Transilvania, anno 2000. Affascinato dalla tv trash italiana (e nella fattispecie da un caposaldo come Carràmba! Che sorpresa) il Conte Dracula (lo straordinario e compianto Toni Bertorelli) decide di emigrare in un luogo meno degradato della sua terra natìa e dove il sangue delle sue vittime non sia contaminato dalla dieta a base d’aglio e alcol degli odiati conterranei. Dopo avere giurato eterna fedeltà all’amata scomparsa Zora, ritratta in un dipinto, parte così alla volta del Belpaese e riesce a raggiungere la capitale con il suo fedelissimo servitore. A Roma è però costretto ad alloggiare in una catapecchia del Prenestino, l’unica casa che può permettersi con la sua intera fortuna svalutata dal cambio italiano. Ed è qui, in un centro sociale dove il rapper Zombie si esibisce con la sua crew, che incontra la writer Francesca (Micaela Ramazzotti, ai tempi quasi esordiente ma già in grado di catturare lo sguardo), in arte Zora, di cui fatalmente s’innamora. Nel frattempo, però, ha mietuto diverse vittime – tra cui la giovane Dafne, oggetto delle attenzioni amorose di Zombie – e si ritrova alle calcagna sia il fascistoide commissario Lombardi (un asciutto, cinico e divertito Carlo Verdone, anche produttore del film), che ha scelto come sede della sua task force “anti-mostro” un cinema a luci rosse, sia lo stesso Zombie, che con l’amico Lama, i compagni del centro sociale e l’inaspettata “consulenza” di un parroco ha deciso di fargli la pelle per vendicarsi. La resa dei conti avviene a Napoli, dove Dracula è fuggito con Zora/Francesca per sposarla.
Considerato dai più come un esordio – stante l’invisibilità della vera opera prima dei Manetti Bros. Torino Boys (1997), con cui ha più di un punto di contatto (in primis la narrazione di una storia d’amore in un contesto di emarginazione ritmicamente dominato dalla musica hip hop della scena romana) – Zora la vampira prende solo nominalmente le mosse dall’omonimo fumetto softcore creato da Renzo Barbieri (testi) e Balzano Birago (disegni) nel 1972. È invece a tutti gli effetti una rilettura grottesca e politica del mito di Dracula, dove il Principe delle Tenebre mantiene tutta la sua intrinseca tragicità stokeriana, pur catapultato in un universo contemporaneo che non gli fornisce più alcun punto di riferimento, acuendone la condizione di diverso ed emarginato in un contesto che lo vede agire (e reagire) alla stregua di un qualsiasi extracomunitario.
L’evocazione paratestuale dell’eroina dei fumetti per adulti diventa però una sorta di citazione primaria, quasi una dichiarazione d’intenti da cui far discendere tutti gli altri numerosi rimandi del film (raccordato a mo’ di coro dalla coppia di tossici strafatti Alessia Barela e Massimo De Santis) e il suggerimento di una chiave di lettura visiva. Aprendo con un’inquadratura da disegno animato (il castello di Dracula – con parabola satellitare alla finestra – che si staglia sul cielo squarciato dai fulmini e la silhouette di un lupo ululante in primissimo piano), i Manetti dichiarano subito le loro ascendenze/discendenze: i fumetti, che rivivono soprattutto in certi chiaroscuri segnatamente d’influenza Magnus & Bunker, ma anche in memorie Marvel del The Tomb of Dracula di Gene Colan; certi cartoon underground (verrà da lì la bellissima inquadratura di Dracula che parla a Zora da un manifesto animato di Che Guevara?); il cinema dell’orrore a 360°, con citazioni evidenti da Nosferatu. Il vampiro (1922) e Dracula di Bram Stoker (1992), cromatismi alla Inferno (1980, evocato anche dal nome della crew di Zombie, Profondo Rosso), tagli di luce sul volto del vampiro in stile Le notti di Salem (1979) e atmosfera urbana stile Blacula (1972). Ed è proprio da quest’ultimo titolo che calano gli scoperti omaggi alla blaxploitation (tutta la sequenza virata con i fotogrammi in split-screen multiplo cita Shaft il detective [1971], inclusa la colonna sonora che rifà nota per nota Pusherman di Curtis Mayfield), ma anche il destino del protagonista. Il tutto in un’ottica che è però quella intrisa delle tensioni dell’Italia di fine millennio, in una Roma già sostanzialmente fuori controllo. Quell’Italia che inizia a mostrare, evidenti, i segni della perenne crisi economica a venire e in cui il tema dell’immigrazione sta per assurgere a spauracchio-principe della propaganda di destra. La stessa Italia fondamentalmente horror ritratta con modalità antipodali (ma curiosamente contigue sul piano ideologico) da Lamerica di Gianni Amelio (1994): dove la tv è già indicata come propulsore zombificante di illusioni e il suolo della penisola come ingannevole terra promessa. I Manetti affrontano il tema con il loro già definito e consapevole sguardo pop, mettendolo a servizio di quel cinema di genere di cui sono già omaggiatori/innovatori. Ma pur rimanendo a distanza da quel modello (o anzi, forse, non considerandolo affatto tale), finiscono con l’avvicinarglisi a una distanza minima, a diventarne una sorta di completamento teorico dal basso. Nel suo monologo finale, prima di scegliere, simbolicamente ed esemplarmente, di morire (in una sequenza retta dall’intuizione magnifica di farne bruciare il corpo alla luce del giorno e di fronte al Vesuvio sulle note di O’ sole mio: quasi un presagio del futuro rapporto estetico-musicale con la città partenopea di Song’e Napule [2014] e Ammore e malavita [2017]), Dracula rivendica la sua condizione di drop-out clandestino («Emarginato due volte: non solo come mostro, ma anche come uomo») e il suo spirito più altero e romantico («Il mio Paese è stato rovinato dal canto delle sirene del Capitalismo. Io volevo soltanto amare. Ma se volete uccidetemi. Non si può combattere contro la prepotenza di chi si sente più forte»), provocando la crisi di coscienza dei “compagni” del centro sociale, il cui desiderio di vendetta nei confronti del “mostro” era finito con il sovrapporsi sinistramente al giustizialismo del commissario squadrista. Tutto questo ovviamente avviene senza che i Manetti si pongano in una prospettiva autoriale – o, peggio, come boriosi latori di un messaggio – bensì nella logica a loro già cara del b-movie e del divertissement (anche “privato”: Marco Manetti sceglie di tenere per sé il ruolo di Bue e sono tanti gli amici coinvolti in ruoli cameo, da Valerio Mastandrea a Selen ai rapper della scena romana) in grado di inglobare in filigrana certe tensioni del contemporaneo come avverrà in L’arrivo di Wang (2011), ma anche in Piano 17 (2005) e perfino in Paura (2012). E restituendo il clima di un milieu sociale anche grazie alle cadenze narrative di un quasi-musical completamente informato dalla traccia sonora costante dell’hip-hop capitolino, che finisce con l’imprimere al racconto il suo stesso ritmo interno.
CAST & CREDITS
Regia: Manetti Bros.; soggetto: Manetti Bros.; sceneggiatura: Manetti Bros.; fotografia: Federico Schlatter; scenografia: Pierluigi Manetti, Dora Manetti; costumi: Cinzia Lucchetti; montaggio: Federico Maria Maneschi (come Federico Maneschi); musiche: Skratch Dj Gruff, Squarta; interpreti: Micaela Ramazzotti (Zora), Toni Bertorelli (Dracula), Raffaele Vannoli (servo, come Lele Vannoli), Chef Ragoo (Zombie), G Max (Lama), Carlo Verdone (commissario Lombardi), Ivo Garrani (il prete), Tormento (Cianuro), Marco Manetti (Bue), Selen (vampira), Valerio Mastandrea (Nicola Speranza); produzione: Virginia Produzioni; origine: Italia, 2000; durata: 105’; home video: Blu-ray inedito, dvd CineKult; colonna sonora: Warner Music.