardiamo qualche reminiscenza letteraria: Shakespeare fa capolino più di una volta sia nel confronto genitoriale/generazionale, sia nel delinearsi della figura di Mikkelsen: «deformed, unfinished» come Riccardo III, un’ode all’Incompiutezza. Ed è proprio il paradigma dell’irrisolto, dell’apparentemente afinalistico che dirime le giornate del protagonista, immortalate da Refn con un iperrealismo nauseante, da vomito, che coglie dunque nel segno anche nel riprendere gli incidenti di percorso di queste vite grigie: lo scontro dopo il furto in gruppo alla concessionaria, l’amico Kurt che butta frettolosamente la roba nel cesso pensando che gli sbirri siano alla porta. Ma è tutto vero, signori… shit happens. Refn ribalta anche lo status symbol del milieu gangsta: il cosiddetto “ferro”, l’arma qui brandita non già per rivendicare la legge del più forte ma per mal celare meschinamente un colpo andato male. Abbiamo summenzionato il Bardo: tirando in ballo Beckett, ebbene, il critico letterario Jan Kott parlava della trasmutazione, dello scadimento del senso tragico nel grottesco, nel patetico, seppure virato su tonalità cupe. Da Shakespeare a Beckett dunque, specie quando i protagonisti non sono più padroni del proprio destino, non vivono pienamente ma sono agiti: Mikkelsen è talmente risucchiato dalla spirale di violenza da trovare merda ovunque si volti. Tanto che, difatti, la prima azione “da protagonista” riuscitagli con successo è un cambio di pannolini. Già, perché in teoria ora lui sarebbe anche un genitore (ha avuto un figlio da Charlotte, che lo chiama ora «fallito», ora «ritardato»): è il contrappasso del padre, titolo che ovviamente fatica ad accettare, ombra che incombe, ruolo che come tanti altri – eccetto quello del loser, sagoma sfocata in un’istantanea nordica – non gli pertiene. C’è del marcio in Danimarca, eccome: il Duca continua a infierire, così che in occasione di una festa l’inferno privato di Tonny diventa pubblico ludibrio, laddove il padre gli preferisce uno sgherro novello sposo («Sei come un vero figlio»). Dal punto di vista registico, gli otto anni di distanza da Pusher. L’inizio (1996) hanno giovato: riprese sempre nervose e vorticose, ma più empatiche e meno documentaristiche. Per quanto concerne le location, se la prima parte del film prevede un moto perpetuo in esterni, la seconda privilegia gli interni. Soprattutto il salone della suddetta ricorrenza, ma anche gli antri di un bordello ove Refn affina i trademark stilistico-estetici che diverranno struttura portante delle sue opere: insistiti bagliori al neon, mdp avvolgente, ralenti abbinati a squarci elettronici che qui declinano magistralmente in ambient in coincidenza con l’agnitio dello squallore circostante da parte del protagonista. I mezzi tecnici esaltano il profilmico: la saturazione delle luci e quella dovuta ad alcol e coca, riprese sgranate a caccia dell’iper-dettaglio, per rappresentare le vite disgregate. Ecco che il grottesco si riaffaccia: Tonny, sempre e comunque strafatto, escluso dal tavolo principale si consola a biliardo, vaga con il pargolo in braccio mentre tutti gli altri ballano o si sballano. E ancora, pateticamente, in un ultimo tentativo di ottenere riconoscenza, propone al Duca di far fuori la donna che vuole togliergli l’affido di Valdemar. La donna, appunto. In Pusher II al gentil sesso non viene riservato un trattamento con guanti in velluto: oggetto onanistico da film hard, prostitute, tossiche, madri decedute, tizie picchiate a morte. Ma Tonny continua a fallire (Beckett dixit: «Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non importa, riproverò. Fallirò ancora. Fallirò meglio») e allora il genitore lo schiaffeggia e gli vomita addosso un nuovo epiteto, quello finale: «Inutile spreco di spazio», definizione che aizza il braccio armato, le 23 stilettate di Bruto, il «Tu quoque, fili mi!». La Ringkomposition di Refn, che si è aperta con una sorta di evasione e si conclude similarmente, reca l’effigie del tatuaggio sulla nuca del protagonista che reclama «Respect», ma cambia referente e inverte i ruoli: non più dal figlio al padre, bensì viceversa. «A forza di chiamare questa cosa “la mia vita” finirò per crederci»: Beckett, di nuovo.
CAST & CREDITS
Titolo originale: Pusher II; regia: Nicolas Winding Refn; sceneggiatura: Nicolas Winding Refn; fotografia: Morten Søborg; scenografia: Rasmus Thjellesen; costumi: Jane Whittaker; montaggio: Janus Billeskov Jansen, Anne Østerud; musiche: Peter Peter; interpreti: Mads Mikkelsen (Tonny), Leif Sylvester Petersen (Smeden), Anne Sørensen (Charlotte), Øyvind Hagen-Traberg (Ø), Kurt Nielsen (Kurt “the Cunt”), Karsten Schrøder (Røde), Maria Erwolter (Gry), Sven Erik Eskeland Larsen (Svend), Zlatko Buric (Milo); produzione: Billy’s People, Nordisk Film; origine: Danimarca, Gran Bretagna, 2004; durata: 100’; premi: miglior film e miglior attore protagonista (Mads Mikkelsen) ai Bodil Awards 2005 e ai Robert Awards 2005; home video: dvd Blue Swan, Eagle Pictures; colonna sonora: inedita.