Angel. Del melodramma

Giulio Sangiorgio
François Ozon n. 2/2016
Angel. Del melodramma

«È solo una donna inglese frustrata. Scrive delle porcherie, e non le fa mai». Così Julie si rivolge a Sarah, protagonista di Swimming Pool (2003). La sboccata e sensuale lolita, scopriremo poi, non è che una creatura dell’artista, un personaggio del libro in cui la scrittrice stessa si è rinchiusa, un doppio osceno, uno sfogo letterario di desiderio represso: il film è, in larga parte, il libro di Sarah, un Kammerspiel giallo e, in primis, un cosciente scandaglio d’autoanalisi, uno specchio surreale, una sottile strategia di vendetta meta di un’artista nei confronti del proprio editore.

Secondo Ozon1 è proprio Swimming Pool, per tema e primo parziale approccio alla lingua inglese, il film con cui il regista si prepara ad Angel. La vita, il romanzo (2007), secondo capitolo di una trilogia sul romanzesco che si conclude con il teorico Nella casa (2011). Tratto dal romanzo omonimo di Elizabeth Taylor, ambientato tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra e ispirato alla vita di Marie Corelli, scrittrice di gran successo in epoca vittoriana, poi facilmente dimenticata dall’Inghilterra e dal mondo, Angel differisce dai due film citati nel presentare una protagonista intellettualmente naïf (Romola Garai, in estatico, sublime overacting), incapace di ragionare su stessa e su quel che scrive: è figlia del feuilleton, e non ne è mai stata lettrice. Solamente, e naturalmente, scrittrice. Un puro spirito del romanzesco, irrelato con l’intorno, nato in una piccola camera sopra la drogheria di famiglia, in provincia, e noncurante di ogni forma di realismo. La forma di un principio di piacere incantato, sconsiderato, cieco (un carattere che, nel terribile finale, si fa letterale). Una scrittrice, con il suo catalogo kitsch, il suo cumulo di artifici pacchiani e il suo senso del bello stupidamente barocco, che un editore londinese (Sam Neill) consacra al successo istantaneo. Angel in Paradise, finalmente, letteralmente, marchianamente: Paradiso è la tenuta dalla protagonista da sempre anelata, infine acquistata, in cui la donna rinserra il suo sguardo, insieme a tutte le piccole cose di pessimo gusto, come fosse sul serio la sua Xanadù. Un No trespassing, rivolto al reale. Eppure il film non si lascia rapire da Angel, dal suo delirio allergico al mondo: se in Swimming Pool e in Nella casa, come in Sitcom. La famiglia è simpatica (1998) e Ricky. Una storia d’amore e libertà (2009), l’immagine si perde sognando con gli occhi dei suoi protagonisti, qui Ozon preserva un preciso realismo psicologico, una misura oggettiva nel descrivere i rapporti tra i personaggi, mentre è la scena a farsi stucchevole teatro di posa con sfondi posticci, è la musica di Philippe Rombi a rincorrere i toni dei mélo Universal, sono le scenografie ad accendersi di colori sgargianti, a bagnarsi di pioggia improvvisa e a tracciare un arcobaleno trionfante per esaltare un amore. Angel è un personaggio grottesco, una caricatura scritta da se stessa, ma il film non è la parodia di un genere. È un’appropriazione sentimentale e raffinatamente critica: se i caratteri del mélo si gonfiano, è per soffiare sulla tragedia del personaggio, sul suo imbellettare il reale di paccottiglia romantica, sul suo sciocco, doloroso, beffardo cancellarlo tra le righe del romanzesco. Si veda, per dire del realismo psicologico del film, come è descritto Esmé (Michael Fassbender), l’artista che Angel ama, e che sposa: narcisista e insicuro, orgoglioso umiliato e umiliante, rancoroso e sdegnante, attratto dalla donna per compassione umana e denaro, colmo di sensi di colpa e incapace di restarle fedele, schifato dal gusto popolare e triviale che invera. Un personaggio scisso, problematico. Il mélo, per Angel, è una patologia del reale, un problema di sguardo. A causa del suo successo finisce per essere il personaggio principale di uno dei suoi romanzi rosa, adolescente protagonista del sogno da sempre sognato, bimba in casa di bambola, lontanissima dal principio di realtà, alienata, annebbiata di storie (scrive delle porcherie, e non le fa mai: non ci sono scene di sesso se non violente, Angel non gode esistendo, ma raccontando). La vita è il romanzo. Angel non riconosce come vere le proprie parole («Nulla di quello che le sto dicendo – dice a Théo – mi sembra reale. E un giorno potrei smettere di crederci persino io stessa»), rilegge mendacemente ogni momento della propria storia personale (cancella Norly dalla propria biografia, ammanta risibilmente la madre morta di uno statuto artistico impossibile, fa del discorso funebre in nome di Esmé una sciatta e tronfia scena madre teatrale, si inventa un desiderio di paternità che l’amato ha già appagato…) e anche quando, paradossalmente, incontra il vero, è solo un incidente di scena: sul finale, sussurrando morente a Nora (Lucy Russell) «sei l’unica persona che mi abbia veramente amata», dice la verità, ma questo risarcimento per l’amore omosessuale e platonico della segretaria è per lei solo e soltanto l’ultima riga di un antico copione, Lady Irania, perché le ultime parole di Angel sono le stesse che la sua eroina pronuncia nel finale della pièce allestita a teatro. Quando il reale (la fuga verso la Guerra, il suicidio, il tradimento scoperto di Esmé) entra a Paradise, per Angel è troppo tardi: non è in grado di affrontarlo, di elabolarlo (si veda il confronto con Angelica, il positivo di Angel, amante di Esmé, madre di suo figlio, precedente proprietaria della tenuta: il confronto con quel doppio che si è preso i suoi sogni, lasciandole solo la casa-prigione, la maison del suo autismo, si risolve nel niente di un rituale borghese al limite eccentrico, in una muta uscita di scena, in uno sfogo allucinatorio silente). Sul finale, Nora e Théo, il suo editore sono le uniche persone che partecipano al funerale. Le due persone che l’hanno amata sul serio. Un paradosso: mentre l’arte del paria Esmé2 è destinata a durare, oltre la morte dell’uomo, quella di Angel, che del suo successo è vissuta, è scomparsa con la Guerra, insieme al suo tempo. Partendo a ritroso dal mesto finale della parabola – e a leggere Angel in parallelo con Swimming Pool e Nella casa, e con il loro insistere sul rapporto tra creatore e industria (editore, lettore) – si possono cogliere le responsabilità di Théo: perché è lui, per amore prima che per denaro, l’artefice del successo di Angel, perché è lui a non essere riuscito a salvarla da se stessa, dalle storia di pessimo gusto, da quel remunerativo e pericolosissimo principio di piacere che l’ha sottratta al mondo. Una colpa non secondaria, quella dell’editore: è per lui che la vita si è fatta romanzo. E non c’è stato ritorno.

 

Note

1 Vedi www.francois-ozon.com/fr/entretiens-angel/47-francois-ozon.

2 Nel film, i quadri di Esmé sono dipinti da Gilbert Pignol, già autore dei dipinti nel Van Gogh di Maurice Pialat (1991).

 

 

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