Il sogno di Dio

Luigi De Pascalis
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
Il sogno di Dio

«Devastato il giardino, profana­ti i calici e gli altari, gli Unni entrarono a cavallo nella biblioteca del monastero e lacerarono i libri incomprensibili, li oltraggiarono e li dettero alle fiamme, temendo forse che le pagine accogliessero bestemmie contro il loro dio, che era una scimitarra di ferro.» (Jorge Luis Borges, I teologi)

Dicono che a un certo punto il sognatore sognò Dio. Ma non lo sognò Unico, lo so­gnò Ultimo e, proprio per questo, lo sognò malinconico d’una malinconia profonda, invincibile. Il Dio del sogno aveva gli occhi tristi di chi è solo, una sensazione ben nota al sognatore. E non aveva la barba bianca agitata dal vento divino e le braccia possen­ti che il sognatore ricordava di aver visto in certe figure dipinte in edifici consacrati a un altro Dio, in un altro Paese. Il Dio del suo sogno somigliava a lui: viso scavato, pochi capelli, sguardo sfocato, braccia sen­za forza. Ed era normale fosse così – sognò di pensare il sognatore – visto che la nascita di Dio era avvenuta prima dell’invenzione del tempo, che non si capiva bene cosa fos­se ma si sapeva corrodesse tutto: creature e cose, stelle e pianeti, galassie e buchi neri.

E, siccome su Dio era scorso tutto il tem­po immaginabile, era già un miracolo che fosse ancora lì, a farsi sognare da lui.

Dicono che il Dio del sogno fosse l’ulti­mo della sua specie.

Come ogni vivente, probabilmente ave­va avuto un padre, una madre, una com­pagna, figli, amici. Ma non lo ricordava più. Un dio sa tutto, ma non è detto che ricordi tutto. Lui ricordava solo di esse­re l’ultimo e ricordava bene, perché non smetteva mai di sentire l’immenso vuoto di divinità che c’era nell’universo.

Dicono che, a un certo punto, il sogna­tore pensò che anche Dio stesse sognan­do. Infatti sarebbe stata l’unica cosa in grado di spiegare perché, rispetto a Dio, non si sentisse come l’argilla in mano al vasaio ma come un’altra cosa: una sensa­zione insolita, non di potenza né di di­pendenza. Insolita e basta.

Tuttavia capì, il sognatore, che se pure Dio stava davvero sognando, a lui sarebbe stato impossibile sapere cosa sognasse. E non perché i sogni di Dio fossero imper­scrutabili, ma perché l’unico sogno che gli era possibile percepire come tale era il proprio: un sogno in cui c’era Dio che, se pure sognava a sua volta, non si sarebbe mai saputo cosa stesse sognando.

L’unica certezza del sognatore, a quel punto, era che il suo sogno e quello, even­tuale, di Dio non sarebbero mai stati uguali.

Da bambino, probabilmente, il sognato­re avrebbe sognato Dio in un altro modo: un ospite rilucente di colori diurni, un ca­leidoscopio di viaggi e desideri, un frulla­re di vele in rotta verso Oriente, un intero scaffale di libri magnifici con le pagine pronte ad aprirsi alle innumerevoli mani che avrebbero desiderato sfogliarle.

Ma lo sognava ora, da adulto, quasi vecchio.

E dunque, dicono, sognò un Dio sull’orlo dell’esistenza: notte incapace d’accostarsi ancora al giorno, abitudine di abitudini, viaggio viaggiato, canzone cantata, anima oltraggiata da ombre, col­pe, spaventi e lacrime, statua di marmo consumata e resa irriconoscibile da mi­liardi di gocce di pioggia cadute su di essa, stagione dopo stagione, anno dopo anno, secolo dopo secolo, era dopo era.

E dicono che sognò un Dio quasi ebete, non più avido di sangue umano né gioio­so della gioia che si prova, talvolta, guar­dando il mare d’inverno: blu, sotto un cielo senza vento, pago dell’unica onda che ne increspa la superficie.

Ne sognò, dicono, il viso rugoso e alieno come il grugno di una chimera, le unghie appuntite come pugnali forgiati nell’om­bra, gli occhi disperati come battaglie perdute o castelli diroccati o inferni pieni dell’eco di sofferenze dimenticate. Infine sognò i suoi denti senza sorriso, affilati come spade immerse a grappoli nei corpi di guerrieri sconfitti.

A quel punto, dicono, comprese che il suo sogno non era giusto nei confronti di Dio. E si sforzò di sognare il declinare del giorno, quindi il limitare di un tem­po incessante e tuttavia non eterno. E, lì, sognò di collocare la mesta solitudine del Dio sognato, che un tempo era un popolo divino e adesso era uno solo.

«Sarai stato bambino anche tu» pensò, quasi per consolarlo. «Un Dio bambino, piccolo e perso nella sua sconfinata dimo­ra. Eccoti mentre guardi l’immenso tro­no su cui sederai, un giorno. E lo guardi senza orgoglio né ansia, semplicemente perché è tuo diritto averlo; ma il tuo sguardo infantile riesce appena a scorgere il bordo superiore della seduta del magni­fico scranno, che è più alto di una vetta celeste. E provi quasi sgomento.

«Ma non disperare. Questo turbamen­to passerà se ti fermerai almeno un istan­te a dividere lo stupore della sera con la tortora e la colomba annidate tra i rami del tuo albero. Vi sono libri di magia che anche un dio potrebbe essere curioso di sfogliare. Siedi a terra, poggia la schiena al tronco del salice e lascia che la tua mente divina sposti più in là i confini dello sco­nosciuto universo. Certi umani ci riesco­no, a volte, e tu sei Dio – Dio, capisci? –. I tuoi confini sono inimmaginabilmente più lontani! Coraggio, fallo!…»

Dicono che, a quel punto del suo asson­nato immaginare, il sognatore capì di non avere consolato il dio del proprio sogno.

Allora cambiò sogno e sognò spuma se­rena, lieve, come di neve, ed era la canizie di Dio.

«Dio non è mai stato bambino» pen­sò tristemente. «È nato vecchio, solo, malinconico. Esattamente come me, che non a caso gli somiglio, visto che sono una sua creatura.»

Poi comprese che, per qualche ragione ancora imperscrutabile, quel pensiero era l’ovest del suo tramonto, il buon ritiro della sua stella, il prologo della sua fine.

Dicono che, a quel punto della storia, Dio si addormentò davvero.

Silenziosamente, inaspettatamente.

E, in modo bizzarro, la sua visione onirica baluginò nel sogno di colui che lo stava sognando. Permeò di sé notti e giorni vani, case vuote e indecifrabili, avi dimenticati, memorie stanche e sbiadite, stupori vetusti.

Poi, nel proprio sogno, Dio si voltò ver­so l’uomo che lo sognava e illuminò il proprio grugno burbero con un sorriso perfetto, da Dio.

– Io sono il Sovrano delle Vittorie – dis­se a quel punto. – Sono il Paradiso Inde­cifrabile di ogni dormiente. Sono la Fiaba Notturna che cammina su gambe di silla­be monche. Io sono colui il cui nome non si può pronunciare per la semplice ragio­ne che ne ha uno per ogni essere umano che ha camminato, cammina o cammi­nerà sulla Terra, dalle origini alla fine dei tempi. Insomma, uomo, io sono un dio immenso. E, tuttavia, la pochezza di voi umani mi annienta. La vostra stupidità mi uccide. E sai perché? Perché l’uomo è la mia ombra, e io la vedo guasta di cattiva coscienza e mediocre nostalgia.

– Nostalgia di cosa? – dicono domandò il sognatore che Dio stava sognando a sua volta.

– Potrei risponderti: nostalgia di pa­radisi perduti, ma non sarebbe onesto. È piuttosto nostalgia di obelischi piantati nella sabbia, conoscenze dimenticate, vecchi rigori, mausolei addormentati nel­la morte avventurosa delle tenebre, quel­la chiave divina che apre il cuore e chiude la mente. Aggiungo, affinché tu possa ca­pire di cosa parlo, che si tratta della stessa nostalgia che provò Ulisse il giorno in cui vide all’orizzonte una montagna bruna e capì che era l’ultimo approdo, cui non sarebbe mai giunto prima di morire.

Dicono che il sognatore sognò lo sguar­do di Dio e in fondo a esso scorse, o gli parve di scorgere, un velato barlume di severo divertimento.

– Non capisco come la malinconia della finitezza umana possa rallegrarti – disse piccato. – Se l’uomo è limitato non vuol dire, forse, che è limitata anche la tua opera? Dovresti essere dispiaciuto, piuttosto!

– Forse hai ragione – rispose Dio. – Tuttavia, non mi diverte tanto il vostro limite, quanto la mancanza di senso della misura circa le vostre reali possibilità. In­tendi, ora?

– Sì – rispose il sognatore a capo chino. Poi, in un moto d’orgoglio, osservò: – Ma anche la mancanza di senso della misura è un tuo dono. Devo dunque ritenere che ci hai creati così perché fossimo i tuoi giullari?

– Non essere insolente! Avevo progetti molto complessi in cui inserire la razza umana, ma… ho deciso diversamente.

– Ne sei certo?

– Assolutamente! Il più è fatto, questo è sicuro. E tuttavia, a essere sinceri, non so cosa resterebbe da fare se avessi ancora voglia di farlo.

Dicono che, nell’udire queste parole, il sognatore sognò il proprio sgomento.

L’indecisione di Dio cancellava ogni certezza umana; una cosa tremenda cui, almeno, avrebbe dovuto seguire un di­gnitoso silenzio.

Invece Lui seguitò a parlare, inarrestabile.

– Ho costantemente vietato ai miei pas­si di varcare la soglia della memoria e della storia umane, perché ho sempre ritenuto che un dio debba restarne fuori. È possi­bile, però, che la finitezza che ho riservato ai viventi sia lo specchio ingrigito dell’a­gonia dei colori che ho nel cuore. I temi fondamentali, in ogni caso, sono altri. La vostra letteratura ne trabocca: vita, fede, giudizio… Forse anche amore, ricordi e… buona coscienza.

«Non ci siamo» pensò il sognatore. «Non era quel che volevo sentire. La vita è un soffio e il giudizio è ingannevo­le. E poi chi ha giudizio, di questi tempi? Quanto a quel po’ di fede che possiedo, è tutto ciò che mi rimane di un’esistenza che forse ha avuto un costo troppo elevato per quel che è stata.»

– Trovo che la cattiva coscienza sia ar­gomento migliore di vita, fede, giudizio, amore, eccetera – disse a voce ben alta, sperando che Dio capisse il suo disagio e ponesse rimedio.

– La cattiva coscienza – ripeté Dio. Di­cono che, nel sogno, la sua voce si fosse lie­vemente incrinata. – La cattiva coscienza è ciò che resta della buona quando l’om­bra del dubbio l’oscura.

Il sognatore era spazientito e non avreb­be dovuto, visto che il suo interlocutore sognato e sognante era Dio. Ma chi sogna il sogno di Dio che lo sogna, in fondo, ha qualche libertà.

– Non ti ho chiesto cosa guasti la buona coscienza – disse a bassa voce, sorridendo. – Ma cosa sia la cattiva coscienza: la tua cattiva coscienza, per dirla tutta!

– Oh, capisco dove vuoi arrivare – bor­bottò Dio. Se non fosse stato chi era, lo si sarebbe detto a disagio. – La mia cat­tiva coscienza è diversa da quella umana. Essa cinge la notte del mondo quando la mia Grazia viene distratta dall’immenso e perfetto lucore del cielo stellato. Tutta­via, dal momento che io stesso ho creato il cielo stellato e non sono così vanesio da bearmi fino all’ebetudine per ciò che ho fatto, c’è dell’altro.

– Cosa?

– Potrebbe esserci, per esempio…

Dicono che a quel punto del sogno un gruppo di soldati stranieri che adoravano come dio una scimitarra di ferro entrò nel luogo dove il sognatore, com’è ovvio, dormiva.

Lui giaceva supino su una coperta stesa e poggiava la nuca sulle palme delle mani aperte, sognando Dio che lo sognava. Ma c’era la guerra e i soldati lo videro steso lì, fra altri sognatori che non sognavano più perché erano morti, e pensarono – chissà perché! – fosse pericoloso.

In realtà lo era, visto che aveva appena messo in difficoltà Dio, ma loro non po­tevano saperlo.

Di certo non lo sapeva quello che im­bracciò il fucile e gli sparò in fronte, ritenendo che fingesse d’essere morto, e che, se fingeva di essere morto, stava mentendo ai padroni del mondo che lui rappresentava.

Appena la pallottola gli entrò nel cranio, dicono che il sognatore smise di vivere e sognare, proprio come i suoi compagni di sventura, e non seppe mai cosa volesse dirgli ancora Dio a discarico della pro­pria cattiva coscienza. Né ebbe il tempo di sospettare che Lui, Dio, avesse indotto il soldato straniero a sparare proprio per una questione di cattiva coscienza.

Dicono che su questa vicenda esistano opinioni e interpretazioni differenti.

Alcuni teologi che si rifanno al pensiero di Aureliano, coadiutore di Aquileia, ri­tengono, conformemente agli assunti di lui, che Dio non agì per cattiva coscienza, come sembrerebbe, perché diede comun­que la propria risposta al sognatore.

Solo apparentemente, infatti, il sogno s’era concluso nel momento in cui il so­gnatore moriva.

Dio è eterno, dicono i seguaci di Aure­liano, dunque lo è anche il suo sogno. E, per riflesso, in quanto cosa che riguarda Lui, è eterno anche il sogno di chi lo so­gna. In altri termini, secondo costoro il sogno di chi sogna Dio è destinato a so­pravvivere al sognatore.

Stando così le cose, nel sogno in que­stione Dio assolse certamente all’obbligo morale di rispondere al quesito che gli fu posto.

Contro quest’ardita ed elegante tesi si sono apertamente schierati i seguaci di Giovanni di Pannonia, i quali invitano i filosofi a riflettere sul fatto che Cattiva Coscienza è uno dei miliardi di miliardi di nomi ancora sconosciuti di Dio.

Infatti, fanno notare i Pannoniani, i nomi di Dio sono infiniti come lui e, per il mero gioco dei numeri, fra essi deve esserci necessariamente anche Cattiva Coscienza.

Da tale assunto discenderebbe che Dio indusse il soldato a sparare non tanto per eludere la domanda del sognatore sulla sua cattiva coscienza, quanto piuttosto per ob­bedire a un impulso naturalmente coeren­te con il nome Cattiva Coscienza.

La differenza, aggiungono i Pannoniani, è di sostanziale evidenza.

In merito all’esegesi di questa storia vi è tuttavia una terza posizione, quella di al­cuni allievi di mastro Jorge da Buenos Ai­res, i quali affermano che se il sogno di Dio comprende in sé tutto, allora in esso sono da annoverare anche gli assunti di Aure­liano e di Giovanni nonché, naturalmen­te, quelli di tutti i loro possibili epigoni e contraddittori.

Com’è ovvio, tale posizione è ritenuta non accoglibile da parte dei Monotoni (chiamati anche Anulari), i quali credo­no che la storia sia un circolo e nulla esista che non sia già stato e che non sarà nuo­vamente. Da tale posizione dottrinaria il sogno di Dio comprenderebbe sì tutto, anche la propria negazione, ma solo secon­do un preciso ordine che si riproporrebbe ciclicamente.

Dunque, se il sognatore sognò Dio e/o il suo contrario, continuerà a farlo in eterno, a intervalli regolari.

Anche sul soldato straniero e sul sogna­tore ucciso i Monotoni esprimono legitti­mi dubbi. Il soldato fu, e sempre sarà, un demone o un arcangelo?

E il sognatore stesso fu, e sempre sarà, un corpo umano fatto di carne e sangue o l’ombra di un’idea proiettata dal fuoco di­vino sulle pareti di una grotta, in una notte lunga come tutto il tempo concepibile?

Dicono che dopo anni e anni di accanite dispute i Monotoni, i seguaci di Aurelia­no e quelli di Giovanni concordarono su un’unica cosa: la pallottola che uccise il sognatore fu metafora del dubbio.

Ma il dubbio di chi, ci si chiese in seguito, del sognatore o di Dio?

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