"La chance". Caino e Abele tra Europa e Stati Uniti

Claudio Bartolini
Aldo Lado n. 9/2019

Sono gli anni in cui la P.A.C. (Produzioni Atlas Consorziate), a un passo dalla chiusura, tenta gli ultimi colpi di coda commissionando action movie a getto continuo da destinare al mercato estero. Ad Aldo Lado toccano in rapida successione Alibi perfetto (1992), l’inedito Dark Friday (1993) e questo La chance che il regista – ancora scottato dall’esito sconcertante dello spy-giallo del ’92 – accetta a patto di poter intervenire sul copione. I produttori non oppongono resistenza, così Lado – anche executive producer e montatore non accreditato – recupera il vecchio trattamento Caino contro Caino, mai realizzato e imperniato sulla storia di due fratelli schierati sugli opposti fronti di celerini e operai durante la rivolta giovanile del ’681. I tempi sono cambiati, così la variazione sul tema di Caino e Abele viene traslata nella contemporaneità anni Novanta, con la rivalità fratricida tra i Licata a rappresentare in scala ridotta quella tra le multinazionali in cui operano: da una parte Nicola, gangster di estrazione mafiosa trapiantato dalla natìa Acireale in quel di Boston per lavorare al soldo della criminale Hudson Export Company; dall’altra Antonio, incorruttibile luminare della ricerca scientifica migrato in gioventù sulle sponde del Tamigi. Si gira in inglese con il titolo Power and Lovers, attori reclutati a Londra da Lado in persona e un iniziale piano di lavorazione che prevede meno di sei settimane di riprese tra Boston, location siciliane e interni romani. Tuttavia, a pochi giorni dal primo ciak il produttore Piero Bregni impone la riduzione a quattro settimane di shooting: la lavorazione del film diventa un tour de force geografico (da Roma a Greenwich [Londra], da Cerveteri ad Acireale, da Riposto [Catania] a Boston) e professionale, ma regista e troupe incassano bene il colpo e confezionano un prodotto ben più solido e incalzante rispetto alla media delle coeve produzioni P.A.C.

Parte del merito è certamente da attribuire alla colonna sonora composta da Pino Donaggio, che distilla una partitura capace di donare spessore anche ai momenti in cui le performance in overacting di Vincent Ricotta e Stephen Dillane rischierebbero di compromettere la tenuta drammatica. Ma è dalla confluenza di filoni e linguaggi che il film trae costante linfa vitale, rilanciando di continuo sul livello narrativo e, di conseguenza, registico. Se la tragedia dei fratelli costituisce la cornice del racconto, sono infatti i generi pulp a fornire contenuto e variazioni sul tema. Le direttrici spionistiche – fornite dai traffici di denaro e segreti industriali, dai giochi di potere tra le multinazionali e dai continui cambiamenti di scenario su base internazionale – intersecano quelle a stampo mafioso (la faida familiare in Sicilia, l’ingresso di Cosa Nostra negli affari statunitensi, il sicario Michele interpretato con faccia giusta da Franco Citti), mentre in sottofondo scorre sinuoso un eros che si fa contrappunto delle differenze tra i fratelli: mentre Nicola seduce l’affascinante donna di potere Grace Warren, Antonio vive un’intensa e romantica storia d’amore con la collega Emily Kemp. Nel primo caso la macchina da presa confeziona un erotismo disinibito, aggressivo, esplorando in primo piano i lembi proibiti di una Daisy White generosamente esposta in nudi integrali. Nell’intenso amplesso in piscina e in quello selvaggio sul tavolo da biliardo di villa Warren il quoziente ormonale sovrasta quello sentimentale, e allo spettatore vengono somministrate pillole di lascivo softcore. Viceversa, nel rapporto tra Antonio ed Emily le lenzuola coprono l’eccesso, lasciando soltanto intuire quel che dolcemente avviene a letto.

Grazie a questa felice confluenza di toni e registri passa in secondo piano l’esiguità della componente di puro action, fortemente limitata da un budget che non consente sperperi in inseguimenti, esplosioni o sparatorie.

A ritmare ulteriormente la pellicola, poi, pensa Lado in moviola, affidando all’editing un ruolo decisivo in termini drammaturgici. Il montaggio alternato che scandisce la narrazione – seguendo in parallelo le vicende dei Licata in differenti luoghi del mondo, dapprima sull’asse Acireale-Londra, quindi su quella Boston-Londra – viene spezzato dagli incontri decisivi tra i fratelli, che rappresentano gli snodi critici di una sceneggiatura dalla struttura matematica. I momenti-chiave sono tre: il prologo siciliano, con lo sgozzamento di Salvatore (interpretato dal caratterista sardo Sandro Ghiani) osservato da Nicola e Antonio, rappresenta il primo contatto con la morte; il ritorno ad Acireale per i funerali della madre segna il divampare del conflitto, con i fratelli che si scontrano – anche fisicamente – su princìpi, donne (Emily passa una notte con Nicola) e lavoro; l’incontro londinese, quando il gangster propone al ricercatore di unirsi a lui, con conseguente rifiuto, comporta infine la presa di coscienza di Nicola, che bacia il fratello e decide di sostituirsi a lui andando incontro alla morte, per mano del sicario Michele inviato – questa volta – direttamente dai dirigenti della multinazionale.

La famiglia, il legame di sangue, il sacrificio: l’autore lavora sugli archetipi del dramma, delineando altresì personaggi-icone che rasentano lo stereotipo. Il buono inflessibile è contrapposto al cattivo dall’animo gentile in modo piuttosto manicheo, la rossa femme fatale Grace – variazione della Moira Basset descritta da Lado in Una stella per Kinney Stanton2 – è lo specchio fin troppo scuro dell’ingenua e nobile Emily, mentre si accumulano frasi-slogan consegnate a personaggi sempre uguali a loro stessi («Credo che sia tardi per cambiare la mia vita, signora Warren. E presto per entrare nella sua», sentenzia Nicola in modalità tough guy). Non c’è spazio per troppe sfumature, insomma, in un genere e in un periodo in cui è l’immediatezza di stampo televisivo a prendere il sopravvento sulla profondità di struttura.

Ciò che conta, però, a conti fatti è la fluidità con cui La chance scorre su schermo. Una fluidità dal timbo americano, non certo europeo, che Lado incorpora e restituisce con l’acume e la ricettività proprie del suo essere aperto al continuo aggiornamento del modus operandi cinematografico. Peccato che, al termine delle riprese, decida di prendere le distanze dal mondo audiovisivo, sempre più asfittico e avaro nei confronti di chi, come lui, gli ha dato tanto ricevendo molto meno in cambio.

Note

1 Per approfondire, si rimanda a Lado Aldo, I film che non vedrete mai, Edizioni Angera Films, Angera 2017, pp. 34-35.

2 Il western crepuscolare Una stella per Kinney Stanton fu scritto da Lado sul finire degli anni Sessanta, ma restò un progetto irrealizzato. Il trattamento è stato pubblicato in Lado Aldo, I film che non vedrete mai, pp. 17-34.

 

 

CAST & CREDITS

Regia: Aldo Lado; soggetto: Domenico Paolella, Teodoro Agrimi; sceneggiatura: Aldo Lado, Salvatore Pareti, Julian Kemp (dialoghi addizionali); fotografia: Felice De Maria; scenografia: Marta Zani; costumi: Beatrice Bordone; montaggio: Aldo Lado (non accreditato); musiche: Pino Donaggio; interpreti: Vincent Ricotta (Nicola Licata, come Vincenzo Ricotta), Stephen Dillane (Antonio Licata), Julian Glover (Matthew Cage), Jemma Redgrave (Emily Kemp), Franco Citti (Michele), Daisy White (Grace Warren), Renato Mori (Turi), Tony Lo Bianco (Warren); produzione: Produzioni Atlas Consorziate; origine: Italia, 1994; durata: 88’; home video: dvd Flamingo Video, Blu-ray inedito; colonna sonora: inedita.

 

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