Alain de Benoist: «Sull'orlo del baratro»

Luca Siniscalco
L’altra faccia della moneta – Per una filosofia della sovranità politica e finanziaria n. 4/2013
Alain de Benoist: «Sull'orlo del baratro»

Scrisse Nietzsche: “Ha cuore chi guarda nel baratro, ma con orgoglio. Chi guarda nel baratro, ma con occhi di aquila, chi con artigli d’aquila aggranfia il baratro: questi ha coraggio”. Questa audacia è la cifra peculiare dell’operazione culturale condotta da Alain de Benoist nel saggio Sull’orlo del baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro. Il testo, introdotto da tre efficaci contributi dell’editore Eduardo Zarelli, di Massimo Fini e del traduttore Giuseppe Giaccio, affronta con serietà analitica e profondità speculativa il precipizio nel quale l’iniqua “società a clessidra” moderna si sta ormai precipitosamente inabissando.

La diagnosi di de Benoist si rivela di particolar pregio in quanto capace di affiancare metodologie d’indagine eterogenee; la pluralità di una visione capace di abbracciare la modernità sotto un profilo storico-genealogico di chiara matrice nietzscheana, unita a considerazioni prettamente economiche, sociologiche, statistiche, inserite nel più ampio contesto della filosofia, dell’antropologia, della geopolitica e della scienza politica: tale è la molteplice ma organica costellazione metodologica dell’autore. Questa plurivocità è conseguenza diretta di una sapienza “inattuale”, diretta all’oltrepassamento della dicotomia destra/sinistra mediante un’operazione sintetica – o alchemica – sfociante nella critica a posizioni ed analisi ormai stantìe, superate ed ingabbiate nella logica del sistema, e nell’affermazione propositiva: “Al «né destra, né sinistra», che suscita un interrogativo sul punto di vista che si cerca di esprimere, preferisco la forma «e destra e sinistra», che in fondo esprime lo stesso concetto, ma lo fa mettendo l’accento sullo spirito di sintesi dialettico e di Aufhebung tipico delle logiche trasversali e dei nuovi spartiacque” (p. 160).

L’analisi marxista correlata ai concetti di Forma-Capitale, plusvalore e modo di produzione trae nuova linfa vitale grazie ad una riattualizzazione conseguita attraverso gli strumenti ermeneutici forniti da Heidegger, per quanto concerne il ruolo dell’imposizione planetaria della tecnica sull’uomo, da Sorel, a proposito di una rivisitazione antimaterialistica e volontaristica del marxismo, dal pensiero antimoderno e controrivoluzionario in relazione all’inconsistenza filosofica e spirituale delle pretese egualitarie, progressiste ed internazionaliste, prodotto dell’Illuminismo.

Grazie a un siffatto armamentario teorico, de Benoist ha gioco facile nella distruzione dell’ideologia, in senso marxista, e degli idoli, in senso nietzscheano, della società liberal-capitalista. La pars destruens del saggio, chiara, concisa e tagliente, denota un “racconto apocalittico” (per impiegare la felice espressione coniata da Giulio Sapelli nel suo omonimo saggio) ma privo della speranza escatologica nei confronti dell’Apocalisse, intesa come “l’attesa di una rivelazione redentrice, (…) una delle forme di quel divino nascondimento che Pascal ci ha insegnato ad amare come speranza” (G. Sapelli, Un racconto apocalittico, Milano 2011, p. 8). De Benoist si attiene ad un’indagine sobria ma cinicamente realista, basata sulla necessaria acquisizione di consapevolezza della gravità delle condizioni attuali.

Lo studio del denaro, forma di alienazione totale che abbatte il valore – in senso greco – della misura proiettando l’uomo in una corsa catastrofica suicida, è seguito dall’interpretazione della crisi economica contemporanea come sistemica e non congiunturale, “di natura nuova: crisi del sistema capitalista, crisi della mondializzazione liberale, crisi dell’egemonia americana” (p. 25). Quando la proficuità degli investimenti tende a calare, si aprono al capitalista tre soluzioni possibili: l’allungamento dei tempi lavorativi, il ricorso a una manodopera a buon mercato e, infine, il credito.

È proprio quest’ultimo, l’indebitamento delle classi popolari e medie, agente in parallelo ad un rafforzamento del peso dei mercati finanziari, delle agenzie private di rating e della speculazione, in particolare quella connessa alla “titolarizzazione”, ad aver causato nell’autunno del 2008 la crisi americana dei subprimes, origo prima della crisi mondiale. La globalizzazione, infatti, rea di aver veicolato un capitalismo non più commerciale né industriale (nazionale) bensì finanziario (mondiale), ha fatto sì, a seguito di decenni di politiche neoliberiste, che la crisi non si arrestasse nel Nuovo Mondo bensì si diffondesse viralmente su tutto il globo.

Al centro vi è il dollaro, principale moneta di scambio a livello internazionale, le politiche liberoscambiste ed il modello bancario vigente (soprattutto in Europa, con la Bce), giacché “la causa immediata dell’aggravamento dei debiti pubblici è individuabile nei piani di salvataggio delle banche private, decisi dagli Stati nel 2008 e nel 2009. (…) Per salvare le banche e le compagnie di assicurazione minacciate, gli Stati, presi in ostaggio, hanno dovuto a loro volta chiedere in prestito sui mercati, cosa che ha fatto salire il debito a livelli insopportabili”(p. 69). La recessione economica, che ha diminuito le entrate pubbliche e indotto ad un ulteriore indebitamento statale, preceduta genealogicamente dalle politiche di deregolamentazione e privatizzazione condotte all’epoca di Reagan e della Thatcher, non fa che retrodatare la scaturigine del dramma economico contemporaneo. Di dramma infatti, e non di tragedia, potremmo parlare, in virtù del carattere farsesco e paradossale di un modello economico le cui radici sono integralmente antropologiche e filosofiche: “La tesi di un soggetto sociale riducibile all’Homo oeconomicus lascia perlomeno a desiderare. La realtà sociale non si fa rinchiudere in un’equazione, perché l’uomo non è né un agente fondamentalmente razionale che cerca sempre di massimizzare il suo interesse, né soltanto un produttore-consumatore. (…) L’economia liberale, neoclassica, afferma che l’uomo è interamente calcolabile. La crisi attuale fornisce la prova del fallimento di questa pretesa alla «trasparenza»” (p. 36).

Così “il vero ostacolo al protezionismo risiede in una mentalità ideologica, che si può definire «liberale-libertaria»: narcisismo, individualismo, ossessione del denaro, disprezzo ostentato per il popolo. (…) Questo individualismo è in effetti un individuo-universalismo, e l’universalismo è anch’esso in sintonia con il libero scambio, nella misura in cui è collegato all’idea di un «mondo senza frontiere», in cui le nazioni e i Paesi sarebbero ineluttabilmente «superati»” (p. 63). Tale immagine del mondo, ispirata, per dirla con Marx, alla peggiore “robinsonata”, offre risultati concreti mostruosi, nel senso etimologico del latino monstrum, che è apparizione sconvolgente e ammonitrice: “Prima della crisi del 2008, (…) dei 3200 miliardi di dollari che venivano scambiati quotidianamente nel mondo, meno del 3% corrispondeva a beni o servizi reali” (p. 105). Il baratro comincia a suscitare paura anche nei cuori più arditi ma è compito dell’intellettuale immergersi nella verità, anche quando la sua rivelazione arreca dolore. De Benoist si addossa con sincerità questo compito, un fardello che la disamina teoretica puntella in parallelo all’enunciazione dei dati più allarmanti. Il filosofo francese non si risparmia da una meditazione “politicamente scorretta” sul tema dell’immigrazione, “esercito di riserva del capitale (…) manodopera docile, a buon mercato e priva di coscienza di classe” (p. 115), nella ferma convinzione che “chi critica il capitalismo approvando l’immigrazione, di cui la classe operaia è la prima vittima, farebbe meglio a tacere. Chi critica l’immigrazione restando muto sul capitalismo, dovrebbe fare altrettanto” (p. 121).

L’impostazione critica di de Benoist è eccellente, in quanto capace di connettere le riflessioni più acute della controcultura novecentesca instaurando nuove prospettive affascinanti, suggerendo la possibilità di “ipotizzare, lavorare per un’«altra» modernità, che non sia quella desolante, omicida, che ci angustia sempre più. Rovesciare i Moloch. Sognare forse… un’antimodernità aperta al futuro” (D. Bigalli, Un’altra modernità, Bietti, Milano 2012, p. 23). Il pragmatismo di de Benoist renderebbe inevitabile, anche al fine di scongiurare visuali fataliste ed inconcludenti, una pars costruens all’altezza della critica sferrata al modello vigente. Per quanto concerne questa destinazione, il saggio è indubbiamente meno persuasivo.

All’autore vanno tuttavia due meriti indiscutibili: in primo luogo la comprensione del significato profondo e metastorico della crisi, parola che, come sottolineato da Eduardo Zarelli, “in cinese, composta nei suoi ideogrammi, può essere interpretata abbinando il concetto di “crisi” a quello di «opportunità»” (p. 7) e in senso greco krisis, che deriva dal verbo krine, “separare, dividere, decidere”, dunque “crisi come ambito di un’opzione decisiva, tramite la quale procedere alla revisione del cammino percorso sino al presente, ispirando il senso di una svolta, in vista della salvezza comune” (G. F. Lami, G. Casale, Qui ed ora, Rimini 2011, p. 18); secondariamente, una visione antropologica avvertita, distante da certe moderne infatuazioni neo-rousseauiane e primitiviste che vedrebbero nell’uomo allo stato di natura una creatura buona ed integralmente realizzata. A tal proposito scrive l’autore: “Se il male sociale, la fons et origo malorum, è «la società», mentre l’uomo è «naturalmente buono», come si spiega che la società abbia tante caratteristiche detestabili? (…) L’uomo non è né naturalmente buono, né naturalmente cattivo, ma, in quanto essere «aperto al mondo», capace del meglio come del peggio, capace di superare se stesso o di ricadere al di sotto di se stesso” (p. 158).

L’orientamento fattivo proposto da de Benoist non appare tuttavia pienamente evidente, viziato a mio avviso da una contraddizione interna al suo ragionamento. Il filosofo d’oltralpe afferma da un lato la necessità di un superamento del baratro, metafora del sistema monetario, liberista e capitalista, nella certezza che riforme interne al modello attuale non possano rendersi efficaci, se non a breve termine. I toni impiegati in questa sede sono estremamente duri, si evoca il socialismo come forza di popolo, si afferma che “l’atteggiamento necessario è quello della più completa radicalità critica” (p. 171), si rifiuta il mito della crescita (sulla scia della riflessione di Serge Latouche sulla “decrescita felice”), la psicologia del capitalista ed il feticismo del denaro. D’altro canto, nel momento in cui de Benoist approfondisce il proprio indirizzo propositivo, elenca una serie di progetti indubbiamente interessanti ed anticonformisti, ma altrettanto palesemente interni al sistema; la soppressione del divieto delle banche centrali di prestare denaro direttamente agli Stati, una “nuova disciplina bancaria che vietasse alle banche d’affari di fondersi con le banche di deposito, (…) una politica fiscale che permettesse di controllare meglio i movimenti di capitale a breve termine, (…) distinguere il tasso di interesse «produttivo» e quello «speculativo»” (p. 81), una riforma dell’Euro, la lotta alla disparità sociale, l’instaurazione di un reddito di cittadinanza, politiche protezioniste contro la mondializzazione in nome di una “adozione della preferenza comunitaria europea in tutti i campi” (p. 61): si tratta di proposte che presuppongono un modello economico capitalista, anche se indubbiamente lontano anni luce dalla degenerazione contemporanea. Sotto questo profilo il pensiero di de Benoist non sembra lontano da modelli neokeynesiani, quali quelli della MMT (Modern Money Theory), o da proposte conservatrici quali quelle di Giulio Tremonti (La paura e la speranza, Milano 2008, Uscita di Sicurezza, Milano 2012).

In de Benoist vi è tuttavia un radicamento profondo nella tradizione europea e nei suoi valori, un soggiornare presso un nomos della terra ormai perduto, in lotta contro la contraddizione di fondo del liberalismo, per il quale si deve “dare uno Stato (…) il quale rinunci se non alla guida, al controllo dell’economia, in un’epoca dominata dai valori economici. (…) L’economia internazionale si «libera» del diritto inter-statale europeo, fondato sull’esistenza di Stati effettivamente sovrani. (…) Il linguaggio vittorioso dell’economia e della tecnica esige un unico spazio” (M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Milano 1994, pp. 125-126).

È forse nel seguente invito, egregiamente sintetizzato da Giaccio, che risiede allora l’insegnamento più importante del pensatore francese: “Dobbiamo, come i primi cristiani, stare nel mondo, cioè immergerci nella realtà per meglio conoscerla e criticarla, e costruire dal basso, con pazienza, calma e umiltà (nel senso di aderenza all’humus) una prospettiva di cambiamento radicale, senza essere del mondo” (p. 20). Alain de Benoist, Sull’orlo del Baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro, prefazione di M. Fini, traduzione di G. Giaccio, Arianna Editrice-Macro Edizioni, Cesena 2012, pp. 182, euro 9,80.

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