Editoriale: lunga vita all’Altrove, lunga morte alla Realtà

Andrea Scarabelli
Dylan Dog – Nostro orrore quotidiano n. 16/2020
Editoriale: lunga vita all’Altrove, lunga morte alla Realtà

C’è qualcosa di perennemente irrisolto in molti albi di quel fumetto che esordì nell’autunno del 1986, entrando pian piano nell’Immaginario Collettivo di almeno due generazioni, influenzando cinema e musica, creando comunità di lettori e appassionati. Le storie del personaggio di cui parleremo si aprono sempre con l’irruzione di un “corpo estraneo” tra le pieghe del reale, un elemento “altro” che fa vacillare le certezze e le pigrizie intellettuali di quegli esseri umani che noi tutti siamo, abituati a starcene tranquilli, chiusi nelle nostre case, domiciliati in una realtà tridimensionale impermeabile, sembrerebbe, al Grande Altrove. Il cliente di turno (il più delle volte una cliente, spesso particolarmente attraente) si reca in un bizzarro appartamento londinese, dove viene accolto da un campanello che strilla all’impazzata e un assistente che di Groucho Marx ha sia il nome sia l’aspetto: è lui ad accogliere il malcapitato o la malcapitata, inondandoli di battute tali da far loro rimpiangere di esser nati. Freddure che seguiterebbero a infliggere al cliente di turno supplizi danteschi se, a un certo punto, non intervenisse il padrone di casa, Dylan Dog, che da metà anni Ottanta vive al 7 di Craven Road. Ora, in realtà a Londra di Craven Road ce ne sono due; la più centrale sta a Westminster: è facile trovare il civico 7, che oggi ospita un Café Dylan Dog, omaggio della capitale inglese a uno dei più originali eroi di tutti i tempi. Che però di origini britanniche non è, ma italianissime, anche se il suo creatore, Tiziano Sclavi, ha deciso di assegnargli le fattezze di Rupert Everett (il quale, per la cronaca, restituirà il favore nel 1994, interpretando l’alter ego di DD in Dellamorte Dellamore di Michele Soavi, il film decisamente più dylandoghiano tra quelli apparsi sul grande schermo).

Torniamo all’Altrove, ad ogni modo, ben più interessante del nostro mondo, che frequentiamo tutti i santi giorni. Salvato dal supplizio dell’umorismo di Groucho, il cliente di turno si accomoda nello studio dell’Old Boy, esponendogli il proprio caso, il più delle volte “rimbalzato” da Scotland Yard, tra risatine e sopracciglia inarcate (non dell’Ispettore Bloch, però, vecchio amico di DD purtroppo di recente andato in pensione).

Il nostro detective privato, infatti, non si occupa di casi “normali”: il suo campo è l’occulto e il paranormale – più in generale, ciò che appartiene ai domini del bizzarro. Potrebbe essere considerato un “allievo” di Jacques Bergier e Charles Fort, due intelletti curiosi ed eccentrici che, in indimenticabili Enciclopedie dell’Impossibile, passarono la vita a collazionare e catalogare tutti quei fatti che sfuggono alle ferree leggi della scienza e alla tirannia del rapporto causa-effetto.

Come noto, Dylan non è stato certamente il primo a essersi occupato di cose del genere, legate al folklore o alla magia, a spiriti e leggende: se, rimanendo nel mondo del fumetto (e in casa Bonelli), quattro anni prima di lui aveva debuttato Martin Mystère, “Detective dell’Impossibile”, una rapida incursione nella letteratura – soprattutto fantastica – svela la presenza di tutta una serie d’investigatori, medici e ricercatori alle prese con l’inspiegabile. Tanto per fare qualche esempio, suoi antecedenti ideali sono il John Silence di Algernon Blackwood, il Martin Hesselius di Sheridan Le Fanu, il Van Helsing di Bram Stoker, così come l’“Antiquario” di Montague Rhodes James, lo Zaleski di Matthew Phipps Shiel, il “detective dell’occulto” Flaxman Low di “E.” e “H. Heron”, il Ghost-Finder Carnacki di William Hope Hodgson e il Taverner, “dottore dell’occulto” raccontato da Dion Fortune (se è per questo, tra l’altro, anche il celeberrimo Sherlock Holmes se la vide, di tanto in tanto, con casi ai limiti del paranormale, al pari del suo autore, Arthur Conan Doyle, che non era affatto a digiuno di occultismo e spiritismo…).

Le avventure dell’Indagatore dell’Incubo mescolano e citano, per così dire, tutte quelle degli altri personaggi appena citati, costituendo un vero e proprio atlante di ciò che sfugge al controllo totalitario della ragione. Dylan ascolta attentamente i clienti che vuotano il sacco di fronte al suo scrittoio: da proverbiale scettico, è abituato a non prendere nulla per oro colato, ma al tempo stesso a non escludere nessuna possibilità, finanche quelle più assurde e improbabili. La maggior parte delle volte accetta il caso con riserva, dopo aver formulato il suo tariffario: cinquanta sterline al giorno (divenute cento a partire dal n. 145) più le spese. Benché, in realtà, spesso finisca per lavorare gratis, specie se a chiederglielo sono clienti bisognosi. E non è che navighi nell’oro…

Alla valutazione e “accettazione” del caso seguono le indagini vere e proprie, autentiche incursioni nell’Immaginario, negl’interstizi della psiche e della realtà, nella Twilight Zone raccontata sul piccolo schermo da Rod Serling, in quelle “zone d’ombra” da cui sembra provenire la sua singolare clientela. Fino alla conclusione, che rivela la verità – una verità spesso ben più terribile di quella intravista all’inizio.

Ma… c’è un ma. Spesso e volentieri, nelle ultime righe – tavole, pardon! – accade qualcosa che riapre la partita, gettando un’aura d’incertezza, complicando ulteriormente il rapporto tra il nostro mondo e una Zona del Crepuscolo (protagonista di due indimenticabili albi “dylaniati”, come dicono i fan) più vicina di quanto noi si possa immaginare. Insomma, qualcosa non va, come avrebbe ripetuto agli inizi degli anni Novanta, dall’altra parte dell’Oceano, un altro grande detective del sovrasensibile – televisivo, questa volta –, ossia il mitico agente Dale Cooper, protagonista della serie lynchiana Twin Peaks. I conti non tornano: il mistero è svelato, ma c’è un dettaglio che sfugge sempre, ingarbugliando la matassa e lasciando aperto il finale. Non è da escludere che sia proprio quel senso d’irrisolto uno degli ingredienti che hanno reso epocale il fumetto a cui è dedicato questo numero di «Antarès».

A onor del vero, quello che avete tra le mani è un fascicolo piuttosto “sofferto”. A lungo ci siamo chiesti se affrontare o meno l’impresa, soprattutto perché è da anni che «Dylan Dog» è irrimediabilmente cambiato. Sapevamo fin da subito che, mettendo su un numero dedicato a lui, avremmo dovuto per forza di cose parlare di un character che, di fatto, non esiste più.

Che prima o poi Dylan Dog avesse dovuto perdere il proprio mordente era prevedibile. La situazione ha raggiunto l’acme nel Terzo Millennio – trame troppo ripetitive, finali scontati… – cui seguì un’improvvisa virata, che assegnò allo spirito originario del fumetto direzioni diverse: sia abbandonando molti dei personaggi, dei luoghi e delle trame che avevano immortalato DD, sia orientandosi verso l’attualità, il cronachismo spicciolo e altre cose che in realtà erano i motivi per cui molti lettori (incluso lo scrivente) non lo avrebbero mai letto.

Parlandone con amici altrettanto fanatici, così come leggendo scambi d’opinioni in rete, su forum e blog, mi è sempre parso che molti dei lettori apprezzassero le sue avventure proprio nel loro aspetto più “contestatario” nei confronti della realtà. Di quel fumetto amavano l’idea di mettere tra parentesi il mondo “reale”, con tutte le sue piccolezze e meschinità, tralasciando la cronaca a favore dell’Immaginario. Una contestazione totale senz’appello o compromessi, redenzione o palingenesi.

C’è un punto che, però, va chiarito fin da subito. Non che, nella sua Età dell’Oro, l’Old Boy avesse tralasciato l’attualità. Anzi. La prendeva di petto, schierandosi sempre in difesa dei più deboli, dei vinti, di ciò che la normalità considera eccessivo e mostruoso. Lo ha sempre fatto, ma senza mai scadere nei luoghi comuni o allinearsi alle mode del momento, né obbedendo al “politicamente corretto” o ad altre baggianate di questo tipo. «Dylan Dog» è sempre stato un fumetto impegnato: lo dimostrano le campagne di cui si fece testimonial – contro la droga e l’abbandono ferragostano degli animali domestici, tanto per dirne una, anzi due (chi non ricorda Botolo, il cane del mitico albo Johnny Freak, tragica radiografia di una famiglia borghese che, dietro la melassa delle buone maniere, segrega in casa un figlio disabile, usandolo come riserva d’organi per il fratello, rampante e spregiudicato self-made man tutto “pubbliche relazioni” e liberalismo?). Ha sempre preso posizione sui temi che costellavano – e costellano – i dibattiti sull’attualità: l’immigrazione, denunciando i mercanti di schiavi di ieri e oggi, la mafia, lo sfruttamento della prostituzione, l’eutanasia nel magnifico Mater morbi (n. 280) e la situazione delle carceri nell’albo “gigante” I peccatori di Hellborn (n. 10)… Ha sempre affrontato le sfide del presente ma in modo controcorrente, mai banale e scontato, facendo riflettere e accompagnando all’età adulta molte adolescenze.

Chi segue «Antarès» da un po’ avrà notato che questo Editoriale è scritto in prima persona e firmato. In sedici numeri – anzi, diciassette – è la prima volta che accade. Non ce ne saranno altre: a importarci, infatti, sono le idee, non chi le formula. Ma il caso in questione è un’eccezione: è impossibile parlare di «Dylan Dog» in una persona diversa dalla prima. È il carattere generazionale del fumetto di cui stiamo parlando: parlarne e parlare di sé, in fondo, è lo stesso. Il fatto che, in questo caso, sia impossibile scindere il vettore (auto)biografico da quello letterario è forse una delle ragioni del successo di DD.

Non ricordo più chi ha dato questa definizione di evento epocale. Doveva essere un francese, forse Baudrillard. Sta di fatto che, secondo l’ignoto filosofo, un evento è tale quando tutti ricordiamo le esatte circostanze del momento in cui ne abbiamo avuto notizia. Chi ha dato questa definizione si riferiva all’11 settembre. Pensateci bene: son certo che ognuno di voi ricorderà cosa stava facendo quando ricevette notizia dell’“attacco alla democrazia”, come fu definito ingenuamente e faziosamente dai giornali benpensanti di allora. Un fatto è epocale quando, persino a distanza di anni, serbiamo memoria del momento esatto in cui irruppe nelle nostre vite, interrompendo la nostra quotidianità (non è da escludersi che lo stesso carattere di “evento epocale” sarà destinato a connotare anche la pandemia globale che da qualche tempo a questa parte sta flagellando il nostro pianeta, i cui esiti sono tanto imprevedibili quanto inquietanti). Ebbene, parlando con amici “dylaniati”, mi sono accorto che tutti ricordano il loro primo album, come fosse una sorta di “primo amore”, e le circostanze in cui lo lessero.

Il mio, tanto per fare un esempio, fu il n. 71, I delitti della mantide. Avevo dieci anni (la stessa età “tipografica” dell’Indagatore dell’Incubo; io sono nato a giugno, lui a ottobre): lo leggevo camminando per strada e la lettura mi assorbì al punto che finii contro uno di quei paletti metallici piantati nel cemento milanese. Il fumetto mi cadde di mano e mia madre, dopo aver tragicamente presentito tutti i danni che avrebbe causato la lettura nel corso degli anni, vide la copertina dell’albo, vietandomi tassativamente di leggere altri esemplari di quel fumetto “osceno”. Divieto che, ovviamente, ignorai, scoprendo in quel momento il naturale antagonismo che si sviluppa tra l’autorità e chi ama la lettura. Di storie come questa ne ho sentite a bizzeffe. Non c’è lettore che non ricordi la prima volta che giunse a Craven Road 7. A partire da quel momento, non ci fu stagione, né viaggio, né vacanza, che non fossero accompagnati da uno o più albi di DD. E lo stesso accadde a moltissimi altri lettori. Quando avvenne la svolta di cui sopra, che portò molti ad abbandonare quello che fu un intransigente amore di gioventù, non ci indignammo, né scrivemmo stupidate su Facebook (al tempo, non c’era ancora): ci sentimmo unicamente un po’ più soli. Era come se un pezzo della giovinezza se ne fosse andato.

Ad ogni modo, dopo aver titubato a lungo, ecco finalmente questo numero di «Antarès», che intende celebrare il Dylan Dog che fu, quello dei primi duecento albi (la periodizzazione, ovviamente, è sempre a discrezione del singolo lettore…), che hanno stregato l’immaginario di oltre due generazioni. Quello che ha dimostrato – a giovani e meno giovani – che la normalità spesso cela mostri degni di H. P. Lovecraft (a proposito, fu tramite DD che molti, incluso il sottoscritto, conobbero il Demiurgo di Providence, evocato in molti albi e approfondito nel dossier I cent’anni di orrore di H. P. Lovecraft, creatore di miti, uscito sull’Almanacco della Paura 1991 a cura di Gianfranco de Turris, Maurizio Colombo e Stefano Marzorati). Nelle pagine che seguono non troverete il Dylan Dog di oggi ma quello antiborghese e spregiudicato delle origini, che in ogni albo aveva un amore e un dolore (delle sue clienti, tra l’altro, s’innamorava eccome, altro che algido playboy “machista”, come si dice spesso); il Dylan che si confronta con la Morte, che legge tra le pieghe del reale in cerca di qualcos’Altro. Sia quello de Il lungo addio (n. 74) e del già citato Johnny Freak (n. 81), sia quello più truculento dei primi albi, ma anche il personaggio che ha fatto scoprire ai suoi lettori la letteratura weird e fantastica, gotica e poliziesca (senza dimenticare i Grandi Classici, ovviamente), soprattutto nei suoi indimenticabili Almanacchi della Paura. Inutile negarlo: quando la cultura “alta” si trova di fronte a universi come quello dei fumetti, spesso la reazione non va oltre un sorriso di scherno. I fumetti come letteratura di serie b, svago per adolescenti ritardati o adulti rimasti bambini… Forse potrà valere per altri prodotti del genere, ma come giudicare così storie che ripropongono, nelle trame e citazioni, Agatha Christie (i cui Dieci piccoli indiani diventano le Sette anime dannate del sesto Speciale del 1992), Mary Shelley (indimenticabile l’albo n. 77, L’ultimo uomo sulla Terra), Edgar Poe (citato, ad esempio, nel n. 7, La Zona del Crepuscolo) e Stephen King (con Daisy & Queen, n. 201, che riprende Misery non deve morire, o Accadde domani, n. 40, versione a fumetti de La zona morta)?

Il Dylan scelto da «Antarès» è quello più metafisico, che si muove con disinvoltura tra gli stati dell’Essere, considerando ugualmente “concreti” e “veri” tanto il piano dimensionale che si schiude in un retrobottega o in un vicolo cieco (non è forse vero che l’Aleph può trovarsi ovunque, anche in un sottoscala?), quanto le noiose e prosaiche vie di Londra. È quello che crede nel destino, che ne ascolta la chiamata e prova a decifrarne le tracce, che dà credito ai sogni, non vedendoli come il ricettacolo inconscio di tutte le immondizie diurne ma come luoghi nei quali si possono fare incontri decisivi, oppure avere anticipazioni di futuri indecifrabili; è il Dylan che ha fatto dell’Inferno non un luogo di dannazione, con tanto di fiamme o ghiaccio, ma un kafkiano e noioso girone burocratico, dove interminabili pratiche vengono passate di reparto in reparto, gestite da impiegati dalle fattezze mostruose (chiunque abbia avuto la sventura di frequentare la pubblica amministrazione ne avrà di certo incontrato qualcuno). Prima di essere politico o socialmente impegnato, il messaggio di questo Investigatore dell’Incubo è anzitutto esistenziale: da quando ha lasciato la polizia e ha cominciato a indagare per conto proprio, ha scoperto che spesso l’orrore non alberga in lontani castelli o lande desolate ma si annida nella quotidianità, dietro la grigia uniforme degli impiegati della City, nascosto dalle tendine delle case londinesi, sotto il paravento di una moralità borghese.

Il Dylan Dog privilegiato da «Antarès» è quello più retrò, con tutte le sue idiosincrasie, che ha paura di prendere l’aereo e non usa il cellulare, alle email preferisce le lettere, alla realtà virtuale quella concreta, fatta di cose e persone. Un eroe che non “condivide” sui social network le proprie esperienze ma le affida, armato di penna d’oca e calamaio, alle pagine ingiallite di un diario, al baluginio di una vecchia lampada. E nemmeno è infatuato dalle armi: usa una vecchia pistola, di volta in volta lanciatagli da Groucho, inseparabile Sancho Panza nelle sue esplorazioni dell’Ignoto. L’ha trovata, giovanissimo, in una grotta esplorata in un’invincibile estate lontana, assieme a uno dei suoi amori perduti, l’indimenticabile Marina Kimball de Il lungo addio.

Dylan è nemico delle verità assolute, dei dogmatismi, dei sacerdozi laici, è un eroe del dubbio, ai giudizi lapidari preferisce solitarie meditazioni, spesso accompagnate dal suo clarinetto e dal Trillo del Diavolo di Tartini. Risolve i suoi “casi” non affidandosi alle prove del Dna o a tecnologie avanzate ma arrendendosi al suo proverbiale “quinto senso e mezzo”, che gli trasmette fulminei colpi di genio, spesso mentre sta costruendo il leggendario galeone che troneggia sulla sua scrivania. Un modellino che, a distanza di tanti anni, non ha mai completato.

È un antieroe, insomma, le cui indagini, come già ricordato, affrontano tutte le questioni cruciali della modernità: dalla prepotenza della burocrazia al rapporto con la diversità, dal potere della tecnica alla politica politicante, spesso ritratta in modo spietato, dalla salvaguardia del patrimonio naturale di fronte all’industrializzazione selvaggia ai pericoli connessi alla scienza, dalla critica dei totalitarismi a quella dei mass media.

Ebbene, a questo DD «Antarès» dedica il suo sedicesimo fascicolo, immortalando un character epocale, sia nelle sue debolezze sia nelle sue qualità – che spesso, come accade nel caso di destini particolarmente interessanti, coincidono. Mi auguro che i lettori possano ritrovare un po’ di loro stessi nelle pagine che seguono, sentendosi meno soli, in compagnia di un Indagatore dell’Incubo che riuscì in un’impresa senza pari: aprire faglie nella nostra realtà, permettendo a qualcos’Altro di entrare nelle nostre vite, arricchendole e forzando la prigione che non ha muri (come disse una volta un dimenticato dadaista francese) della quotidianità.

Milano, febbraio 2020

A. S.

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