L'idioma del marmo

Mario Bernardi Guardi
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
L'idioma del marmo

Apparso nel 1926 a Buenos Aires presso l’Editorial Proa, El ta­maño de mi esperanza è una di quelle opere in prosa della stagione gio­vanile di Jorge Luis Borges – le altre sono Inquisiciones, del 1925, ed El idioma de los argentinos, del 1929 – che sono state ripu­diate dall’autore. E di un ripudio netto si trattava, come si evince da quanto scrive María Kodama, cioè la giovane donna che stette accanto a Borges nei suoi ul­timi anni di vita (a proposito, era india o giapponese? Quando, trent’anni fa, lo scrittore venne a Pesaro, in occasione della consegna del Labirinto d’Argento al Centro Studi Heliopolis, ce lo chiede­vamo tutti: e forse qualcuno ci ha anche dato la risposta, ma noi preferiamo collo­care l’inquieta e sollecita occhimandor­lata María sopra una nuvola di intatto mistero) e che ora riferisce a futura me­moria. Una sera del 1971, dopo che Bor­ges era stato insignito del dottorato hono­ris causa a Oxford, ecco che, durante una chiacchierata con un gruppo di ammira­tori, qualcuno accennò a quella dimen­ticata raccolta di saggi. Borges reagì con stupore (possiamo aggiungere con una lieve irritazione?), assicurando che quel libro non esisteva e dunque non valeva la pena cercarlo. Poi cambiò discorso.

Ma il giorno dopo uno studente gli te­lefonò, comunicandogli la ferale notizia: una copia di quel libro inesistente si tro­vava alla Biblioteca Bodleiana. Dunque, doveva essere qualcosa di cartaceo, di tan­gibile, non un fantasma, non una finzione né, tanto meno, una maldicenza! Con l’a­ria di chi si arrende al destino e deve fare i conti con la sorpresa di un’opera rimossa che grida vendetta, imponendo una con­cretezza che lo smaschera (come somiglia a un suo racconto questo pezzetto di bio­grafia borgesiana!), lo scrittore disse alla sua compagna, con un sorriso (resa all’i­nevitabile? Altro e altro ancora poteva essere il destino del libro rinnegato, ma il solito intreccio di caso e cause, coinci­denza e appuntamento, volontà e fatalità, volle questo esito per la finzione): «Cosa possiamo farci, María, sono perduto!» (si veda l’introduzione a La misura della mia speranza, con una nota al testo di An­tonio Melis, Adelphi, Milano 2007).

Addirittura perduto: ma perché? Forse qualcosa, nel ’71 e partendo dai lidi dei vent’anni, era prepotentemente tornato per rivendicare un volto e un senso, met­tendo in crisi un approdo a cui Borges si teneva saldo? Guardiamo: nel Cammino della mia speranza, il nostro Jorge, tan­to per cominciare, strepita di ebbrezze e furie giovanilistiche, è impetuosamente guerrigliero, come l’età comanda. Insom­ma, va all’assalto del cielo e delle terre emerse o sommerse, talvolta costeggia l’enfasi, regola fieramente i conti con la coeva cultura argentina tranciando giudi­zi sommari, ha toni beffardi, provocatori, insolenti. E poi è tutt’altro che occidentale ed europeo: men che meno ha i tratti dello scrittore cosmopolita, curioso e sapiente esploratore di ogni sorta di cultura.

È argentino fino al midollo, celebra la pampa sconfinata, i poeti dei sobborghi come Evaristo Carriego, il quartiere di Palermo dove visse da bambino, con i cortili invasi da immense notti di luna, la baldanza dei compadritos, lo spirito cre­olo, i vecchi tanghi che erano uno sfac­ciato alfabeto erotico e identitario, alla faccia dell’Europa senescente e querula. Il giovane Borges lancia veri e propri ap­pelli patriottici: «È ai criollos che voglio parlare: agli uomini che in questa terra si sentono vivere e morire, non a quelli che credono che il sole e la luna si trova­no in Europa. È una terra di esiliati nati, questa, di nostalgici di quanto è lonta­no e straniero: sono quelli i veri gringos, che il loro sangue lo avvalori o meno, e con loro la mia penna non parla. Voglio conversare con gli altri, con i ragazzi at­taccati a questa terra e nostri, che non sminuiscono la realtà di questo Paese. Il mio argomento di oggi è la patria: ciò che vi è di presente, di passato e di futuro». E ancora: «Ormai Buenos Aires, più che una città, è una nazione, e bisogna trovare la poesia e la musica e la pittura e la religione e la metafisica adatte alla sua grandezza. Questa è la misura della mia speranza, che ci invita tutti a essere dèi e a lavorare alla sua incarnazione. Non mi piacciono il progressismo e il criollismo, nell’accezione corrente di queste parole. Il primo è un ridursi a essere quasi nor­damericani o quasi europei, un intestar­dirsi a essere quasi altri; il secondo, che un tempo fu parola d’azione […], oggi è parola di nostalgia».

Un Borges, insomma, chiuso nella sua argentinità? Un momento: è vero che il Nostro, trasformandosi in una sorta di inquisitore, condannò al rogo questa e altre sue opere, ma è altrettanto vero che il criollismo, e cioè l’identità creola, le rivendicate radici latino-americane, debbono essere capaci di «conversare sul mondo e sull’io, sulla vita e sulla morte». Insomma, già da allora il “nazionalista” Borges ha ben chiara una cosa: si è univer­sali non sciogliendosi in un magma di in­differenziate suggestioni o sterili mode, ma solo se e quando ci si riconosce in un radicamento, in una storia, in una appar­tenenza, in un paesaggio con figure, in miti e riti di fondazione. Si è universali, e dunque si può conversare con gli altri, solamente se possediamo una lingua, una cultura, una tradizione. Un volto specia­le, particolare. E una geografia, con tutti i suoi atlanti, con i tanti paesaggi in cui ti avventuri, affascinato ma senza guida (o con troppe guide).

Nell’intricata mappa argentina compa­iono «due realtà di un’efficacia reveren­ziale», che nulla hanno a che fare con il progresso e la modernità, ma che vanno riscoperte proprio nella loro genuina forza primitiva. La pampa, «parola infi­nita» e «sacrario», il luogo dei gauchos irriverenti e coraggiosi, delle leggende e dei coltelli che brillano alla luce lunare. I sobborghi, labirinti di strade addolciti dalle penombre e dai crepuscoli: il luogo dei compadritos, «con i capelli schiacciati e il fazzoletto di seta e le scarpe rialzate e l’andatura curva e lo sguardo travolgen­te». Qui è nato il tango, non quello «fat­to a forza di tratti pittoreschi», ma l’al­tro, meravigliosamente nudo e crudo, che è un’esplosione «di pura sfacciataggine, di pura spudoratezza, di pura felicità».

Un giovane Borges “avventuroso” è quello che, nella Misura della mia speran­za, scrive di pampa e periferie, aprendo alla loro “contaminazione” nazional­popolare l’educazione elitaria che lo ha nutrito. Ma non c’è da stupirsi, se si tiene conto che per lui «ogni avventura è una norma a venire». Quanto alle amate e ce­lebrate metafore, si tenga conto che esse investigano il reale, assimilandone e rap­presentandone l’espressiva quintessenza. Nessun contrasto, poi, con l’ordine, cui non teme di richiamarsi: «L’Avventura e l’Ordine… A me piacciono entrambe le discipline se c’è eroismo in chi le segue».

Come è bello questo aprirsi, questo di­latarsi del cuore in puro candore, in cal­da schiettezza, abbracciando l’et et che sgomenta i conformisti! E poi ancora vien da pensare al gentiluomo alto-bor­ghese, all’uomo colto, “civile”, allo splen­dido conversatore, che, in sodalizio col doppio dell’Omero bonaerense, sfida a ogni possibile, smoderato paradosso… E “vediamo” così il bibliotecario vagante col bacolo incerto e magari tremolante, mentre sparge qualche lacrima – salata e dolcissima perché la nostalgia del non vissuto alleggerisce comunque il peso del rimpianto – per il destino del guerriero, che «non fu suo».

Solo complicità letterarie con l’uomo della notturna lama scintillante, con la tigre dagli occhi e dagli artigli che ardo­no, con la notte trapunta dai segni plurali delle stelle dove, soldato e/o bandito, cor­ri braccato dal nemico e poi ansante cedi alla fatica, seminando nel buio mozzico­ni di parole, bagliori d’intenso affanno. Quanto ti/ci sono mancati, bianco e gen­tile Maestro cieco, gli occhi di quel de­stino! Eppure, vogliamo bene – un bene struggente, e grato, e memore – al genti­luomo vestito di lino bianco, appoggiato al suo bastone, che affabile e cortese saziò il nostro intelletto (e cuore) investigante. Aiutandoci a capire. Possiamo dirlo: sap­piamo e saggiamo i suoi orizzonti.

“Conosciamo” Borges. E capiamo, in eletta sintonia di emozioni se non di affet­ti, l’Argentino che scrive: «Ormai le stra­de di Buenos Aires / sono le viscere dell’a­nima mia», «la città vive in me come un poema / che non m’è riuscito di fissare in parole», «Buenos Aires è lì. Il tempo che agli umani / reca l’amore e l’oro, m’offre appena in retaggio / questa rosa smorza­ta, questo intrico selvaggio di strade che ripetono i nomi ormai lontani / del mio sangue». Il sangue, i nomi che sono numi e insegne, le eredità molteplici del mul­tiforme ingegno. Ripensiamo a Borges, l’Argentino, che ci parla dei suoi maiores e li evoca, attingendo al “profondo”. Il suo, il nostro. Il profondo e l’alto, dunque.

Li racconta la confessione carnale e complice che non esita a addentrarsi nel “sublime”, anche se sa che il “ridicolo” è lì, prossimo, e strizza gli occhietti dissacran­ti, perché tutto va ridotto ai minimi ter­mini nel mondo che ha schifo degli eroi. Non Borges, l’estraneo che tanti vezzi modaioli hanno provato ad accarezzare, solleticati/sollecitati dal profilo “sugge­stivo”. Borges, amaro e ironico testimo­ne. Fino alla fine devoto agli auctores e ai libri che sono l’universo e lo raccontano per sempre: l’Edda e l’Eneide, la Divina Commedia e il Don Chisciotte, le tragedie di Shakespeare, le poesie di Shelley, la fi­losofia di Schopenhauer.

Lo ricordo, il Maestro Molteplice, men­tre mi spiega sorridendo cos’è veramente il tango (incontro d’amore e sfida alla morte, rito e mito terragno, esplosione di sensi che le figure plasmano) e subito dopo mi ripete con commozione: «Civis romanus sum», «le mie notti sono pie­ne di Virgilio», «il latino è l’idioma del marmo. Una lingua che può essere incisa nel marmo è una lingua eterna». Amici, proviamo a parlarla.

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