L’occulto nel grembo

Claudio Bartolini
Modernità occulta – Le radici simboliche delle arti contemporanee n. 5/2013
L’occulto nel grembo

In principio furono gli horror targati Universal, con il loro bianco/nero ad alto contrasto e i volti immortali di Boris Karloff, Lon Chaney Jr. e Bela Lugosi. Poi arrivarono la Hammer Films e Roger Corman, Mario Bava e George A. Romero, con le produzioni a costo zero, i remake dai colori sgargianti e quella violenza artigianale che in breve divenne culto. La Storia del Cinema ha sempre delegato ai prodotti di genere il ruolo di contenitore esoterico, depositario di quelle istanze sfuggenti e oscure che albergano sotto la superficie della pellicola. Se la fantascienza ha proiettato al di fuori del mondo conosciuto la propria sete di conoscenza e (di)svelamento, l’horror ha dato forma a creature di finzione sulle quali riversare istinti altrimenti deplorevoli, bassezze indegne di normali esseri umani e strutture psicofisiche immediatamente riconoscibili come diverse – e perciò pericolose. Dracula, la Mummia, le streghe, i “ritornanti”: proiezioni deformi del perturbante che alberga in ognuno di noi, incarnazioni delle paure e delle debolezze dell’uomo comune. Il mostro è ciò che non si conosce, destinato all’isolamento e, spesso, condannato a morte dalla comunità. È fuori, minaccioso: spetta così all’uomo lasciare la porta chiusa e respingere l’invasione.

Poi arriva Roman Polanski. E il mostro rientra. Nel 1968 approdano nelle sale due testi chiave dell’horror moderno: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, G. A. Romero) e Rosemary’s Baby. Nastro rosso a New York (R. Polanski). Se il primo attesta la nascita del new horror, pregno di istanze sociali e politiche, il secondo sposta per sempre il baricentro teorico del discorso esoterico legato al cinema. Nella storia di Rosemary vengono meno le consuete rassicurazioni simboliche deputate all’allontanamento del mostro e gli argini individuali e comunitari collassano, fino a diventare i nuovi parametri costitutivi dell’altro da sé, che nel frattempo è diventato nuovo sé.

La logica sottesa al film è a chiara matrice esoterica, con rituali e messe nere, patti con il diavolo e affiliazioni ad una setta dedita alla stregoneria e disposta ad uccidere pur di mantenere la segretezza. Niente di inedito, nel panorama cinematografico, non fosse per l’elemento (chiave) capace di ribaltare i parametri abituali: il diverso non è al di fuori della vita di Rosemary, intento ad assediarne la proprietà e la psiche ma è dentro, nel condominio in cui lei e il marito Guy Woodhouse si sono trasferiti, nell’appartamento in cui abitano, nello stesso corpo che le consente di vivere. Durante i titoli di testa, Polanski compie una panoramica sui tetti di Manhattan, per poi fermarsi in prossimità del Dakota Building, dove i Woodhouse hanno preso dimora. A parte i riferimenti di rito all’Hitchcock di Psyco (1960), l’importanza di questo movimento di macchina risiede nell’esplicitare in partenza una chiara volontà dell’horror moderno: penetrare, violare le soglie (fisiche e simboliche), passando dall’esterno (lo skyline urbano) all’interno del Dakota, mostrato nella sequenza immediatamente successiva.

L’entrata, l’androne, il corridoio condominiale: Polanski esplora il sistema linfatico del corpo sociale di base (la casa) per poi penetrarlo del tutto ed entrare nell’appartamento in cui andranno ad abitare i Woodhouse, presentato allo spettatore come il luogo in cui, nell’Ottocento, vissero le sorelle cannibali Trench e l’esperto di stregoneria Adrian Marcato. “La chiamavano la casa del Diavolo”: da subito, il luogo eletto per il compiersi della prassi esoterica è il riferimento solido per eccellenza, il refugium, demolito nella sua istanza protettiva primaria (1). Una volta spalancate, le soglie dell’appartamento consentono l’ingresso al maligno e continui interscambi dimensionali (interno/esterno, come sonno/veglia) nella mente di Rosemary, alla quale la casa invia incubi, visioni e premonizioni soggioganti. Come già in Repulsion (1965), le mura domestiche polanskiane sono fucine allucinatorie e territorio compromettente per la stabilità emotiva del personaggio (2). Mentre la Carol di Catherine Deneuve sovrapponeva però il piano oggettivo alla delirante soggettività, fino al contatto con pareti antropomorfe, allo stupro immaginario ed al delitto vissuto ma mai veramente consumato, Rosemary subisce fattivamente le pressioni coercitive della comunità che la circonda, finendo in un vortice di follia oggettiva che legittima, in questo modo, la gravità e l’importanza delle istituzioni contemporanee nel nuovo horror di Polanski. Quelle della signora Woodhouse non sono allucinazioni post partum – sebbene certa critica sia caduta nell’ambiguo tranello – per due semplici motivi: troppo complessa è la trama complottista per poter essere soltanto frutto di una mente suggestionata e troppo oggettivato il finale dell’opera, del tutto disambiguato circa l’attendibilità del fenomeno esoterico.

La rete costruita dalla setta esoterica stringe le proprie maglie avvicinandosi alla protagonista, in un moto vorticoso che, partendo dall’involucro domestico, si stringe fino al suo grembo. Gli affiliati altro non sono che i vicini di casa, il medico curante e i nuovi amici, coordinati dal gran cerimoniere Castevet. Essi colonizzano l’appartamento dei Woodhouse, regalando a Rosemary il ciondolo di affiliazione e manipolando la mente di Guy, facendo leva sulla sua permeabilità nichilista (“Sono cose che non digerisco. Tutti quei costumi, quei riti… qualsiasi religione”).

Il messaggero e neofita altri non è che il marito, reo di aver barattato la propria fama professionale con l’integrità della moglie, ingravidandola con diabolico seme. Guy stringe il più classico dei patti col diavolo, rinsaldando anche il rapporto tra esoterismo e rappresentazione, in virtù del suo mestiere d’attore.

Infine, il diavolo è il figlio che, in seguito al patto, Rosemary porta in grembo. L’attacco è deciso, diretto e inequivocabile: gli archetipi “amici” dell’universo sociale moderno non solo sono definitivamente compromessi ma si rivelano i vettori attraverso cui l’elemento demoniaco può nascere, proliferare e vincere la propria battaglia. Casa, vicinato, marito e figlio costituiscono il fenomeno esoterico di Rosemary’s Baby, quella pratica inintelligibile che apre spazi e interstizi su dimensioni ignote, confluenti nella culla finale dove giace il diavolo. L’innovazione perturbante della pellicola è proprio in questo assunto: niente di ciò che conosciamo è realmente ciò che sembra e la contaminazione può verificarsi proprio nell’ultimo luogo (simbolico) nel quale dovrebbe. Rosemary diventa involucro assediato dalla setta e pervaso dal feto diabolico che in lei riposa. Il complotto la stritola e, ogni volta che cerca un nuovo appiglio antropologico cui aggrapparsi (il vecchio dottore, il primo medico curante), esso si rivela parte della setta o da questa viene eliminato.

Quale allora il suo destino? In un vortice fatalista, Polanski precipita la sua Rosemary in una spirale senza uscita, modificandone progressivamente l’abbigliamento (dal bianco/giallo iniziale al rosso carminio precedente il fatale rapporto sessuale con il Demonio) e l’aspetto fisico: è sempre più emaciata, pallida e sofferente, in una logica corporea destrutturante che sarà portata a compimento dal successivo filone esorcistico, nel quale però la donna/involucro sarà a sua volta posseduta dal diavolo. Rosemary è un semplice e funzionale contenitore, destinato ad un ruolo ben preciso all’interno della setta. Dopo la nascita del “bimbo”, infatti, Castevet e gli altri affiliati le chiedono esplicitamente di svolgere la sua funzione di madre (in)naturale: lei si avvicina alla culla e guarda la creatura, due occhi diabolici nel nero del quadro (“Ha gli occhi di suo padre”); infine sorride e la prende in braccio, aderendo così ai nuovi dettami imposti dalla loggia. La volontà della madre capitola dunque di fronte alla visione del figlio, in una estrema e sferzante sintesi della profondità coercitiva che assumono i rapporti sociali nella civiltà contemporanea. L’inevitabilità e il dominio incontrastabile del male vanno a braccetto con l’inevitabilità dei condizionamenti moderni, per la prima volta mostrati nelle loro potenzialità esoterico/demoniache.

Con Polanski, dunque, l’horror subisce uno scarto significativo, impartendo una lezione spiazzante: l’oscurità è in noi, nei legami instaurati e nelle unità sociali che reputiamo fondamentali (proprietà domestica, buon vicinato, matrimonio e filiazione). “All’anno uno!” esclamano gli affiliati sollevando i calici, mentre nella stanza troneggia la culla nera di colui dopo il quale nulla sarà più lo stesso. Grazie ad una dissolvenza incrociata, la macchina da presa passa dallo sguardo intenerito che Rosemary rivolge al figlio al totale in esterno del Dakota Building, tornando all’anonimato di quei tetti inquadrati nella prima sequenza: il mondo è rimasto uguale e inconsapevole, ma lo spettatore sa che non è che apparenza, e al movimento ad imbuto verso l’interno – compiuto dalla narrazione – ne seguirà uno contrario verso l’esterno, da compiersi nei decenni a venire. Perché il fenomeno esoterico, di certo, non si esaurisce con la narrazione filmica.

All’“anno uno” messo in scena da Polanski corrisponde un nuovo corso cinematografico che – svincolando l’horror dai legami obbligati con l’ambientazione gotica e l’universo semantico dell’inverosimiglianza – lo salda alla contemporaneità e alle sue logiche esoterico-complottiste. I nuovi mostri si radicano nel tessuto sociale e in esso si mimetizzano, estendendo la propria influenza nella quotidiana proliferazione. Non più creature irreali, ontologicamente repellenti o frutto dei folli esperimenti dei figliocci del Dr. Frankenstein: il nuovo corso del genere cresce nelle case, negli ospedali e in tutti i nuclei stabili del mondo civile. L’esorcista (The Exorcist, W. Friedkin, 1973) apre il genere al citato filone della possessione demoniaca, il cui epicentro è sempre (più) l’abitazione. Il diavolo riesce a penetrare in un luogo considerato simbolicamente inaccessibile e ad incarnarsi nel componente più puro dell’istituzione familiare. La violazione fisica e mentale della bimba, con la sua conseguente trasformazione, alza l’asticella della crisi messa in atto dal new horror: nessuno è più innocente e i fanciulli possono apparire deformi e crudeli, sull’onda lunga de Il villaggio dei dannati (Village of the Damned, W. Rilla, 1960), seguita compiutamente da David Cronenberg nel successivo Brood. La covata malefica (1979) e da John Carpenter nel remake del Villaggio dei dannati (1995). Accanto ai fanciulli del filone esorcistico – tra i cui titoli ricordiamo il nostrano Chi sei? (O. G. Assonitis, R. Barrett, 1974) – l’esoterismo di celluloide demolisce ogni altra sicurezza. Se Stuart Gordon rinnova il mito di Frankenstein in seno al mondo universitario della medicina nel suo Re-Animator (1985), Brian Yuzna attacca la borghesia con i contorsionismi splatter di Society. The Horror (1989), trasformando la “bella società” contemporanea nella sede di abominevoli orge sanguinolente. Senza dimenticare gli oscuri simbolismi de I segreti di Twin Peaks (D. Lynch, 1990-1991) né gli ancestrali rituali cannibalici compiuti dal “buon vicinato” ne Il profumo della signora in nero (F. Barilli, 1974). Nessuno viene risparmiato nel nuovo corso horror successivo all’“anno uno” imposto da Rosemary’s Baby.

Al di là di ogni possibile e obbligatoriamente parziale mappatura, è significativo annotare quanto il cinema post-1968 porti alla luce il fenomeno esoterico, svelandone disfunzioni e ramificazioni in seno al corpo sociale. Per rendere l’idea di questa escalation rappresentativa, è utile tornare al cinema di Polanski. Se con Rosemary’s Baby l’autore aveva gettato il seme per lo sviluppo interno (dal greco esoteros) degli archetipi della setta e dell’affiliazione iniziatica, con La nona porta (The Ninth Gate, 1999) rende conto di ogni evoluzione, struttura e snodo del fenomeno esoterico su larga scala.

Prelevando nuovamente l’ultima inquadratura del Dakota Building, è lecito affermare che La nona porta costituisca l’esatto prosieguo di quella uscita in esterni: è cinema che svela, attraverso le metodiche ricerche del protagonista Dean Corso, una rete mondiale dell’occulto capace di legare gli Stati Uniti al Portogallo, la Spagna alla Francia, sotto il segno dell’Ordine del Serpente d’Argento, sorta di congrega di streghe per annoiati miliardari utilizzata per orge e rituali sfrenati (di nuovo, ritorna l’attacco alle istituzioni sociali). Se Rosemary trascorreva gran parte del tempo in casa, Dean si muove in una bulimia di luoghi e rivelazioni che disambiguano del tutto l’opera da ogni possibile lettura soggettiva. In opposizione al moto narrativo e grammaticale centripeto che apriva Rosemary’s Baby (dal Dakota all’interno condominiale), La nona porta inizia nella biblioteca di uno studioso per poi mostrare un esterno aereo. Per accedere al mistero esoterico nella sua integrità bisogna varcare soglie in uscita, come sottolineano i titoli di testa con (nove) porte che, inquadrate in carrello digitale, si aprono sul buio.

Di fronte allo spettatore va in scena il mercato globale dell’occulto, l’aggiornamento del fenomeno esoterico sul modello postmoderno della rete. Ogni collezione di libri magici diventa accessibile, ogni pista percorribile, ogni rivelazione decriptata: allo spettatore del 1999 è concesso di vedere il diavolo e ammirarlo (ammirarla) in un amplesso consumato con Dean, mentre a quello del 1968 restavano due occhi su fondo nero percepiti solo in pochi fotogrammi sfuggenti. L’assunto vince sulla suggestione, il rituale (sociale) esoterico è srotolato integralmente su pellicola ma, al contempo, privato di ogni possibile funzione destabilizzante.

Consapevole della deriva demistificatoria, Polanski ironizza sull’occulto convocato e lo decostruisce attraverso il filtro grottesco, i personaggi caricaturali e i rivoli umoristici. Perché oggi le violazioni della casa, del vicinato, della famiglia, finanche dei figli, non sono più un fenomeno perturbante. Non stupiscono né spaventano. La nuova frontiera dell’esoterismo filmico non può allora che esserne la parodia.

 

1. “Certo non è un caso che Adrian Marcato (evocatore del demonio) abbia vissuto lì, ma non sembra esserci alcun rapporto diretto, per esempio, tra lui e le sorelle Trench, che mangiavano i bambini, e allora bisogna concludere che la forza maligna d’una casa, ove esista, agisce indipendentemente da chi la abita” A. Cappabianca, Roman Polanski, Le Mani, Genova 1997, p. 120.

2. Angelo Iocola (Il clima cospirativo, in “Nocturno Dossier”, n. 126, febbraio 2013, p. 66) formula l’idea di un trittico polanskiano, composto da Repulsion, Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano, costituente “quella che potremmo definire «cospirazione in interni con derive paranoiche»”.

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