Intervista a Maurizio Pallante: «Crescita infelice, decrescita felice»

Emanuele Guarnieri
L’altra faccia della moneta – Per una filosofia della sovranità politica e finanziaria n. 4/2013
Intervista a Maurizio Pallante: «Crescita infelice, decrescita felice»

D. Quali sono state, secondo Lei, le cause della crisi attuale? Sono strutturali o episodiche?

R. Sosteniamo, come movimento della decrescita felice, che la causa della crisi che stiamo vivendo sia un eccesso di produzione, che richiede, per essere assorbito, una continua crescita dei debiti sia pubblici che privati, delle famiglie e delle aziende. Questi aspetti, che solitamente vengono considerati contraddittori – come il rigore per ridurre il debito o l’espansione della domanda per rilanciare l’economia – in realtà sono molto interdipendenti tra loro. Se gran parte dell’assorbimento della domanda e dell’offerta viene fatta attraverso il debito, la crescita di quest’ultimo è l’aspetto complementare della crescita di produzione delle merci.

Perché questa situazione? Perché la concorrenza internazionale, in un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci, costringe le aziende a fare continuamente investimenti in tecnologie sempre più performanti che consentano a sempre meno persone di produrre sempre più cose. Queste tecnologie, quindi, aumentano sistematicamente l’offerta di merci e ne fanno diminuire la domanda attraverso la riduzione dell’occupazione. Questa è la causa, diciamo, strutturale.

La causa scatenante, invece, è stata la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti – crisi che d’altronde risponde perfettamente a questa logica. Essa è stata determinata dal fatto che le banche americane prestavano del denaro (economia del debito) a delle persone che esse stesse classificavano nella categoria dei subprime. Erano quindi i clienti meno affidabili, perché erano stati già protestati o perché avevano causato fallimenti e così via. Ma perché prestavano soldi a queste categorie, sapendo perfettamente che non li avrebbero mai restituiti? Perché, in questa maniera, tenevano alta la domanda di case, impedendo la crisi del settore dell’edilizia. Questo è stato il motivo scatenante. Del resto, in tutti i paesi in cui la crisi ha avuto e ha una maggiore evidenza ci sono grandi quantità di case invendute.

D. Come si palesa la crisi, nei diversi ambiti della società?

R. È una crisi che si sta manifestando gravemente innanzitutto dal punto di vista occupazionale, ma anche nella crescita dei debiti pubblici. Se si adottano le tradizionali misure politiche economiche per affrontare i periodi di crisi, se si punta a superare il problema occupazionale e a rilanciare la crescita e la produzione di merci, bisogna aumentare la spesa pubblica e quindi il debito. Se invece si vuole agire per ridurre il debito – gran parte della domanda essendo infatti sostenuta da esso – ciò significa aggravare la crisi. Tertium non datur. Questo è comprovato dal fatto che adottando le tradizionali politiche economiche, come si è fatto finora, non si è riusciti a superare la crisi.

A fronte di questo, qual è la proposta che il movimento della decrescita felice avanza? La nostra proposta è quella di trovare del denaro fresco per fare investimenti senza aumentare i debiti pubblici. Esso può derivare unicamente dalla riduzione degli sprechi. Perché questi non sono soltanto, diciamo, la produzione di qualcosa che non serve, ma comportano altresì dei costi.

Un esempio. Mediamente, per riscaldare le nostre abitazioni, si consumano duecento chilowattora al metro quadrato all’anno. In Germania non dà la certificabilità alle case che ne consumino più di settanta: un terzo delle nostre. Ma le case migliori ne consumano quindici: un decimo delle nostre. Se ci fosse una politica economica finalizzata a ridurre gli sprechi degli edifici, se per esempio si riducesse il consumo da duecento a settanta si ridurrebbero di due terzi i consumi delle fonti fossili nel riscaldamento. Non dimentichiamo che il riscaldamento invernale assorbe in cinque/sei mesi la stessa energia che richiedono tutto il parco macchine e tutti i camion nel corso di un anno, quindi un terzo complessivo delle nostre importazioni.

Ma se le nostre case consumassero un terzo di quanto accade attualmente, si avrebbero delle riduzioni dei costi di gestione, dovremmo in sostanza comprare meno petrolio dall’estero. E i soldi risparmiati potrebbero servire – dovrebbero essere impiegati – per pagare l’occupazione delle persone che lavorano per ridurre i consumi delle nostre case. Si introdurrebbero cioè elementi di riduzione qualitativa nel fare umano e non soltanto di riduzione quantitativa del PIL.

In questo settore si può lavorare moltissimo e ci sono diverse cose che potrebbero essere fatte creando quindi non un’occupazione purchessia, ma di qualità, in attività che, riducendo gli sprechi, consentirebbero di recuperare il denaro necessario per pagare gli investimenti.

D. L’unico modo di uscire da questa crisi, dunque, sarebbe una riduzione degli sprechi trasversale, che coinvolga cioè tutti i settori.

R. È una riduzione che si ottiene mediante lo sviluppo di tecnologie più avanzate, che aumentino l’efficienza con cui si usano le risorse e l’energia e con cui si è in grado di recuperare le materie prime contenute negli oggetti dismessi.

L’uso delle tecnologie che noi sosteniamo e che chiamiamo della decrescita ha questi tre obiettivi: aumentare l’efficienza energetica, l’utilizzo delle materie prime e favorire il recupero di tutte le materie prime contenute negli oggetti dismessi. Queste tecnologie hanno una grande possibilità di espansione, perché nei decenni passati, in conseguenza della grande disponibilità di petrolio a prezzi molto bassi, non è stata fatta nessuna politica né economica né industriale finalizzata a ridurre gli sprechi. Per cui c’è da fare moltissimo per mettere le cose a posto.

Naturalmente, se diminuiscono gli sprechi diminuisce anche quella che noi chiamiamo la produzione e il consumo di merci che non sono beni. Si ha insomma una decrescita guidata e controllata del PIL. È una cosa da non confondere con la recessione, che è invece una riduzione indiscriminata non voluta né controllata della produzione di merci . Questa decrescita dipende da scelte volte a ridurre una parte di quelle merci che non hanno nessuna utilità effettiva e che anzi, molte volte, creano danni e problemi.

D. Alla stato attuale delle cose, questa soluzione verrà praticata? O piuttosto la crisi è destinata ad aggravarsi?

R. La mia opinione è che questa possibilità alla fine non verrà considerata perché comporta comunque una decrescita del PIL e le persone che gestiscono l’economia – a livello politico, industriale, sindacale e così via – non hanno una base culturale per comprenderla. Cosa occorre fare, a questo punto? Costruire un blocco sociale in grado invece di individuare in questa proposta una soluzione sia dal punto di vista del reddito sia da quello occupazionale.

Ecco, per ottenere questo risultato il movimento della decrescita felice ritiene si debba anzitutto agire nel senso della rilocalizzazione delle attività produttive e delle figure corte; il lavoro deve ritornare a essere un’attività attraverso cui gli esseri umani possano soddisfare dei bisogni, in un raggio di territorio non eccessivo rispetto alla produzione stessa. Vanno cioè ridotte le filiere. Questa rilocalizzazione dell’economia dovrà avvenire su tre direttrici fondamentali: la prima è l’attività di produzione di cibo. Bisognerà fare in modo di valorizzare al massimo quella che si chiama la sovranità alimentare; le popolazioni e i gruppi umani che saranno capaci di sfruttare un’agricoltura di prossimità e di uscire dalla logica della mercificazione a livello mondiale saranno anche in grado di attenuare le conseguenze negative che la crisi comporterà anche dal punto di vista alimentare. Non dimentichiamoci che l’agricoltura chimica ha un enorme bisogno di fonti fossili: per avere una sola caloria di cibo si arriva a consumarne almeno dodici di più fossili. Questo è il primo elemento della rilocalizzazione.

Il secondo sarà la capacità di garantire la massima autonomia energetica. Anche da questo punto di vista, occorre percorrere due strade: la prima è, come detto precedentemente, la riduzione degli sprechi; la seconda, la soddisfazione del fabbisogno residuo con quelle fonti rinnovabili che sono presenti in maniera differenziata nei vari luoghi del mondo.

Il terzo aspetto sarà la massima valorizzazione della piccola e media industria. Nella logica della globalizzazione, queste vengono massacrate dai grandi gruppi multinazionali, che le sfruttano, utilizzandole come fornitrici di indotto di particolari o come contoterziste. Occorre invece dare loro un’autonomia, instaurando un rapporto diretto con i consumatori.

Si tratta di esperienze già avviate, ad esempio, nel settore dell’abbigliamento. Cominciano ad esserci aziende che si stanno rilocalizzando, sottraendosi alla globalizzazione: non avendo più il problema del marchio, riescono a mantenere i prezzi bassi, garantendo dei prodotti migliori da un punto di vista qualitativo, utilizzando tecniche meno invasive nei confronti dell’ambiente, e pagando adeguatamente i propri dipendenti.

A partire dal settore dell’abbigliamento, si stanno sviluppando delle interessanti esperienze anche nelle riduzioni degli sprechi energetici e nello sviluppo delle fonti rinnovabili. Diverse aziende e società stanno praticando quello che viene chiamato il solare collettivo: l’acquisto collettivo di pannelli fotovoltaici per favorire al massimo, diciamo così, l’abbattimento dei costi rispetto ai produttori e la risoluzione dei problemi amministrativi legati all’installazione – e questo, con lo scopo di valorizzare al massimo l’autonomia energetica di una realtà locale.

D. Si tratta di proposte assai concrete, dunque. In conclusione, a quali conseguenze andiamo incontro se non si fa marcia indietro?

R. Ci troviamo oggi alla fine di un’epoca storica cominciata duecentocinquanta anni fa con la Rivoluzione Industriale. Se non riuscissimo a sviluppare ciò che noi proponiamo – il che è, diciamo, una strada di transizione verso una fase diversa della storia – della civiltà umana non resterebbe che un crollo rovinoso come è accaduto nel caso dell’Impero Romano. Certo, le conseguenze sarebbero molto più gravi sia dal punto di vista dell’estensione – perché questo crollo interesserebbe l’economia mondiale – sia dal punto di vista della gravità delle conseguenze, che coinvolgerebbero una porzione ben più vasta della popolazione che si troverebbe a non riuscire a soddisfare i propri bisogni fondamentali.

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