Il quarto scatto

Andrea Scarabelli
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
Il quarto scatto

Fu allora che gli venne l’idea: «E se li filmassimo, invece di fotografarli…?».

Erano le undici passate e la folla accalcata sul Naviglio Grande non voleva saperne di defluire altrove, verso un locale o una scopata, una notte insonne o un caldo letto matrimoniale a incassare altre menate da quella che una volta doveva pur essere una donna…

Una serata all’insegna della noia più profonda, come tante altre, una Milano sempre più grande e altrettanto provinciale, in cerca di un alibi per svegliarsi tardi la mattina dopo, maledicendo un circolo vizioso che pure qualcuno doveva aver scelto.

Armati di macchina fotografica, i due procedevano a rilento, an­naspando in quella fiumana che infestava le vie di una città nottur­na come tante altre. Inutile, come tutte le altre.

Un tour fotografico… «Che cazzata» sibilò uno dei due prima che un passante gli assestasse l’ennesimo spintone.

Erano a tal punto sdegnati da quello scrosciare di visi stravolti che meditarono un prematuro ritorno a casa. Ma era troppo presto – che ne sarebbe stato del loro alibi?

«Fotografiamo la folla… Cercavamo del grottesco…? Eccolo, a nostra disposizione!»

Non era un’idea pessima, quella di immortalare angoli o situa­zioni particolarmente sinistre di Milano. Avevano appena letto la nuova edizione del Golem di Gustav Meyrink, il romanzo del cabalista che dà vita alla creatura disumana che alla fine si ribel­la e combina un casino. Era ambientato in una Praga nera, disa­strata, case con porte spalancate simili alle bocche sull’inferno, un’atmosfera malsana che conoscono bene le metropoli affollate di poliziotti e seminaristi, puttane e notai… Una Praga come la San Pietroburgo di Dostoevskij, buona solo per allevare assassi­ni… Che poi si pentono pure, infrangendo la sacra aura che avvolge i criminali veri… Leggendo quei romanzi, i nostri eroi si erano sen­titi maledettamente a casa.

«Non diciamo scemenze» aggiunse l’altro. «Ci manca solo che qualcuno s’incazzi e ci prenda a pugni…»

«Be’, se usiamo una certa discrezione…» rispose l’altro con un sorriso sardonico.

«Impossibile, se ne accorgerebbero. E poi, sai quanto ci mettere­sti, tra la messa a fuoco e l’esposizione? Come reagiresti se qualcu­no ti piantasse un obiettivo in faccia e ti scattasse una foto? Così, senza alcun motivo…?»

«Già… Non la prenderei bene» aggiunse l’altro.

Fu allora che gli venne l’idea: «E se li filmassimo, invece di fotografarli…?».

«In che senso? Con la mia Nikon non posso fare video… Era di mio padre, che la comprò nel…»

«Sì, sì, conosco il ritornello! Solo le macchine di una volta resti­tuiscono il soggetto, solo le macchine di una volta registrano l’ani­ma delle cose… Me l’avrai raccontato cento volte!»

«Continuo a non capire…» aggiunse quello con gli occhiali, lie­vemente disorientato.

«Usiamo la mia» lo interruppe il suo interlocutore. «Digita­le, pratica, moderna… Facciamo un video e poi isoliamo i frame con i volti più grotteschi. Poi un bel colpo di Photoshop e via, una carrellata di facce da far strabuzzare gli occhi anche al vecchio Meyrink.»

Il campionario offerto dalla folla notturna era in effetti notevo­le, una galleria che avrebbe fatto invidia a Lombroso, i volti pal­lidi e verdastri come la folla di Oslo nei dipinti di Munch, dopo la messa della domenica… Non c’era dubbio. Avevano trovato il loro soggetto.

Dando il colpo di grazia all’ennesimo gin tonic, quello con gli occhiali si rassegnò e ripose l’apparecchio: «Ma come farai a ri­prenderli a loro insaputa?».

«Fingerò di guardare foto e video e intanto registrerò. Metterò la macchina in un luogo in cui sia poco visibile. Non se ne accorgerà nessuno, vedrai.» Pareva molto sicuro di sé.

L’altro alzò le braccia in segno di resa e si accese una sigaretta, mentre l’amico armeggiava con un apparecchio che era la demo­cratizzazione della fotografia, una macchina che fa tutto da sola – messa a fuoco, esposizione, luce, contrasto – regalando a chiun­que l’illusione di essere un fotografo professionista. «Del tutto conforme allo spirito dei tempi» aggiunse sconsolato.

«Cosa…?»

«Nulla, nulla. Pensieri sconnessi. Non darmi retta.»

Si rimisero in moto dopo aver premuto un paio di pulsanti di quel prodigio che avrebbe permesso anche a un imbecille di farsi passare per Man Ray. Percorsero a ritroso il Vicolo dei Lavandai. A quello con gli occhiali ricordava Praga: «La Via degli Alchi­misti, ricordi…? Quella in cui gli ermetisti del medioevo calci­navano la pietra filosofale e avvelenavano i raggi della Luna… Meyrink, no?».

«Certo, certo…!» bofonchiò l’altro, tutto intento a riprendere quella galleria di cadaveri deambulanti.

Quello con gli occhiali continuò imperterrito: «Quella leggen­da… Nei giorni di nebbia, a coloro che sono chiamati alla via al­chemica nel Vicolo degli Alchimisti compare la Casa all’Ultima Lanterna, che sbarra la strada ai passanti, nella quale un alchimista invita l’eletto a entrare, per insegnargli i segreti dell’Arte Regia…».

«La conosco, la conosco…! Ma siamo a Milano, perdio… E, poi, tu a Praga nemmeno ci sei stato…»

Senza nemmeno essersene accorti, avevano percorso tutto il Naviglio.

«Ecco fatto!» esclamò soddisfatto. «Abbiamo talmente tanto materiale da riempire un’enciclopedia di psicologia criminale…» Non era cinico, ma gli piaceva sembrarlo. Per fare a pugni con la vita. Perché a trent’anni o sei così o sei uno sbirro mancato, o un marito fedele. Un invertebrato, ad ogni modo.

«Be’, che stiamo aspettando?! Andiamo da me a vedere il video e lavorare sugli scatti!»

Quello con gli occhiali annuì senza proferire parola e si mise dietro all’altro, verso casa. Attraversati i due isolati e la solita via, colma di ubriaconi e studenti, giunsero al portone. Cedette, stra­namente, solo dopo due tentativi con quella chiave che prima o poi avrebbero dovuto cambiare.

Tempo di percorrere le scale avvolte nel buio, aprire e chiudere la porta e ricaricare i bicchieri vuoti, i due furono davanti a un Mac fiammante.

* * *

Download. Atto primo: play.

Pochi rumori indistinti, un vociare sommesso. I volti scorrevano ebbri di se stessi, stravolti ma spinti da una forza ctonia attraverso la darsena, come se tutte le forze infernali si fossero date convegno per rianimare un esercito di morti viventi.

Primo scatto: faccia abbronzata sguardo assente capelli ordina­tamente spettinati. Trasudava alcool anche la sua immagine. Un sorriso mellifluo, presumibilmente rivolto alla preda della serata, estranea all’obiettivo ma di certo nei paraggi.

«Non male, per cominciare» sibilò il falso cinico, dando un’en­nesima sorsata a quello che doveva essere un rhum d’infimo livello.

Secondo scatto: barba perfettamente curata sguardo finto intel­lettuale serietà da servetta tradita dal padrone che gli ha preferito la sorella di qualche anno più giovane. Grottesco.

«Chissà da quanto non scopa» fu quello con gli occhiali a rom­pere il silenzio.

«Di sicuro da meno di noi due.» Un cinismo che non faceva una piega.

Terzo scatto: faccia pulita accuratamente abbigliato occhio az­zurro che guarda altrove spento mentre una signora la sua amante di vent’anni più grande lo ammira maliziosa contenta di mostrare la sua nuova fiamma alla commediola umana.

«Eccezionale…» sempre quello con gli occhiali. «Si direbbe stia pregustando l’esito della serata…»

«Lei o lui?» domandò maliziosamente il quattr’occhi.

«Entrambi. O nessuno dei due.» Lapidario.

Lo sguardo meccanico dell’apparecchio si destreggia tra la folla, inquadrando volti, soprabiti, braccia, risa e pianti, trapassa dram­mi e gioie, tradimenti non ancora confessati e silenzi imbarazzati colmi di aspettative, i sorrisi degli amanti che arrossiscono sor­prendendo un reciproco sguardo fugace e il ghigno di borghesi troppo borghesi ma non ancora aristocratici, sottoproletari non sufficientemente prolet e via dicendo.

Fu allora che il video s’arrestò per l’ennesima volta, a rivelare un volto umano in mezzo a quelle mille forme.

Quarto scatto: quarto scatto

Silenzio di tomba. Il padrone di casa impallidì, balbettò qualcosa di sconnesso. Vuotò d’un fiato il bicchiere, respirando affannosa­mente e tentando di distogliere lo sguardo dallo schermo. Invano.

A far capolino nel video era un ragazzo piuttosto giovane, magro come un chiodo, occhiali sottilissimi a sormontare due occhi scuri come la notte. Le sopracciglia pronunciate, attaccatura dei capelli bassa, pallidissimo, fissava lo schermo come se – lui solo – avesse smascherato tutta l’operazione. L’uomo della folla guardava i due con un sorriso beffardo, gli zigomi schiacciati da un ghigno che ne deturpava i lineamenti.

«Che succede?» chiese quello con gli occhiali, come riemergen­do da una lunga apnea.

L’altro era in uno stato di profonda eccitazione. Continuava a mandare avanti e indietro il video, cercando di carpire qualche particolare in più: «Guardalo…! Guardalo…! Viene verso di noi sogghignando, come se sapesse quel che stiamo facendo, come se si fosse accorto di tutto!».

Era vero. Quella figura, alta e snella, con addosso uno scialbo cappotto nero e camicia e giacca dello stesso colore, aveva scaglia­to un’occhiata d’intesa all’obiettivo, un’occhiata consapevole, e aveva preso a digrignare i denti, senza distogliere lo sguardo dalla telecamera. Come avesse saputo…

Incrociato lo sguardo dello sconosciuto avventore, anche quello con gli occhiali non poté trattenere un brivido, che gli corse lungo la schiena e lo costrinse a vuotare a sua volta il pessimo rhum con cui il padrone di casa l’aveva onorato.

Più per uscire da quella paralisi che per convinzione, ruppe gli indugi: «E anche se fosse?».

Il suo interlocutore era ormai in un’altra dimensione, incapace di emettere suoni che non fossero balbettii e imprecazioni.

Lo scosse violentemente. Nulla.

«D’accordo, ci ha scoperti. E con ciò…? Temi possa denunciarci? Che potrebbe accadere?!»

«Ma no, quale denuncia! Non capisci, non vuoi capire… Davve­ro non l’hai riconosciuto?»

Scosse la testa, risoluto: «Chi dovrei aver riconosciuto?».

«Ma…come! Non è possibile. Guardalo bene. Non può essere lui.»

Buio totale.

Il cinico esplose: «Dio mio, Mitsu, apri gli occhi. Quello è… è… Luca!».

«Cosa?!» Ebbe un’illuminazione improvvisa, che gli fece assa­porare per un istante lo stato delirante del suo amico. «Impossibi­le. Non può essere. Luca è scomparso due anni fa… è… morto…»

Si era suicidato, per la precisione, tre anni prima. Si era impiccato, trasformando una potenziale morte rapida e indolore in un’inces­sante agonia. Una faccenda di donne, insieme a un castello di men­zogne che infine aveva scricchiolato, facendo crollare una mente già pericolosamente vacillante. Non che i nostri due protagonisti se ne fossero curati più di tanto, al tempo: era parecchio stronzo. Ma quella scomparsa aveva lasciato un lieve senso di colpa nel gio­vane, che aveva addirittura fatto breccia nella cortina di cinismo di cui s’era ammantato. Era lì, sorridente di fronte allo schermo, che lo fissava beffardo, condannandolo a non poter distogliere lo sguardo. Una vendetta postuma?

Ad ogni modo, nonostante le somiglianze che pure fu costretto ad ammettere, quello con gli occhiali era scettico: «Com’è possi­bile? Sarà ovviamente un sosia». Tranquillizzò l’amico, o almeno ci provò, giocandosi la carta della comprensione.

Tutto inutile: senza ascoltare una parola di più, quello si pre­cipitò alla porta e si lanciò giù per le scale, facendo un baccano del demonio.

Fu solo in strada che i due si rincontrarono. Con il fermo im­magine sulla faccia di quell’individuo misterioso, il cinico aveva preso a interrogare i passanti, brandendo la fotocamera. «L’avete visto? Guardate bene questa faccia, questo sorriso…! Qualcuno do­vrà pure averlo incrociato…!»

«Non essere sciocco, ti prego!» mormorò seccato quello con gli occhiali, prendendolo per un braccio. «È passata più di un’ora, non può essere ancora qui…»

Se è per questo sono passati due anni…, si soprese a pensare. Ma non ebbe il coraggio di tradurre questo pensiero in parole. Vide profilarsi una forma oscura e minacciosa, come un edificio collo­cato al centro della via – al centro della via? – e capì di non poter procedere oltre. Si accasciò per terra, stremato, mentre l’amico si scusava imbarazzato con i passanti, accampando una presun­ta ubriachezza. Una lieve foschia saliva pian piano dal Naviglio, ingolfato di rifiuti e foglie secche.

* * *

Riaprì gli occhi a fatica. La luce vermiglia era tenue. Gli doleva il capo, come fosse reduce da una sbronza galattica. Abbozzò una richiesta d’aiuto, mentre l’amico entrava in camera da letto. Ma perché erano a casa di quello con gli occhiali, per giunta più lonta­na? Non si sentiva per nulla a suo agio. Nemmeno era sicuro la casa fosse proprio quella. Meglio non indagare per ora, si disse.

Scacciò questi pensieri e si concentrò sull’ambiente. Era una stanza adibita a camera oscura, nella quale l’amico sviluppava i suoi scatti. Cazzo di antimoderno…!, pensò. Alambicchi ovunque, un gran casino, prove di stampa e vecchi rullini abbandonati per terra, soluzioni chimiche e cartoncini colorati. Si era quasi scor­dato dell’accaduto, quando il suo sguardo si posò sulla maledetta macchina fotografica che aveva catturato un volto che mai avrebbe potuto essere , tra quella folla, in quel luogo. Prese a tremare.

L’amico si avvicinò: «Vuoi che chiami un’ambulanza?».

«No, per l’amor di Dio.» Ne aveva abbastanza di ospedali.

Lottando alla ricerca di un barlume di lucidità, voleva tro­vare una chiave che potesse sciogliere quel nodo. Fu allora che apparve ai suoi occhi quella che riteneva essere la soluzione al terribile dilemma.

«Mitsu, prima mi hai detto che la fotografia… Cioè, voglio dire, la fotografia fatta secondo le tecniche tradizionali…»

«…Restituisce l’anima delle cose» aggiunse l’altro.

«Esatto… Ora, vorrei chiederti: c’è modo di sviluppare in came­ra oscura quel video? Quel frammento?»

L’altro lo guardò esterrefatto: «Certo che no! Come potrei? Io lavoro con la pellicola, tu con dei file» aggiunse in tono quasi sprezzante.

«Se provassi a fotografare lo schermo del computer con il fermo immagine? Potresti sviluppare quello scatto…»

«Ma cosa speri di ottenere?!»

«Voglio vedere la sua anima, la dannatissima anima di quel che ho ripreso» blaterò confuso il cinico.

Una richiesta del tutto folle. Cui tuttavia acconsentì, collegando la macchina digitale al computer.

Il volto sogghignante apparve di nuovo, in tutta la sua diafana e oscura presenza.

Si accorse solo in quel momento dei tre nei disposti a triangolo sulla guancia dell’uomo della folla che faceva capolino nel fermo immagine. Assai simili a quelli dell’amico suicidatosi tre anni prima… Eppure… c’era qualcosa di sbagliato. Erano sotto lo zigomo sinistro. Decise di tenere per sé la scoperta, per non affastellare altri elementi surreali in una mente già abbastanza sconvolta.

* * *

L’obbiettivo si chiuse con uno scatto secco, cristallizzando su pellicola l’origine di quella follia.

Erano ormai le tre passate. La luce rossa, ancora più tenue, inon­dava di un’atmosfera irreale la piccola stanzetta ove quell’appren­dista stregone aveva appena iniziato ad impressionare la pellicola fotografica. Un risciacquo chimico ogni minuto.

«Rimani a letto, il procedimento è piuttosto lungo» mormorò il giovane fotografo, armeggiando con composti e carte fotografiche e descrivendo inusuali movimenti con le braccia, come stesse ese­guendo un bizzarro rituale più che un procedimento tecnico. «Si può sapere cosa cerchi di scoprire?! Devo dirtelo, il tuo comporta­mento comincia a preoccuparmi» aggiunse meccanicamente. La sua voce pareva giungere da un’altra dimensione, da sconosciute profondità siderali: «Forse ho sbagliato a non chiamare nessuno, prima. Avrei dovuto fare di testa mia. Come sempre».

Colpito dall’improvvisa freddezza del padrone di casa, si mise a sedere. Non aveva che una preoccupazione: vedere l’immagine sviluppata. Era convinto che avrebbe rivelato la verità. Comun­que fossero andate le cose, si disse, mai più avrebbe maneggiato una diavoleria del genere.

Era trascorsa quasi mezz’ora quando si avvicinò al tavolo su cui era stesa, immersa in un liquido chiaro, la famigerata fotografia. In quel liquido amniotico lievemente increspato la cellulosa sve­lava pian piano lineamenti e contorni, mentre la luce – ora miste­riosamente biancastra – non cessava di accarezzarne la superficie. Dio mio, sta avvelenando i raggi della Luna!, si scoprì a pensare, ma non diede seguito a questa intuizione.

Come un alchimista, quello con gli occhiali aggiungeva liqui­di, mescendo e distillando, annacquando e lasciando decantare, mentre, evocata da profondità che mai avrebbe immaginato così insondabili, prendeva forma qualcosa: un profilo, due occhi.

Non fu quello che vide emergere dalle acque a fargli perdere i sensi e nemmeno la velocità con cui tutto ciò accadde e neppure la comprensione fulminea di trovarsi in un luogo che – ora ne era certo – non era la casa dell’amico. No, non fu tutto questo a farlo impazzire, ma quanto ebbe luogo dopo, la metamorfosi subita­nea, uno sconvolgimento mentale che l’avrebbe per sempre preci­pitato in uno stato noto solo ai lunatici e ai folli.

Sbarrò gli occhi al baluginio della lampada, senza staccarsi dalla fotografia, che ormai rivelava chiaramente un’immagine. Un’im­magine tanto improbabile quanto terribilmente inequivocabile.

«Sono io» riuscì solo a balbettare, fissando il proprio volto ac­carezzato dalle sottili increspature della superficie liquida. «Sono io.» Ripeté la filastrocca, incapace di sostituire un qualsivoglia pensiero di senso compiuto a quel mantra, semplice quanto spa­ventoso. «Sono io… con un cappio al collo!»

Il suo cervello fu percorso da una scarica elettrica, mentre un suono basso e continuo, simile alle frequenze di una radio, prese a ronzargli nelle orecchie, annacquandogli la vista e intasando la sua mente, esausta.

Si voltò con la bocca schiumante verso l’amico, e quel che i suoi occhi registrarono gli gelò il sangue nelle vene. Il viso trionfante del suicida orrendamente impresso su quello dell’Alchimista fu l’ultima cosa che vide, prima di crollare a terra in preda alle con­vulsioni. Fuori dalla Casa all’Ultima Lanterna la nebbia non ces­sava di annegare una notte priva di Luna, sotto un cielo spietato.

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