Poteva essere un film di denuncia, un prison movie alla maniera del neorealismo inglese, alla Ken Loach, fieramente proletario e impudicamente ideologico. Si parla della storia del più grande criminale di Albione, tale Michael Peterson in arte Charles Bronson, uno condannato per aggressioni brutali e reati plurimi – mai per omicidio – a trentaquattro anni di galera di cui trenta scontati in isolamento. Poteva esserlo. All’idea lavorarono un manipolo di inglesi in volenteroso autofinanziamento tra cui Tom Hardy, giovane attore che ancora si barcamenava tra il teatro, luogo natìo, e il cinema a successo progressivo. Il progetto abortì, poi rinacque a nuova visione grazie a Rupert Preston della Vertigo Films, che lo affidò a Refn. Questi, lontano dallo sbarco a Hollywood e prossimo a girare Valhalla Rising. Regno di sangue (2009),. – il suo Cuore di tenebra – ovviamente approcciò la storia da par suo, reinventandola. Non si doveva girare, secondo Refn, un «realistic biopic» bensì un «conceptual biopic»: il caso umano doveva diventare una trasfigurazione, un’esperienza di arte attraverso la violenza. Con grandi aspirazioni ma pochi soldi si cominciò il casting per il protagonista: regista e produttore miravano a Jason Statham – “Jason Stuntman”, il re Mida dell’action europeo – poi il dio del cinema ci mise lo zampino e fu scelto Tom Hardy. Nicolas Refn e Tom Hardy insieme, oppure Refn contro Hardy, in uno scontro tra titani. Per ammissione dello stesso regista, tra i due non scoccò la scintilla, non tanto per questione di feeling quanto per un differente modo di intendere il cinema: per Refn espressione suprema dell’Idea astratta, apolitica, amorale, nichilista persino, per Hardy mimesi estrema, corporeità, rappresentazione scenica del vissuto. Bronson è il risultato delle forze in campo, di due poli opposti in equilibrio instabile. Una polveriera pronta a deflagrare.
Il film è stato girato partendo da una sceneggiatura incompleta e ancora in divenire. Per finirla in corso d’opera è intervenuta, non accreditata, la londinese Kelly Marcel, sceneggiatrice di Saving Mr. Banks (2013), Cinquanta sfumature di grigio (2015) e della serie tv Terra Nova (2011). Una donna per un film di ultraviolenza a pugni chiusi sembra un ossimoro, ma non lo è. Secondo Refn, infatti, Bronson è girato al femminile. La nudità è esibita in modo figurativo, le pulsioni e i sentimenti contemplano un punto di vista femminile: è in questo senso che andrebbe considerata la palese omosessualità dei mecenati-mentori che avviano il protagonista ai fight club clandestini e poi alle arti pittoriche. Secondo molti esegeti del regista, supportati da critici che hanno recuperato il film dopo i fasti di Drive, alla luce artificiale del culto di Ryan Gosling, Bronson sarebbe invece un’ode alla mascolinità più ferina, pura perché grezza. La tesi sarebbe confermata dall’interpretazione stessa di Tom Hardy, che ha trasformato il suo corpo gravandolo di grasso e muscoli in eccesso, caratterizzando il ruolo con un campionario di ruggiti, sospiri e mugugni. Così, Bronson diventerebbe il prototipo di altri personaggi che di lì a poco Hardy interpreterà oltreoceano, su tutti il Bane di Il cavaliere oscuro. Il ritorno di Christopher Nolan (2012), ma anche il Mad Max di Mad Max: Fury Road (2015). Bronson, Bane, Max: una trilogia dell’antieroe neobritannico, sorta di Spartacus del dopo-bomba tra prigioni, catene, museruole e sbarre. Sono però da considerare anche l’occhio e la mano di Refn, non nuovo alla sovversione degli archetipi, ed ecco che il maschio alfa diventa omega mediante massicce iniezioni di ironia e di colori fluo, mentre il volto e il corpo dell’attore si scompongono in poligoni nelle inquadrature geometriche care al regista e l’azione si cristallizza in una successione di tableaux vivants illuminati al neon.
La successione del girato è cronologica e il film ambientato quasi interamente in interni: per scelta stilistica, o per via del budget, viene sfruttato per ogni cubicolo un unico palazzo di Nottingham. Un mondo chiuso, quindi, un universo di segregazione attorno a Bronson: è qui dentro che lui vive, passando di prigione in prigione, ed è qui che attua la ribellione. Non è claustrofobico, non cerca l’evasione, al contrario è claustromaniaco, cerca la reclusione, picchia intere genìe di bobbies, scazzotta, devasta, in eterna fuga dal fuori, alla continua ricerca del dentro. Bronson esiste dentro la cella. È un animale in gabbia, il cui rifugio è nella cattività. Le sue brevi pause di libertà – 69 giorni in tutto – girano intorno a Luton, la città dell’infanzia, dove intrattiene le sue minime relazioni sociali e riesce a vivere un simulacro di relazione sentimentale/sessuale.
La prigione, dunque, come dimensione fisica e categoria dello spirito in cui lo spazio vuoto appartiene alla mente. Il Bronson-secondo-Refn, infatti, è un wannabe, non ha il pieno controllo delle sue azioni e spende tutta la sua vita in un non-senso. Vorrebbe diventare famoso: «Il mio nome è Charles Bronson e per tutta la vita ho cercato di diventare famoso». Famoso come una rockstar, asserisce arringando il pubblico ammaestrato dall’alto di un proscenio teatrale, mentre alle sue spalle – realismo contro onirismo – scorre il vero footage della rivolta nello “psicocarcere” di Parkhurst. Oppure come una movie star, donde lo pseudonimo, preso a prestito su suggerimento di altri e che Refn ribalta, trasformando quel cognome inventato dall’attore Charles in nome proprio assoluto per il one man show. Come una pop (art) star, alla fine, nella commistione di linguaggi figurativi, filmici e musicali che il regista adopera per consegnarlo al mito dell’effimera notorietà dei nostri tempi (i dipinti del criminale sono quotatissimi e vendutissimi nel mondo reale) e poi precipitarlo, cinicamente, nel grembo di sangue e sbarre da cui era fuoriuscito. La popolarità, il pop come trasfigurazione del nichilismo di Refn; il pop che non storicizza il reale, ma lo travalica e diventa surreale, surrealista. Il paradosso si compie: Bronson – lo dicono i titoli di testa – è ispirato a una storia vera, ma oggi quel Charles Bronson – dicono le cronache – si fa chiamare Charles Salvador. Un nuovo nome in onore di un nuovo nume, Salvador Dalì.
Bronson vive di momenti discontinui e diversamente mirabili. Uno su tutti resta memorabile: la messinscena della festa dei pazzi, quando gli ospiti sciroccati del carcere di Parkhurst, sedati, ballano grottescamente sulle note di It’s a Sin dei Pet Shop Boys: «When I look back upon my life / it’s always with a sense of shame / I’ve always been the one to blame» («Quando mi volto e guardo la mia vita / è sempre con un senso di vergogna / sono sempre stato quello da incolpare»). Ridiamo di gusto, ridiamo tutti, ché i pazzi siamo noi.
CAST & CREDITS
Titolo originale: Bronson; regia: Nicolas Winding Refn; sceneggiatura: Brock Norman Brock, Nicolas Winding Refn; fotografia: Larry Smith; scenografia: Adrian Smith; costumi: Sian Jenkins; montaggio: Mat Newman; musiche: Johnny Jewel; interpreti: Tom Hardy (Charles Bronson/Michael Peterson), Kelly Adams (Irene), Katy Barker (Julie), Gordon Brown (secondino), Luing Andrews (secondino isterico), Amanda Burton (madre di Michael), Andrew Forbes (padre di Michael), Jon House (Webber), Matt King (Paul Daniels); produzione: Vertigo Films, Aramid Entertainment Fund, Str8jacket Creations, EM Media, 4DH Films, Perfume Films; origine: Gran Bretagna, 2008; durata: 92’; premi: miglior attore a Tom Hardy ai British Independent Film Awards 2009, miglior film al Sydney Film Festival 2009; home video: dvd Eagle Pictures, Blu-ray 20th Century Fox; colonna sonora: Bronson, Milan Records.