L'immagine infinita

Claudio De Nardi
Lune d’Acciaio – I miti della fantascienza n. 9/2015
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Prigionieri di un Labirinto, abbiamo congetturato una storia letteraria capovolta; in queste pagine – non scritte, ma virtualmente esistenti in una sala della Biblioteca – il genere fantastico è la pietra di paragone per ogni branca della narrativa e dell’arte. L’estensore del mirabile manuale analizza, ad esempio, alcuni minori del primo Novecento (Joyce, Proust, Kafka, Eliot) in relazione ai Maestri del mainstream: Lovecraft, Machen, Meyrink, Blackwood, Vernon Lee. Forse una tale storia letteraria esiste davvero tra le improbabili carte di Borges o di Macedonio Fernandez. Di certo non è ignota agli Annali dell’Immaginario. L’arte, la letteratura sono fantastiche tout court, la ficción è generale: enunciato provocatorio, i tempi non sono ancora maturi per una simile estetica. Tuttavia, ai nostri giorni assistiamo a un profondo mutamento di alcuni concetti critici che per decenni hanno crucciato lo studioso, l’appassionato e il «produttore» del fantastico. Questo mutamento è riassumibile in pochi punti: a) svalutazione della narrativa mimetica, in seguito alla crisi che stanno attraversando la nozione di realismo e le società attuali da un lato, e al trionfo dell’immaginario nei mass media dall’altro; b) ricognizioni e recuperi di aree letterarie e artistiche fino a ieri considerate minori: dal fantastico, nelle sue varie articolazioni e branche, al romanzo d’avventura, di guerra, al Medioevo e i suoi miti che, come sottolineava Régine Pernoud (ma anche il nostro Franco Cardini), ebbe una sua nitida e tersa luce e non fu soltanto quel periodo d’oscurantismo che tanta storiografia ha voluto vedervi.

Riteniamo peraltro utile precisare che il termine fantastico è da noi assunto nel senso di trasgressione della realtà, sia parziale sia totale; per capirci: dalla ghost-story, dall’horror e dal weird tale, dalla narrazione «terroristica» di Lovecraft, che alterano in parte la struttura della realtà o la scardinano completamente, a Borges e Tolkien, che vanno oltre, proponendo un intero universo alternativo al nostro, profondamente coerente e governato da leggi proprie.

Sul realismo è stato scritto un mare di pagine. Ci sembra necessario ricordare che tale termine, correttamente inteso, non implica una mera fotografia della realtà ma una sua interpretazione che sappia coglierne, di epoca in epoca, le strutture significative.

Realismo non è dunque verismo o naturalismo, ben determinate e riconoscibili filiazioni del positivismo. Equivoci incredibili hanno tormentato la critica, specie marxista. Molti, evidentemente, dimenticavano le pagine in cui Engels (si veda la lettera a Minna Kautsky del novembre 1885 e quella a Margaret Harkness) sosteneva la necessità, per l’artista, di rispettare in primis gli strumenti propri al suo lavoro, senza sovrapporre la tesi ai mezzi caratteristici della narrativa. Singolarmente, anche Evola (cfr. Il mistero del Graal) sottolinea che quanto più l’artista è libero e inconsapevole dei simboli che adopera, non sforzandosi di incollarli al testo, tanto più può conseguire notevoli esiti letterari e una riproposta velata di temi «tradizionali». Altrettanto singolare è l’analisi del tipico – concetto base del realismo – in Evola (cfr. Cavalcare la Tigre) e in Marx ed Engels, poi in Lukàcs.

Queste considerazioni, brevemente tratteggiate, implicano: a) che anche l’arte più bizzarra, più sfrenata, più fantastica può essere strumento di individuazione delle contraddizioni di un’epoca e di situazioni e caratteri tipici; b) la libertà creativa assoluta dello scrittore o dell’artista.

Travasate e variamente sviluppate in Lukàcs, Trotzkij, nello stesso Lenin, sino alla Scuola di Francoforte e allo strutturalismo francese di Girard e Goldmann, tali nozioni non negavano assolutamente l’arte e la narrativa fantastica e, quindi, le correnti del romanticismo, del simbolismo e del decadentismo. Questi stessi concetti, ampliati e rivoltati, sono alla base della «nuova razionalità» di Massimo Cacciari che, tra lo stupore e lo scandalo della critica ortodossa, cerca di riportare alla cultura e all’arte «maggiori» settori fino a poco tempo fa «esiliati» per il loro supposto «irrazionalismo». Si capisce dunque quanto siano state pretestuose, vacue e assurde – data anche la loro impostazione provocatoria – certe polemiche sul contenuto «rivoluzionario» o «tradizionale» del fantastico e, en passant, quanto sia demonica e stravolta – proprio rispetto ai teorici del marxismo – la linea Zdanov in auge nell’Est dal 1934; da sottolineare anche che, sostanzialmente, la critica marxista è stata ed è incapace di una seria e originale riflessione estetica sul nostro genere (si vedano i testi fantastici editi «nudi e crudi» dagli Editori Riuniti). D’altro canto, la critica borghese o ufficiale, intrisa di positivismo, crocianesimo, neopositivismo e strutturalismo, ha avuto la tendenza a far prevalere un concetto di mimesis divenuto ossessivo e ossessionante, come se l’artista dovesse perennemente rifarsi alla realtà quotidiana e prosaica, quasi a giustificarla, in un certo senso scrivendosi o dipingendosi addosso! La stessa critica, ricordiamo ancora, venne espressa da quel grande e misconosciuto artista, filosofo e studioso che fu l’Evola.

L’intelligentia marxista, da un lato, e quella borghese, dall’altro (pur con lodevoli e memorabili eccezioni, da Mario Praz a Sergio Solmi), hanno dunque mancato un appuntamento con l’immaginario, rispettivamente bollandolo d’irrazionalismo o relegandolo tra gli aspetti minori della cultura. Ma, scrivevamo, le cose stanno cambiando. Assistiamo a tardive marce indietro: ecco il «nuovo» Asor Rosa della Storia della letteratura italiana, l’immancabile Eco che sull’onda delle mode riscopre il Medio Evo con Il nome della rosa, Walter Mauro che rilancia un discorso sul fantastico e l’immaginario in raffiche di articoli, Dorfles che si occupa di heroic fantasy, Perosa che nel recentissimo Teorie inglesi del romanzo (1700-1900) dedica ampissimo spazio – mirabile dictu! – alla polemica tra romance e novel, tra fantastico/immaginario e narrazione mimetica. Di esempi se ne potrebbero addurre a bizzeffe, a dimostrare un disgelo della critica ufficiale (e, di sfuggita, degli stessi scrittori: basti vedere la presenza del fantastico nei ventidue titoli selezionati per il Premio Campiello 1983) nei confronti dell’esiliato irrazionalismo.

Conseguenza diretta è stato il portare l’attenzione nelle «pieghe» di un mainstream vieppiù scricchiolante (notiamo che il termine inglese mainstream, letteralmente «corrente principale», è molto più onesto dell’italiano «arti e narrativa maggiori»; giacché mainstream non pone un problema di qualità o di superiorità di un genere sull’altro ma sottolinea, semplicemente, quel che in un’epoca andò per la maggiore). Pieghe che, tuttavia, rischiano di diventare strappi: alcune storie letterarie vanno riscritte; l’importanza di autori fantastici sino a ieri misconosciuti non può essere ulteriormente trascurata. In questo senso, pionieristica è stata nel nostro Paese la ventennale attività di critici quali Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco e, molto più in piccolo, le nostre avventurose ricognizioni tra i fantastici maggiori e minori (cfr. i due saggi su Lovecraft e Machen, Alla ricerca della chiave d’argento e Gli orrori decadenti di Machen, pubblicati nel 1977). Eppure, a ben guardare, ossia a voler analizzare obiettivamente anche autori del mainstream, notiamo che la presenza di temi e motivi fantastici è continua, serpeggia ininterrottamente dal 1700 a oggi. Il primo a tentare una simile indagine è stato Lovecraft, nel suo Supernatural horror in literature, lavoro la cui importanza operativa e teorica è straordinaria: tutta la critica successiva, da Penzoldt a Louis Vax, da Caillois a Todorov, da Lévy a Ostrowskij, ne è stata influenzata. La ricognizione di Lovecraft si sposta agilmente da Dante a Goethe, da Hawthorne a Henry James. Noi stessi, altrove, abbiamo seguito le tracce del Maestro americano, con risultati inaspettati e sorprendenti che alla fine ci hanno portato a rivedere i concetti di «genere» e «maggiore» o «minore» in letteratura e Arte. Il Settecento non è solo il «secolo dei lumi», ahimè, ma anche la stagione del gotico che, non dimentichiamolo, era allora mainstream: l’influenza della narrativa gotica è presente persino nel Foscolo de I Sepolcri, mediata dai fantastici Canti di Ossian (quasi un anticipo della heroic fantasy) del Macpherson. In Inghilterra, il romanticismo nero dà origine a una scuola poetica: quella della poesia «cimiteriale» (Thomas Gray). Coleridge medita su fantasia e immaginazione, mentre un’opera come La ballata del vecchio marinaio sfrena echi e vertigini fantastiche. Il surrealismo storico è anticipato dal gigantesco elmo che appare nel primo romanzo gotico: il celebre Castello d’Otranto (1769) di Sir Horace Walpole (Antonin Artaud riscoprirà «Monk» Lewis, traducendolo e riscrivendolo secondo i dettami del surrealismo. Quest’ultimo poi recupererà all’arte maggiore autori e poeti dimenticati: basterà ricordare il Lautréamont de I Canti di Maldoror o il Rimbaud di Una stagione all’Inferno o il Borel dei Racconti Immorali). In Italia, persino un autore come Manzoni risentì di quest’atmosfera e il Jameson considera addirittura I Promessi Sposi un romanzo gotico (si pensi alle descrizioni della peste – che ricordano le Cere dello Zumbo –, al castello dell’Innominato, alla Storia della Colonna Infame, incunabolo della vicenda fantastica degli «untori»…).

L’Ottocento non è soltanto la stagione del Realismo, ma anche di Simbolismo e Decadentismo: Poe apre la via a Baudelaire, suo fantastico – a ragione – ammiratore e traduttore, a Mallarmé, a Verlaine e allo stesso Rimbaud, che inaugurano una dimensione nuova e sconvolgente della lirica europea. Il fantastico ottocentesco è tenuto a battesimo sulle rive del lago di Ginevra da Lord Byron, dal poeta Shelley e Signora, dal dottor Polidori: nascono il Vampiro, Frankenstein, o quella che Gabriele Baldini ha chiamato «la poetica del sistema nervoso»… Temi e motivi, sottolineiamo, che sorgono in autori oggi considerati maggiori, naturalmente non per queste opere…

Se, tuttavia, Simbolismo e Decadentismo sono impregnati di fantastico, non per questo gli autori realisti hanno saputo sottrarsi al loro fascino; così, quasi scoprendo altarini, ci imbattiamo nel Balzac visionario di Le Centenaire, Le Succube, Melmoth Réconcilié (creato sulla scia del capolavoro di Maturin), L’élixir de longue vie o il celebre Le peau de chagrin; nel Mérimée di Lokis o de La Venere d’Ille; nel Flaubert de Le tentazioni di Sant’Antonio o di Novembre. Per non parlare poi di Nerval, Nodier, Villiers de L’Isle-Adam o Maupassant: uno studioso della serietà e competenza di Pierre-Georges Castex ha dedicato un poderoso volume di cinquecento pagine al fantastico nei realisti francesi, Le conte fantastique en France (Librarie José Corti, Paris 1951-1974), a dimostrazione di come la critica estera si accosti al nostro filone.

Vero è che anche in Italia, agli albori del verismo, assistiamo al fenomeno della Scapigliatura, imbibito di fantastico: ricordiamo Arrigo Boito, il motivo centrale della cui opera è basato sul contrasto tra divino e demoniaco; il Tarchetti di Fosca; il Ghislanzoni non solo dei celebri libretti verdiani ma anche di Abracadabra, uno dei primi, se non il primo vero romanzo di fantascienza italiano (vi si congetturano scale mobili, macchine volanti, vi si parla del problema dell’inquinamento!), e poco dopo lo Zena di Confessione Postuma, il Capuana de Il Vampiro, il Papini de Lo specchio che fugge. In Russia, il più acclamato autore realista, Lev Tolstoj, scrive uno dei più bei racconti del terrore: Vurdalak (Il vampiro). Né dobbiamo dimenticare il massimo testo fantastico del Novecento russo: Il Maestro e Margherita di Bulgakov.

Spostandoci a volo radente nel labirinto delle storie letterarie (giacché una trattazione organica d’un simile argomento richiederebbe più d’un volume), passiamo a Thomas Eliot, la cui opera più alta, The Waste Land, è indecifrabile se non ricorrendo alla Gnosi, all’Alchimia e alla Cabbala; all’Ulisse di Joyce, le cui chiavi segrete rinviano al mito e al fantastico; ai Dubliners, altrettante epifanie; all’ultimo suo inquietante romanzo, il Finnegans Wake, incentrato completamente su temi onirico-fantastici. Pensiamo poi a Kafka, a romanzi come Il castello o Il processo, a racconti quali La metamorfosi: la critica togata parla oggi dello scrittore di Praga come di un «autore neo-cabalista», a indicare l’importanza della gnosi, della Cabbala e dell’ermetismo nella sua opera. Superfluo ci sembra far pure i nomi di Alfred Kubin, Gustav Meyrink, Hugo von Hofmannsthal, Walser o lo stesso Musil, tra i massimi cantori del declino mitteleuropeo. Ritornando in Francia, dopo la parabola di Proust (la cui Recherche si struttura su una memoria atemporale, negatrice del tempo e quasi fantastica) esplode il surrealismo, nascono le avanguardie, completamente orientate verso il rifiuto della storia e del reale, che riscoprono il patrimonio tradizionale europeo. Non sembri un paradosso: invitiamo il lettore a leggere con occhio surrealista testi alchemici quali il Chymica Vannus, la Turba Philosophorum, il Rituale del Gran Papiro Magico di Parigi o Le dimore filosofali di Fulcanelli; quel linguaggio cifrato, per i Figli d’Ermete pratico e operativo, acquista un’enorme suggestione fantastica e surreale, la cui lezione non è stata ignorata da poeti quali Thomas Stearns Eliot, Ezra Pound, Arturo Onofri o Dino Campana, a significare la stretta parentela tra Poesia e Fantastico, ove si pongono come trasfigurazioni, rotture, sublimazioni e trasgressioni del reale, alla scoperta di quelle strutture ermetiche che si sottendono al quotidiano e che conducono al realismo magico di Pauwels e Bergier o a quello trascendente di Evola.

La letteratura fantastica non è dunque un genere “minore”: non lo è storicamente, giacché grandi e celebrati autori realisti vi hanno dato un non trascurabile contributo; non lo è in se stessa, specie alla luce delle tendenze critiche d’avanguardia (noi abbiamo ipotizzato una strettissima parentela tra il fantastico tradizionale e le avanguardie artistiche); non lo è rispetto al principio borghese della realtà, di cui offrono una chiave più profonda e autentica, né sul piano del linguaggio, prestandosi a due letture in più, rispetto alla narrativa mimetica: l’una esoterica, l’altra legata allo stesso linguaggio. Il fremito del segno-parola, quasi come un mantra devastante, schiude spiragli che conducono alla radice stessa del linguaggio, al suo significato magico originario; il lampeggiare dei simboli si colloca spesso sul piano della grandissima arte, rasentando l’assoluto. Esoterismo e avanguardia, fantastico e poesia coincidono; non temiamo di scandalizzare nessuno: la decrittazione ermetica del testo fantastico è una chiave insostituibile, assieme a quella della critica letteraria, della psicanalisi, dell’approccio sincronico e diacronico; fondamentale, a tale riguardo, è stata l’opera di Guénon, di Zolla, di Evola, degli stessi Caillois e Sergio Solmi, nonché del titano di Oxford: Tolkien.

Ed è a questo punto che, staccandosi in superiorità dal realismo verista, oltre a offrire radicali alternative simboliche e linguistiche, il fantastico ne propone un’altra, che nessun’altra branca dell’arte o della narrativa sa offrire. È un’alternativa che da letteraria si fa esistenziale: la rottura, la trasgressione del quotidiano (che nella ghost story, nell’horror e nel weird tale resta fine a se stessa) si fa costruttiva; l’immaginazione, il fantasticare diviene terapeutico. Un intero universo, con leggi proprie, caratteristiche e peculiarità coerenti e autonome, si sostituisce al nostro: è la Contea successiva alla distruzione del mondo a opera dei mostri dei Miti di Cthulhu; è il Paese di Bilbo, Frodo e Gandalf dopo Arkham. È Tolkien dopo Lovecraft (ma anche Howard, Mary Steward, Peake o Dunsany, a seconda delle preferenze dei lettori).

Da queste brevi e rapinose annotazioni risulta quanto povero, limitato, scorretto e banale sia stato e sia ancora il punto di vista di tanta critica nei confronti della narrativa (e dell’arte, ma apriremmo una parentesi infinita) fantastica, che al contrario offre spunti di riflessione e vertigini ignote al mainstream; anzi, azzardiamo dicendo che, se una parola nuova verrà detta in questo scorcio di secolo, d’un Novecento che sembra aver esaurito ogni novità o originalità artistica, questa verrà dal fantastico, non certo da altri «generi» letterari. Segnali ce ne sono già, per chi li sappia riconoscere. Gli scrittori contemporanei «maggiori» indossano di fretta panni fantastici (per la verità, a essi poco congeniali); la critica fa rapide marce indietro; l’immaginario dilaga nei mass media, nella stessa orribile pubblicità. Secondo le previsioni di Zolla, l’uomo medio sta trasformandosi in homo phantastycus: solo così potrà ritrovare una sua misura, fuor dalle demonie del mondo moderno.

Per questo, a quell’uscita del Labirinto imprevedibilmente conquistata scopriremo, forse, che il manuale ipotizzato in apertura esiste davvero. Borges l’ha detto: è il libro del mondo.

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