Ouija. Le origini del male. Guida per giocare con l’aldilà

Luigi Coluccio
Mike Flanagan n. 16/2023

Come si pronuncia ouija? Be’, dipende a quale storia si vuole credere – e qui ce ne sono diverse: “wee-gee”/“wee-juh” in inglese, o nella versione tradizionalista leggendolo come l’unione del termine “sì” in francese e tedesco – “oui” e “ja” appunto.
Tutto inizia nel luogo in cui è meno presente lo spirito del mondo: un ufficio statale. Il 10 febbraio 1891, infatti, viene presentata domanda all’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti per un nuovo deposito intellettuale, cioè la «Ouija o tavola della fortuna egiziana, con l’intento di produrre un gioco con il quale due o più persone possano intrattenersi ponendo domande di ogni tipo e avendo risposte dall’oggetto in questione, usato e attivato dal tocco della mano, in modo che le risposte vengano composte tramite le lettere sulla tavola». Così riporta il documento numero 446.054 a firma dell’avvocato Elijah Bond, rappresentante e investitore della Kennard Novelty Company di Baltimora, l’azienda fondata l’anno prima da Charles Kennard e dal colonnello Washington Bowie proprio con l’intento di commercializzare il gioco da tavolo. La registrazione del brevetto, però, prevedeva anche una dimostrazione della sua efficacia, e qui entra – letteralmente – in scena Helen Peters, cognata di Bond, appartenente alla buona società dell’epoca e medium riconosciuta. Peters, presente anche lei nell’ufficio, provò l’efficacia della loro invenzione indovinando il nome dell’impiegato addetto al protocollo, facendogli quasi prendere un colpo ma ottenendo in un attimo la patente richiesta (nessun direttore dell’epoca si prese la briga di indagare se l’avvocato Bond, che aveva più volte registrato diversi brevetti, conoscesse in anticipo le generalità dell’impiegato…). Il boom di vendite della tavola ouija della Kennard Company fu immediato, tanto da arrivare a circa 2.000 esemplari la settimana e già nel 1892 permettere l’apertura di un’altra fabbrica a Baltimora, due a New York e Chicago, una perfino a Londra. Nel corso degli anni la società verrà rilevata da William Fuld, prima operaio, poi direttore e infine detentore del brevetto, il quale nel 1927 morirà cadendo dal tetto di una fabbrica che la stessa tavola gli aveva detto di costruire…
Da dove deriva ouija? Qualche tempo prima del momento risolutore nell’Ufficio Brevetti, Kennard, Bond e Peters si stavano dilettando a sperimentare il loro nuovo prodotto, quando, ancora sprovvisti di un nome per commercializzarlo, chiesero direttamente alla tavola come volesse essere chiamata. La parola che si formò fu, naturalmente, “ouija”. Domandando cosa significasse, sempre la tavola rispose “buona fortuna”. Ma c’è un twist – l’ennesimo di tanti. Durante la seduta Helen Peters indossava un ciondolo con su scritto la parola “Ouida”, pseudonimo letterario di Maria Louise Ramé, famosa scrittrice inglese della seconda metà dell’Ottocento, autrice di romanzi, libri per bambini e poesie, vera e propria stella polare per le donne colte e indipendenti dell’epoca come Helen Peters. Ouija sarebbe quindi una storpiatura di Ouida, e così una storia fatta di inganni, pronunce sbagliate e contatti con l’aldilà (e l’aldiquà burocratico) trova la sua giusta chiusura. Forse.
Una tavola di legno con su inciso l’alfabeto, i numeri da 0 a 9, le parole “yes”, “no” e “goodbye”, una planchette: la ouija board non è soltanto un prodotto del mercato dell’epoca, ma anche e soprattutto della società del tempo. Da inizio Ottocento in poi, prima nel Vecchio e poi nel Nuovo Continente, si assiste infatti a un profondo rinnovamento religioso che investe le strutture ecclesiastiche arrivando perfino a sovvertire la loro funzione sociale. Il protestantesimo anglicano e calvinista viene rivoltato a partire dalle esperienze mennonite e barnabite nella Londra multiforme e tentacolare dell’epoca, una spinta radicale che si srotola fino all’altro capo dell’oceano, attraccando a Boston e New York, risalendo la vecchia pista commerciale Mohawk e letteralmente divampando nell’ovest boscoso e acquitrinoso – il Burned Over District – così verrà chiamata la regione orientale dello stato di New York. Qui il riformismo religioso porterà alla fioritura di innumerevoli movimenti, predicazioni, revivalismi, dai Milleriti agli Avventisti del Settimo Giorno, dai Mormoni agli Shaker, dalla comunità di Oneida a quella della Sylvania Phalanx. Questo Secondo Grande Risveglio prenderà poi una piega ancora più universale quando le sorelle Fox, Kate e Maggie, nel 1848 rivelano di parlare con uno spirito chiamato Mr. Piede Caprino, che le contatta tramite colpi sul muro della loro casa – dove? Hydesville, New York… Dal non accettare l’autorità dell’arcivescovo di Canterbury al credere che i defunti possano mettersi in contatto con noi è un percorso che sta sulla stessa linea di fede, e la porta aperta dalle Fox fa intravedere squarci non solo nel fervore religioso dell’epoca, ma anche tra le fila della scienza e della tecnica. La gente dell’epoca vuole credere oltre agli stretti dettami puritani, vuole mettersi in contatto con le centinaia di migliaia di familiari scomparsi nel massacro della Guerra Civile americana, e per farlo presenzia alle sedute spiritiche collettive delle Fox, affolla il negozio di William Mumler a Boston per farsi fare foto dove appaiono i fantasmi dei loro cari, sistema in bella vista al centro del salotto la tavola ouija appena comprata e invita amici e parenti per giocare con l’aldilà. Lo Spiritualismo, il movimento religioso che emerge dalla pratica dello Spiritismo, in un mondo che continua a essere sconvolto dalla febbre spagnola e la Prima guerra mondiale, arriva ad avere qualcosa come 8 milioni di adepti solo negli Stati Uniti, e così in Russia Mendeleev viene messo a capo di una commissione d’inchiesta della Società di Fisica per indagare su questi fenomeni e in Occidente la rivista Scientific American indice un concorso per trovare e validare un vero medium – con il supporto per la parte incorporea di Conan Doyle e per quella materiale di Houdini…
Flanagan tutto questo lo sa, a Flanagan tutto questo piace.
Nel 2012 la Universal chiama Jason Blum a fare quello che sa fare meglio: risolvere problemi (di budget). La major vuole trasformare una sceneggiatura ad alto impegno economico di Edward Kitsis e Adam Horowitz in un film a basso costo, e dopo aver imbarcato Stiles White e Juliet Snowden per riscrivere lo script tocca a Blum prendere in mano il progetto e farlo arrivare in sala. Ouija esce due anni dopo ed è l’ennesimo successo commerciale per la Blumhouse, tanto che il Google Commerce Blog riporta che le ricerche online per i regali di Natale hanno visto un boom del 300% del termine ouija board. Un contributo nascosto – e forse più di un contributo – al film lo dà Mike Flanagan, chiamato proprio da Blum a rigirare quasi il 50% del film, visto l’esito poco soddisfacente del lavoro dell’esordiente White (a cui era stata data la regia). Flanagan in quel momento è un autore quasi conosciuto più agli addetti ai lavori che al grande pubblico, visto che Somnia (2016) il suo terzo film, non vede la luce prima di tre anni a causa di problemi economici della fallimentare Relativity Media, e il successivo Il terrore del silenzio sta iniziando proprio il quel momento la fase di scrittura. Così Flanagan ha sia il tempo sia la necessità di lavorare, e dopo la sessione di reshoot lui e Blum iniziano a buttare le basi per il prequel, che uscirà sempre nel 2016 come Ouija. Le origini del male. Il lavoro fatto da Flanagan è quello che Flanagan di solito: prendere una storia ed espanderla in tutte le direzioni possibili, facendo emergere altre vicende, altri percorsi, altre narrazioni. Con Ouija il nostro raggiunge il massimo grado della riscrittura e della copia, ispessendo e togliendo, tranciando e cesellando.
Del primo film di White prende lo scheletro ma rigetta completamente la confezione, accetta ogni indicazione fornita dalla storia principale e allo stesso tempo ne riscrive le premesse – e quindi gli esiti. Riesce insomma ad andare indietro come di lato, recuperando intere sequenze (lo specchio, la bambola, il bagno, l’impiccagione, «Hi friend») ma rendendole puri simulacri, spingendo sempre più vicino e sempre più lontano la vicenda del film del 2014.
E qui si vede il grande lavoro dell’autore Flanagan (affiancato dalla penna del sodale Jeff Howard) che come su un palinsesto medievale riusa e ricrea una materia che conosce in profondità. La pellicola di White parlava di una casa infestata dagli spiriti di una madre e di sua figlia richiamati dall’aldilà con una tavola ouija; il seguito del regista di Salem (Flanagan è nato lì) affronta direttamente la storia di quella casa e di quella famiglia, ambientando il tutto nel fatidico 1967 – l’anno del Monterey Pop Festival e della Summer of Love di San Francisco, ma anche l’anno in cui la Parker Brothers immette in commercio una rinnovata tavola ouija dopo aver assorbito la Kennard Novelty Company l’anno prima, con un tale successo da superare perfino le vendite del Monopoli (e proprio nel film c’è un fotogramma che vede tavola ouija e Monopoli l’uno accanto all’altra su uno scaffale… Ah, dove ha sede la Parker Brothers? A Salem, naturalmente). Il 1967 è, anche, l’anno del primo lancio con astronauti del Programma Apollo, subito trasformatosi in tragedia con l’incidente dell’Apollo 1, e la Doris Zander del film (Lulu Wilson), posseduta da una delle entità della casa, passa diverso tempo davanti alla tv guardando proprio le notizie sulla corsa allo spazio (mentre in un’occasione si addormenta davanti a un vecchio episodio di Alfred Hitchcock Presenta, La sorella maggiore, sul famoso e reale caso di Lizzie Borden, che a fine Ottocento uccise a colpi d’ascia i genitori). Flanagan cerca di tenere assieme questi due spicchi, da una parte l’accettazione del sovrannaturale di Doris e della madre Alice (Elizabeth Reaser), che a sua volta aveva una madre spiritista, magari prendendo parte al rinnovamento religioso di inizio secolo; e dall’altra la razionalità dell’altra figlia Lina (Annalise Basso), che fin dall’inizio cavalca la corrente realista e materialista, ben conscia che dietro la maggior parte delle manifestazioni ultraterrene si cela il guadagno dei vivi. Nel mezzo c’è la figura di Padre Tom (Henry Thomas), sacerdote che ha perso la moglie e indossato il colletto, tentato da una possibile attrazione fatale con Alice e che perfino nella religione predica il raziocinio, ancorché di fede – non a caso cita la prima lettera di Giovanni, «Carissimi, non prestate fede a ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo».
Il grande lavoro fatto sull’immagine da Flanagan e dal direttore della fotografia (l’habitué Michael Fimognari) – teso non solo a ricreare un setting anni Sessanta fatto di zoom, graffi sulla pellicola, split diopter e cambi di rulli – ma a immergere il film in una sorta di filtro onirico, trascina la storia della famiglia Zander sul versante più immaginifico e irreale, eppure come in ogni prodotto dell’autore di Salem c’è sempre – ancora – dell’altro. Perché il male sgorgato fuori dalla tavola ouija è sì qualcosa che sta al di là, ma è anche la trasfigurazione ultima del più grande male che sia avvenuto al di qua: il nazismo e i campi di concentramento.
Ouija 2014 viene rimpicciolito ancora di più da Ouija 2016 proprio in questo rilancio di scala del dolore, di orrore, saldando una piccola vicenda privata come l’impiccagione di una ragazza nel 2014 con la distruzione della famiglia Zander nel 1967, e questa con l’Olocausto della Seconda guerra mondiale. Forse, come scriveva Borges nel suo Annotazione del 23 agosto 1944, non è possibile il male assoluto – l’uomo e la storia crollerebbero su loro stessi – ma le sue più grandi approssimazioni possono lasciare un segno che va oltre il tempo e lo spazio, rinnovandosi ciclicamente, in una spirale senza fine che unisce il reale e l’irreale, lo Spiritualismo dei boschi di New York con la psichedelia sixties, una casa infestata e una covata di anime senza pace.

CAST & CREDITS
Regia: Mike Flanagan; soggetto: Juliet Snowden, Stiles White (basato sui personaggi creati da); sceneggiatura: Mike Flanagan, Jeff Howard; fotografia: Michael Fimognari; scenografia: Patricio M. Farrell; costumi: Lynn Falconer; montaggio: Mike Flanagan; musiche: The Newton Brothers; interpreti: Annaline Basso (Lina Zander), Elizabeth Reaser (Alice Zander), Lulu Wilson (Doris Zander), Henry Thomas (Padre Tom), Parker Mack (Mikey), Halle Charlton (Ellie); produzione: Platinum Dunes, Blumhouse, Allspark Pictures, Dentsu; origine: USA, 2016; durata: 99 minuti; home video: edizione ITA blu – ray/dvd, Universal.

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