Ioan Petru Culianu: un’amicizia e alcuni non-incontri

Andrei Plesu
Il paradosso romeno – Eliade, Cioran e la «giovane generazione» n. 7/2014
Ioan Petru Culianu: un’amicizia e alcuni non-incontri

Ioan Petru Culianu (Iași, 1950-Chicago 1991), storico delle religioni, pensatore e scrittore romeno, dopo una laurea sul Rinascimento italiano conseguita all’Università di Bucarest, nel 1972 ottiene una borsa di studio in Italia, dove gli viene concesso l’asilo politico a causa della dittatura di N. Ceaușescu. Si stabilisce a Milano, dove si specializza in Storia delle religioni con Ugo Bianchi. Dal 1976 è docente di Romenistica presso l’Università di Groningen, in Olanda. Nel 1986 viene chiamato all’Università di Chicago, dove insegnerà fino alla fatidica data del 21 maggio 1991, quando verrà brutalmente assassinato per motivi e da esecutori tuttora ignoti. Discepolo e collaboratore di Mircea Eliade, Culianu si distinse per l’audacia delle teorie e il nonconformismo accademico, nonché per il suo costante interesse per la magia. Tra i suoi saggi: Iter in silvis. Saggi scelti sulla gnosi e altri studi (Messina, 1981), Esperienze dell’estasi dall’ellenismo al Medioevo (Roma-Bari, 1989), Eros e magia nel Rinascimento (Torino, 2006) e I viaggi dell’anima: sogni, visioni, estasi (Milano, 1994).

 

Horia Corneliu Cicortaș

 

***

 

Quando ci conoscemmo, Néné Culianu era al penultimo anno di università e io al primo dopo la laurea. Come mi fu chiaro sin dal principio, il mio giovane amico era più maturo di me: a contraddistinguerlo erano una formazione solida, una disciplina interiore incorruttibile e una vocazione ormai salda. Allo stesso tempo sembrava timido, quasi schivo. Ci univano alcune domande “assolute” (cioè poste in modo definitivo, à la russe) sull’Assoluto. Come dire, brancolavamo nello stesso mistero… Quanto a me, ero stupito dalle sue letture e da certe sue doti che avevano palesemente il segno del fenomenale. Lavorava con rapidità e intensità, con una capacità di concentrazione che si poteva mantenere alta, senza interruzione, per giorni e notti. Per un certo periodo, mi capitò di alloggiare nella sua stanza in via Turda a Bucarest, la quale era di una completa precarietà: priva di riscaldamento in pieno inverno, con un solo letto occupato totalmente da libri (sicché dormivamo per terra) e senza le comodità fondamentali di una casa minimamente governata. Néné aveva l’aria di non mangiare mai; talvolta, lo potevi sorprendere a bere un po’ di latte e miele. Una notte, lo vidi seduto nella posizione del “loto” davanti alla macchina da scrivere, per ultimare la sua tesi di laurea: un testo su Giordano Bruno, scritto di getto, direttamente in italiano, a tempo di record. Ciononostante, era molto ospitale. Io e la mia fidanzata dell’epoca ci sentivamo protetti dalle sue cure come da quelle di un fratello maggiore, anche se in realtà gli “anziani” eravamo noi.

La sua partenza definitiva mi ha toccato, ma non sorpreso. Ho sempre sentito che apparteneva a un altro contesto, che doveva evolvere su una scala più ampia. Mi dispiacque però l’arresto improvviso di un dialogo che non aveva avuto il tempo necessario per svilupparsi ed esaurire le proprie potenzialità. Il nostro incontro era stato estremamente vivo, ma restava affrettato, incompiuto. Ne è dimostrazione l’interruzione di ogni comunicazione fino al maggio del 1977 quando, da borsista Humboldt a Bonn, ricevetti da Culianu la prima di tre lettere, nella quale, con tono vagamente nostalgico, auspicava la possibilità di un incontro: avrebbe potuto tentare una breve visita, sulla strada verso “casa” (ovvero Milano). La lettera di giugno, più interessante, spiegava però l’impossibilità dell’incontro annunciato a maggio. Tra Groningen e Milano, non aveva più modo di passare da Bonn. Seguì un altro silenzio, durato sei anni. La terza lettera mi trovò a Heidelberg, invitatovi dalla stessa fondazione Humboldt, in un momento in cui, in patria, ero diventato disoccupato, come conseguenza della confusa storia della “meditazione trascendentale” (1). Le autorità romene mi avevano fornito un passaporto col chiaro suggerimento di commutare la borsa di studio in esilio permanente. Néné, con tono pragmatico e cordiale, predispose un incontro in Germania che, questa volta, ebbe finalmente luogo. Venne a Heidelberg da dove, insieme a Gabriel Liiceanu, partimmo verso Parigi, dove avrei conosciuto i coniugi Ierunca (2), ai quali Néné aveva preannunciato telefonicamente il nostro arrivo: «Je vous apporte des primeurs» (3). In quell’occasione trascorremmo molto tempo assieme, spesso trattenendoci in lunghe conversazioni. Stranamente, sebbene ci trovassimo finalmente faccia a faccia, come desideravamo da tanto, “l’incontro” non si era realmente verificato: il contatto, anziché rinnovarsi e arricchirsi, era sprofondato. Nel 1977, pur non potendo vederci, eravamo ancora “uniti”: Néné sembrava insicuro, sospeso fra due mondi dalle cui “determinazioni” contraddittorie non era riuscito, sino ad allora, a sfuggire. Io, a mia volta, oscillavo tra il destino del ritorno e un eventuale esilio, privo di qualsiasi chiarezza sul piano professionale, nell’attesa febbrile di una sorpresa redentrice. In breve, eravamo entrambi infelici: avevamo di che parlare… Ricordo che, durante una conversazione telefonica, Néné mi disse, improvvisamente, qualcosa in sanscrito. Non capii nulla. Infatti, dopo un inizio comune nel campo degli studi orientali a Bucarest (conservo ancora la grammatica di Simenschi, che Néné mi aveva regalato), a differenza sua, io non avevo fatto progressi sul piano filologico. Mi resi conto che il mio vecchio amico mi aveva messo alla prova e che io avevo perso. Eppure, anche così, eravamo sempre noi, quelli prima della separazione: condividevamo riferimenti comuni e un certo piacere del gioco dialettico, con tutte le sue regole.

Nel 1983, le cose erano cambiate. Néné si era “normalizzato”, si era integrato. Quando cercavo di riprendere i nostri dibattiti sull’“Assoluto” dal punto in cui li avevamo lasciati, mi rispondeva, sorridente, che non aveva più tempo per questo genere di domande. Si offriva, invece, di consigliarmi metodi sicuri per un inserimento negli ambienti accademici occidentali, nell’eventualità – auspicabile, dal suo punto di vista – in cui avessi desiderato non tornare più in Romania. L’interiorizzazione schiva di prima era diventata, ormai, una serenità stabile. Néné si presentava bene, à l’aise, aveva un simpatico e discreto accenno di pancia. Non vorrei si pensasse io che stia spianando il terreno per un contrasto romantico tra lo studioso “arrivato”, sistemato e, sottinteso, coi piedi per terra da un lato, e lo “spirito” ancora giovane del ricercatore tenebroso della provincia danubiana dall’altro. Di pancia, grazie a Dio, ne avevo un po’ anch’io. Ma io avevo fatto meno progressi, lui di più – io in una direzione, lui in un’altra. In poche parole, non brancolavamo più nello stesso mistero. Néné stava ripercorrendo – o almeno così mi sembrava – i passi del suo maestro Mircea Eliade: aveva ceduto a un certo conformismo universitario dopo aver debuttato, come lui, nel nome di una folgorante autenticità. Ebbene, io avevo creduto che Néné avesse avuto la grande opportunità di incominciare là dove Eliade si era fermato e che, proprio per questo motivo, a lui fosse destinato un “decollo” più ampio e alto. Allo stesso tempo, percepivo nella costruzione intellettuale del mio amico una dimensione ormai tutta sua, proveniente dall’apertura, per me enigmatica, alle ultime novità tecnologiche (come gli spazi virtuali, internet, ecc.). Le sue ricerche assumevano, nella mia lettura, un’insolita sfumatura fantascientifica. Ancora una volta, Néné mi stupiva, conservando la sua “fenomenalità” ma, probabilmente a causa del mio (dis)orientamento, non era più un interlocutore. Dopo il 1983 ricademmo nel mutismo, fino alla sua inammissibile fine, essa stessa così “eliadiana”, in fin dei conti…

Quanto alla corrispondenza, mi scrisse ancora una volta, nel 1989, ma per via della mia situazione in quel momento (4), la lettera non giunse a destinazione. La lessi più tardi, pubblicata postuma nel volume Il peccato contro lo spirito (5), e fui molto toccato dalla solidarietà fraterna che Néné scelse di esprimermi in quel momento difficile della mia vita.

Ricordo un altro episodio della nostra giovinezza bucarestina, che coinvolse anche George Bălan (6). A ridosso degli anni Sessanta e Settanta, il musicologo riempiva sempre le sale all’Ateneo Romeno, con conferenze molto apprezzate, soprattutto per una certa piccante sovversione mistica. Bălan possedeva una buona (e, per quel periodo, rara) biblioteca nella sua casa a Sinaia. Mossi dal desiderio acuto per quei libri, io e Néné andavamo, di tanto in tanto, a studiare lì, col permesso del maestro che, in cambio, ci chiedeva di tradurre in romeno per i suoi discepoli alcuni testi di Rudolf Steiner. Néné affrontava, con la sua straordinaria abilità, venti o trenta pagine ogni mattina – il che mi faceva vergognare. Non condividevamo le opinioni del padrone di casa e talvolta nascevano polemiche. Un giorno, la tensione tra Bălan e Néné si spinse sino al parossismo. «Fermiamoci!» disse Néné. «Fermiamoci prima di provocare gli spiriti della casa!». Un istante dopo, una delle lampadine della stanza in cui ci trovavamo scoppiò.

Era inevitabile che George Bălan finisse nel mirino della Securitate. In circostanze che non ricordo bene, si pose il problema di un’azione comune in suo sostegno. Néné vi meditò a lungo e, durante una passeggiata nel parco Cișmigiu, mi disse: «Non m’immischio. Non è la mia guerra!». Successivamente, mi colpì, nella sua lettera del giugno 1977, la ricomparsa del tema della guerra: Néné si sentiva «alla vigilia di chissà quale battaglia». Mi chiedo ancora oggi quale fu questa sua guerra. Non ho una risposta certa. Ma è chiaro che il mio amico era impegnato in una crociata tragica, la cui posta in gioco mi sfugge, e nel cui vortice avrebbe trascinato la sua stessa vita.

 

  1. Nel 1982, a seguito di una sorta di “mini-rivoluzione culturale”, centinaia d’intellettuali furono licenziati e perseguitati, con la scusante che il movimento della meditazione trascendentale, incentrato sulle tecniche di rilassamento rese celebri dal maestro Maharish Mahesh Yogi (e introdotte in Romania da un ingegnere emigrato in Francia), avesse obiettivi sovversivi. In realtà, non era che un pretesto sfruttato dai vertici del regime politico di Ceausescu per mettere a tacere personalità potenzialmente scomode.
  2. Virgil Ierunca e sua moglie, Monica Lovinescu, grandi personalità dell’esilio romeno, fecero parte, con altri, della redazione di Radio Europa Libera.
  3. «Vi porterò delle primizie».
  4. Alla fine degli anni Ottanta, l’autore manifestò la propria solidarietà al poeta dissidente Mircea Dinescu, mentre questi si trovava agli arresti domiciliari.
  5. Ioan Petru Culianu, Păcatul împotriva spiritului: scrieri politice, Nemira, Bucarest 1999 (pubblicata successivamente, come tutti i titoli di Culianu, da Polirom).
  6. Il musicologo George Bălan (1929) fu un’importante figura culturale nella Bucarest postbellica. Dal 1977 si stabilì in Germania, dove fondò la scuola di Musicosophia, che si diffuse in tutta Europa.

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