Oltre i kinghianismi, l’amore. Influenze e compenetrazioni kinghiane nel cinema di Mike Flanagan

Giacomo Calzoni
Mike Flanagan n. 16/2023

Se il rapporto tra Stephen King e il cinema è un oggetto di analisi e di studio che prosegue ininterrottamente sin dai tempi dell’uscita in sala di Carrie. Lo sguardo di Satana (1976), nondimeno la conclusione non può che essere univoca e slegata da qualsiasi fraintendimento critico. Perché «la pagina kinghiana è incedibile, inavvicinabile, sovranista»1 e qualsiasi opera dello scrittore americano «è già un film […] fatto di scene, di montaggio, di fotografia. Fatto di immagini»2. Ne consegue pertanto che l’unica strada percorribile sia quella della manomissione, intesa a subordinare il nome in copertina alla sensibilità del singolo autore, chiamato di volta in volta a mettere in scena un tradimento necessario affinché le immagini sullo schermo riescano a prendere vita.
Ecco perché non esiste un cinema che possa definirsi “kinghiano” senza alcuna forma di distinguo, in ogni caso non nella concezione che molti vorrebbero attribuirgli. Così come non ha molto senso concedere a cuor leggero la patente di kinghiano a qualsiasi autore che abbia incrociato il proprio cammino con questi universi, indipendentemente che si sia trattato di un caso isolato o di una collaborazione duratura. Non è kinghiano Carpenter (Christine. La macchina infernale [1983]), per esempio, né tantomeno Cronenberg (La zona morta [1983]), e neppure Romero (Creepshow [1982], La metà oscura [1993]), registi che hanno assorbito temi e caratteri della scrittura di King per assecondare un percorso personale legato a doppio filo da inevitabili esigenze commerciali. Non lo è stato nemmeno Mick Garris, appassionato anfitrione del genere (è lui la mente dietro il progetto televisivo Masters of Horror) ma modesto – per non dire mediocre – mestierante che nel tempo si è guadagnato la fama di yes man prediletto al servizio del King produttore e sceneggiatore, mettendo la propria firma in calce a progetti che quasi sempre hanno incontrato gli entusiasmi dello scrittore in virtù della loro fedeltà assoluta alla pagina scritta (basti pensare alle miniserie televisive Shining e L’ombra dello scorpione).
Se c’è un nome che, prima di Mike Flanagan, ha contribuito non poco a mettere in atto una sorta di identificazione totale tra oggetto (romanzo) e sguardo, è certamente quello di Frank Darabont, che a partire da Le ali della libertà (1994) ha fatto propria la lezione di Rob Reiner (Stand by Me. Ricordo di un’estate [1986], Misery non deve morire [1990]) nel traghettare il nome di King al di fuori dei più stretti confini di genere, fino a portarlo addirittura sul palco degli Oscar (le quattro nomination per Il miglio verde [1999], inclusa quella come miglior film). Quindi si può definire Darabont un regista kinghiano? Si può, nella misura in cui mette il proprio mestiere al servizio della fonte letteraria rendendosi quasi invisibile e «senza nessuna sovrapposizione di registri, nessun intento dimostrativo, nessuna esibizione gratuita»3, inserendosi perfettamente all’interno della tradizione di quel cinema hollywoodiano degli anni Novanta capace di coniugare il respiro narrativo con le esigenze dello spettacolo.
Quando Flanagan approda a King, però, il contesto storico è radicalmente cambiato: l’apatia di forme e contenuti che aveva caratterizzato l’horror americano (e non solo) di fine millennio è stata soppiantata da una vera e propria new wave del genere, grazie anche a una giovane generazione di registi capaci tanto di intercettare le richieste di un mercato in continua evoluzione (remake e libere interpretazioni dei classici si sprecano) quanto di proporre uno sguardo rinnovato e consapevole sulla complessità del mondo contemporaneo. E Flanagan è appunto uno di questi, sin dall’esordio con Absentia (2011).
Divenuto immediatamente uno dei principali nomi da tenere d’occhio per il futuro grazie ai notevoli Oculus. Il riflesso del male (2013) e Hush (2016), per i quali ha potuto contare sul supporto non indifferente del produttore (e Re Mida) Jason Blum, il regista di Salem accetta la sfida di confrontarsi con King adattando uno dei suoi romanzi meno cinematografici e più ardui da portare sullo schermo, ambientato quasi interamente dentro una stanza e con una protagonista ammanettata al letto davanti al cadavere del marito. Distribuito sulla piattaforma Netflix nel 2017, Il gioco di Gerald è una scommessa vinta su tutti i fronti, e non è un caso che sia proprio grazie a King che Flanagan, il cui nome esce dal ghetto degli appassionati, può ora vantarsi dell’appellativo di autore a tutti gli effetti. È a partire da questo film che comincia infatti il periodo più maturo del regista, che trova nello scrittore del Maine il bacino ideale di storie attraverso le quali affermare la complessità del proprio pensiero e allo stesso tempo dimostrare una personalità a tutto tondo nell’affrontare il concetto stesso di adattamento (basti pensare alla risoluzione di alcuni snodi narrativi considerati impossibili, o ancora alla scelta – notevole – di inserire nel racconto alcuni elementi presi di petto da Cujo e Dolores Claiborne).
Raccontare King per raccontare sé stesso, quindi: ecco come grazie a Flanagan il concetto di regista kinghiano assume un significato nuovo. Significa portarlo nel cuore e trasformarlo in oggetto del desiderio, ricambiati. Come in una storia d’amore. Significa riconoscere il ruolo svolto nel proprio vissuto da quelle parole e quelle pagine, e accettare che, sì, è anche grazie a esse se oggi siamo quello che siamo. Come capita a chiunque di noi.
Lo stesso accade con il successivo Doctor Sleep (2019), in cui l’asticella dell’ambizione viene spostata a un livello se possibile ancora più alto, perché stavolta c’è di mezzo Stanley Kubrick e il suo Shining (1980), con tutto quel che ne consegue. Come dare un seguito alle vicende di Danny Torrance, alla luccicanza e all’Overlook Hotel senza venire tacciati di lesa maestà? In questa ennesima sfida vinta (nonostante la tiepida accoglienza sia da parte del pubblico sia da buona parte della critica), che si pone l’obiettivo nientemeno di fare da ponte tra l’immaginario letterario del libro e quello iconografico del film – notoriamente e pubblicamente schifato da King a più riprese – Flanagan sfrutta a proprio vantaggio tutte le principali debolezze di uno tra i romanzi meno indimenticabili dello scrittore, per sfoggiare un romanticismo sfrontato e fuori dal comune. Quasi una prosecuzione del suo lavoro immediatamente precedente, la seria tv Hill House, in cui già i fantasmi si trasformavano in memoria privata e collettiva: anche qui, i personaggi di King sono lo strumento per parlare di amore, e quindi di morte, e viceversa. Un film incentrato sul concetto di volo (quello compiuto dai villain del Nodo per attraversare l’America in cerca di nuove vittime) inteso come distanza e movimento, un perpetuo avvicinamento e allontanamento tra due estremi che è esattamente ciò che mette in atto Flanagan con King: lo insegue, lo bracca, lo trova e se ne allontana, soltanto per poi avvinghiarlo nuovamente. Un’attrazione che non risponde a nessuna regola precostituita che non sia quella della libera contaminazione reciproca e che avrebbe dovuto avere un seguito con un terzo progetto ad oggi purtroppo non ancora realizzato, Revival, da una delle migliori opere dello scrittore degli ultimi anni. Ma Il gioco di Gerald e Doctor Sleep hanno ormai segnato indelebilmente la poetica di Flanagan, e la successiva Midnight Mass ne è la dimostrazione: da un soggetto originale dello stesso regista (nonostante l’omonimia del tutto casuale con un romanzo di Robert McCammon), la serie tv prodotta da Netflix nel 2021 porta alle estreme conseguenze il rapporto di compenetrazione tra i due rivelando una volta per tutte la vera, intima natura kinghiana del suo autore, che nel primo episodio è abilissimo nel confondere lo spettatore con alcune suggestioni che sembrano prese di petto dallo scrittore (l’attesa per l’arrivo della tempesta, esplicito rimando a La tempesta del secolo) salvo poi intraprendere una strada completamente differente. Ma questo racconto di una comunità isolata dal resto del mondo e alle prese con un male ancestrale che reclama sangue, la sua dimensione corale, il tema del sacrificio, i fantasmi del passato e l’umanità profonda di tutti i personaggi non sono altro che la compiuta e definita appropriazione di un universo da parte di un regista che, oltre i “kinghianismi” e le etichette, ha capito come nessun altro prima di lui che, prima di accettare King, bisogna innanzitutto accettare sé stessi.

Note

1-2 Bocchi Pier Maria, King, kinghiani e kinghianismi. Quando l’autore scippa (fortunatamente) l’autore, in Calzoni Giacomo (a cura di), Stephen King. Dal libro allo schermo, minimum fax, Roma 2020, p. 6.
3 Lazzarotto Muratori Marco, Ordinario/straordinario. Penombra e luccicanza nelle opere mainstream degli anni Novanta, in Calzoni Giacomo (a cura di), op. cit., p. 122.

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